Che qualcuno mi ami. Ovvero. Che qualcuno mi dica, si premuri di dirmi, cosa farne del mio tempo, dei pensieri e sentimenti, dei miei talenti, se ne ho, come potrei, come tutti. Lo dico agli specchi, alle vetrine, agli schermi spenti, alle pozzanghere. Mi rivolgo al me che non vuole ascoltarsi. Non un gioco o un pungolo, è un diuturno martirio. Ogni giorno infilo un ago in un punto nascosto del corpo. Nessuno vedrà. Se non un medico, che tanto… Poi, conto. Finché le microscopiche crosticine non cadono, perdendosi nei giorni finiti che mai torneranno. Si esiliano in un’esistenza d’oblio. Come me medesimo, o una qualsiasi foglia. Non resto in un libro. Non recido alcuna storia. Sto conscio nell'incoscienza generale. Durevole come un acino. Pigro come una montagna.
Ho deciso così di riversare amore sull’unico essere che, negli ultimi anni, abbia donato al mio silenzio uno sguardo. Uno sguardo di tenerezza e di terrore, di bisogno e di disperazione. Un cane, anzi, una cagna. Trovata in strada, tra capannoni alla ricerca di un elettrauto. Età incerta, fame sicura, morte probabile. Ma si è avvicinata e l’ho portata a casa senza riparare il finestrino elettrico. Una cagna di strada persa da nessuno. L’ho lavata, sfamata, fatta visitare, vaccinata. Ho comprato tutte le cose che si addicono a questo tipo d’amore. Cibo, sacchetti per gli escrementi, collare e guinzaglio, una cuccia. Le ho donato il mio cuscino. L’ho avvolta coi miei vestiti vecchi d’armadio. L’ho chiamata Talea. Perché le crescessero radici. Perché mi desse radici.
L’ho amata come qualcuno vorrei mi ami. Le ho parlato. Le ho dato spazio nella mia storia, nel mio fluire di parole rivolte a nessuno se non a lei: Talea. L’ho accudita, coccolata. Ho pianto con lei e lei mi ha leccato il viso. L’ho portata a spasso, non solo per i bisogni, ma per il bisogno di esistere al mondo, insieme. Ho carezzato il suo petto, giocato coi suoi capezzoli. Ho avvicinato il suo sesso per scoprire cosa avrebbe provato. Cosa avrei provato io. Ho scoperto una confidenza, una reciproca fiducia indicibile. Tenera.
Ma Talea non parlava, se non cogli occhi. Occhi che subito hanno preso a chiedere, non a dire. Non a dirmi cosa fare. Cosa farne di me. Delle cose impercettibili a tutti che invece sento di avere, e di perdere a velocità scabrosa. Non sono riuscito a staccarmene. Non sono riuscito a riportarla dove l’ho trovata. Così, tornati a casa, l’ho uccisa. A mani nude, in atto sacro e silenzioso. Il collo spezzato.
È stato un errore prenderla. Un altro errore ignobile da aggiungere alla mia scarna esistenza senza che possa capirne il senso. Senza che alcuno ne riveli il mistero.