I miracoli
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I miracoli

Esistono i miracoli: accadimenti eccezionali a carattere stupefacente. Se mettessimo da parte credenze popolari e religiose o limiti scientifici, i miracoli sarebbero intelligibili. Quando però coinvolgono i comportamenti umani, credo siano sempre decifrabili. Davanti ai miracoli, poi, – liberi dal bisogno d’interpretazione – si resta come inebetiti, oppure, al contrario, scatta qualcosa dentro e si comincia a inseguire la luce gloriosa ch’essi producono. Questo, in generale. Ma se si è, come il sottoscritto, un’anima nefasta, bigia, puzzolente, marcia, ai miracoli si reagisce così: ci si immerge nella carezza folgorante della loro luce, si gode per un momento di quella beatitudine, si lascia che la nostalgia ci penetri, come fosse un lutto, e infine si fugge. Si fugge prima di insozzare, avvelenare, contaminare la meraviglia di quell’eccezionalità. Anche se irripetibile. Se si è come me, insomma, ai miracoli si deve rispetto.

Ho distrutto una famiglia e due convivenze. Mia figlia ha meno considerazione per me di quanto non ne abbia per un rider del food sottopagato. Ero un ottimo dirigente aziendale, ho costruito una fruttuosa carriera. Ero, perché oggi, pur continuando a lavorare, sono stanco, e l’unica difesa che ho da opporre ai giovani impiegati rampanti e affamati, come lo ero anch’io, sono solo i miei ventisette anni di onorato servizio. E poi, mentre stavo solo aspettando la pensione e, magari, una donna ormai stanca della vita che si accontenti di invecchiare con un uomo qualsiasi, ecco il miracolo.

La vedevo che si aggirava intorno a me con una certa confidenza, mentre le altre giovani donne in ufficio – che io e gli altri uomini teniamo in costante osservazione – mantengono una reverenziale distanza, ma mai mi sarei aspettato una parola, poi due, tre, quattro. Piccoli mattoncini che erigevano un interesse. Un interesse che sulle prime ho creduto d’ambizione professionale. E invece no, voleva altro, voleva me.

Di lei dirò quasi nulla, per discrezione. È bellissima senza saperlo. Lavora da poco con noi, circa sei mesi. È gentile e ossequiosa, una brava ragazza. Ha visto in me qualcosa, oltre un’avventura, qualcosa di profondo che io per primo non saprei vedere. E ha meno dei trent’un anni di differenza che ci portiamo l’un l’altra.
E prima un consiglio, poi un altro, poi una confidenza sui colleghi, poi un’altra, poi un caffè al distributore, poi al bar davanti all’ufficio, fino a che non ho potuto non chiederle di uscire, in uno slancio illuminato da luce gloriosa. E incredulo, felice, folgorato, quasi ho stentato a credere al suono del suo sì, anche se ero certo che sarebbe arrivato.

Intense e tenere conversazioni celavano desiderio e timore. Siamo usciti due volte, e sempre ci siamo visti in un bar per finire poi a passeggiare in zone residenziali per le quali né io né lei avevamo interesse. Ci siamo conosciuti come avrebbero fatto due filosofi nell’antica Grecia. Fino alla tentazione d’un attimo, l’ultima sera, quando le strade si stanno per separare e non vorresti, quando stai per salutarti e non c’è altra soluzione che un bacio. Lì ho capito.

Non c’è stato alcun bacio, ma un abbraccio, solo un abbraccio. Ed è stato giusto così, nessun rimpianto. Che fosse durata una settimana o chissà quanto, quella cosa avrebbe offuscato e poi spento la luce miracolosa. Del resto, cosa avrei potuto donarle se non rimpianti?
L’avrei distrutta. Avrei distrutto un miracolo. E sarei stato dannato per sempre. Ora, ho almeno una vana speranza di purgatorio e, insieme, un dolce pensiero con cui addormentarmi la notte.
Ai miracoli si deve rispetto; soprattutto se sei dannato come me. È l’unica cosa in cui credo.

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