E subito – bastano uno sguardo tra le foglie ingiallite, il sapore umami del tè gyokuro, una cena a base di ramen, la voglia di un bacio rimandato per giorni – ti prometti amore. Ti affidi al sesto senso, credi sia fato, dono celeste, benedizione. Lo giuri dopo appena un paio di mesi davanti a parenti e amici, e a chi ti unisce per legge. Lo fai di corsa, superando in velocità ansia e razionalità. E lo dichiari apertamente che quello è il senso del Natale in arrivo, o della reciprocità del dono di Marcel Mauss. E piangi, per un solo attimo, le uniche lacrime di gioia, di sincera gratitudine. Poi, come una tassa, torna la vita reale, con le lacrime quotidiane, che invece non si possono contare; né versare, in certi momenti.
Il tempo d’amore insieme, quasi fosse un incidente di cui non siamo responsabili, diventa visita ginecologica, ecografia, analisi, risonanza, PET, esame istologico, verità, e un unico momento fatto di attesa. Cavi pelvici in simbiosi, dolori e metastasi che soltanto fisicamente decidono di stare da un lato o dall’altro dei corpi, quando, viceversa, contaminano ogni microscopico interstizio del nostro essere, già, da poco e per sempre, cosa unica.
È così inimmaginabile quel vago groviglio di ore, minuti, senza di te, che una sera di aprile ti propongo: andremo in Giappone quando sarà finita. E tu, già diradata, mi guardi come fossi la Maddalena e avessi in bocca, una bocca che subito dopo baci, un messaggio di resurrezione.
Varcata la soglia del Daijingu, la metropoli scompare nell’odore d’incenso. Lavo le mani alla temizuya, ma non la bocca. Non più. Mi avvicino all’honden e lascio cinque yen d’offerta. Mi inchino due volte, batto le mani cercando di fare meno rumore possibile e mi chino ancora una volta. Prego. Ripeto a mente, quasi senza respirare, la promessa che ti feci. Poi, compro un’ema a forma di casa e ci scrivo la promessa. Chiudo col tuo nome e una lacrima. L’appendo al graticcio, ma nascosta dietro a tante altre. E ripeto ancora la promessa sottovoce prima di liberare le mani.
Non acquisto il talismano, l’en-musubi omamori. Non abbiamo più alcun bisogno di protezione. Di noi, non resta che questa promessa; che sa di umami, di un gusto del tutto inaspettato.