Cena d’autore

Cena d’autore

 

Il giovedì sera appuntamento da Sabatino, in san Frediano.

In inverno, col buio, il quartiere s’acquietava e s’infilava nel naso l’umidità della pietra. Le saracinesche scrosciavano a terra. I bar si gonfiavano di voci. I lampioni brillavano sui muri scorticati.

Sabatino: trattoria popolare, conduzione familiare dal 1956.

La porta a vetri dà su un bancone scuro, lucido d’usura, e dietro la scansia dei vini. Lunghe tavolate, sedie di legno, tovaglie di plastica, stoviglie alla buona. I bicchieri sono graffiati per i molti lavaggi e capita che le forchette abbiano un dente storto. Degli avventori attendono il proprio turno in piedi fra i tavoli, costringendo l’unico cameriere, un giovanotto dalle spalle curve, ad ariose gincane. Col grembiulone allacciato in vita corre da un tavolo all’altro. Dalla cucina sbuca la padrona a dar sulla voce e a sbracciarsi fra una comanda e l’altra.

Volteggiano sui tavoli fagioli all’uccelletto, caciucco, carbonara, ribollita, trippa, crostini. Il vino rosso nel fiasco, il bianco in caraffa.

Ne ho cercato tracce su facebook. La trattoria esiste ancora. Qualche variazione nel menù, la famiglia la stessa.

Trattoria popolare, mensa abituale degli artigiani del quartiere, ma con quel pizzico di stravaganza che fa la gioia di professori d’accademia, di qualche attore, che lascia sul muro una foto autografata, di un pittore di fama e dello scultore con la ragazza.

La ragazza entra lì come a una festa. Kajal, giusto un velo di fard. Niente di eccessivo.

Si veste con accurata negligenza, attenta a valorizzare il corpo sottile, il seno importante, il collo esile. Quelle serate le mettono nel sangue il gusto di apparire, di esibirsi.

Ma è il pittore di fama che tiene banco e lo scultore gli fa il controcanto.

Arrivano colleghi delle Belle Arti, quelli invitati e quelli no, un direttore di museo, dei figuranti. La tavolata si fa rumorosa, scomposta, eccessiva.

Tre carbonare, due ribollite, quattro tortelloni alla salvia, due paste e ceci e un piatto vuoto, ordina il pittore puntando un giovanotto in angolo, che sorride allo scherzo.

Le molte bottiglie si svuotano in fretta.

L’aria densa della trattoria risuona di brindisi. Qualche trionfo da festeggiare c’è sempre, un gallerista che non s’è tirato indietro, un’opera venduta, la promessa di una commissione, un trafiletto su “La Nazione”.

Non mancano imprecazioni contro i critici d’arte, che d’arte non sanno niente, tutti una cricca, un picci picci, una lobby, servi del denaro.

Si maledice la mediocrità dei tempi, sempre mediocri fin dall’inizio, ma uno mediocre come quello di oggi, non s’era mai visto. Esplodono manifesti artistici incisi nell’aria, prendono forma folgoranti illuminazioni accese e spente nel vino, con le cicche annegate negli avanzi del sugo a mo’ di sigillo.

Perché, anche se questa storia è senza tempo, al tempo della storia, nei locali pubblici, si poteva fumare.

Lei è la sola femmina. La sola, inoltre, che meriti il nome di ragazza, fra stempiati, calvi e strapazzati. Si sente detentrice di un tesoro che i presenti hanno già dilapidato, che dilapiderà a sua volta, ma ora le occhiate, i gesti bonari, le attenzioni sono per lei.

Si ubriaca, d’esaltazione e di cattivo Chianti.

Una sera bevve tanto da non reggersi neppure da seduta. Forse lui aveva parlato della moglie e la rabbia si era sfogata nel vino.

Doveva aver pronunciato frasi sconnesse e sconvenienti. Qualcuno l’aveva sollevata e portata via. Riaprì gli occhi in una vasca da bagno. Sembra che avesse insistito su quel punto per liberarsi da una sabbia immaginaria che s’infilava ovunque.

Un tipo accanto a lei la biasima.

Guarda come ti riduci, le soffia nell’orecchio, tanta intelligenza per finire a letto con uno così?

Ha un asciugamano attorno alla testa. Una luce riflessa nello specchio l’acceca. Si ripara gli occhi.

L’uomo la spegne.

Vorrebbe dirgli che si sbaglia, che lo scultore è caldo e morbido. Che ogni pezzetto, le rughe, i peli, le unghie, sono mescolati al suo corpo. Il suo corpo non sbaglia. Le parole si perdono nello stomaco.

Si affaccia lo scultore. La macchina è giù, ora ci penserà lui. Parla attraverso un megafono che distorce la voce.

La tirano su. Lei si aggrappa, solleva una gamba, scavalca il bordo della vasca. Le pareti vorticano. Appena dritta vomita.

Bene, bene, ti riprenderai prima.

Lo scultore la guida verso l’uscita. Lei resiste. Deve assolutamente dire qualcosa a chi è rimasto a pulire il bagno. Un’altra volta, adesso a casa.

 

Uno così l’aveva incontrato da un conoscente, che festeggiava il diploma in clarinetto. Mentre il padrone di casa si esibiva, lo scultore vantava a gran voce, fra un tramezzino e un bicchiere, l’allestimento del Nabucco al Teatro Grande, creature mesopotamiche, forgiate dalle sue mani. E ne sventolava il palmo largo e forte. Rideva e rideva, senza pietà per il clarinetto.

Era uscita da lì con la certezza di averlo già tutto dentro di sé. Ne stringeva, trionfante, l’indirizzo.

Anche da Sabatino, quando parlava del suo lavoro, lo scultore rideva e scuoteva la testa, scuoteva i riccioli, che coprivano a stento l’ampia chierica.

Coi vicini di tavolo lodava la panzanella fresca, i fagioli all’uccelletto ben amalgamati al pomodoro, il gusto del chianti che allappa la lingua, l’atmosfera del luogo, altro che gallerie.

Che l’avessero escluso dalla Biennale, era quasi un onore, che in certi posti, salvi i presenti, ci si arriva per raccomandazioni, affiliazioni, clientele e parentele. Intanto i teatri di Firenze era lui che volevano, per quel suo talento di coniugare modernità e forme classiche. Monumentalità e minimalismo di impronta concettuale.

Così i successi del pittore di fama, dalle quotazioni in costante crescita, facevano meno male.

 

Delle volte la ragazza è triste.

Sa che venerdì lo scultore tornerà dalla moglie a Livorno. Terminato l’ultimo corso in accademia, eccolo che arrangia in fretta e furia una valigetta.

Dai, mangiamo qualcosa.

Mangia tu.

Stronzo, pensa. Ma non ha il coraggio di litigare. Lui è stato chiaro fin dal principio. È sposato, ha una figlia. Le domeniche non sono per lei. Prendere o lasciare.

Dal venerdì alla domenica, fra tinello e camera da letto, nel ballatoio soffocato di piante, nella stanzetta della figlia, in soggiorno, l’insegue la solitudine. Cerca di annegarla nella vasca da bagno. Il cielo è opaco. Una pioggerellina spruzza sui vetri. La solitudine la guarda dal soffitto.

Esce dalla vasca, si avvolge nell’accappatoio di lui.

Se avesse un po’ di senno, scaglierebbe contro la vetrata del ballatoio una delle statuette di pietra sparse per casa, scodellerebbe una merda sul tappeto persiano e via. Tanti saluti, bello mio.

Sapete la cicala, beh, mi ha smerdato la casa e via, direbbe agli amici, buttandoci dietro un bicchiere.

Invece resterà lì ad aspettarne il ritorno. Ad aspettare il suo odore.

Il pensiero le procura un’estasi affannosa. Si stende sul divano, infila una mano fra le cosce, si accarezza immaginando lui che si avvicina.

Una domenica pomeriggio il campanello suona. La ragazza spera in un rientro anticipato.

Invece ecco sulla porta una morettina dagli occhi verdi. Cercava il professore, dice, si scusa per l’intrusione, per definire un bozzetto, uno schizzo, di scultura, su cui intende lavorare, è sotto sopra col lavoro, tutta la notte, per consegnarla in tempo, nella data che appunto, se non ricorda male, è il giorno dopo.

Tira fuori dalla borsa dei fogli, poi li ricaccia dentro.

Credeva, le sfugge, che il professore abitasse solo. Si guarda attorno, come se ancora sperasse di vederlo sbucare.

La ragazza, per solidarietà, la invita a bere un the.

Un the?, no grazie. Sì, va bene un bicchiere di vino. Con questo tempo grigio…

Come la capisce!

Anche lei, dopo l’incontro, aveva fatto irruzione in quella casa. Anche allora era un pomeriggio di pioggia. Aveva vagato prima di trovare il coraggio di suonare, ripassandosi in testa chissà cosa.

Aveva avuto fortuna.

Lui era in casa, indossava una vestaglia di seta, sul punto di versarsi un bicchiere solitario dopo una giornata girata male. Avevano condiviso il bicchiere e la cosa era venuta da sé. La stava aspettando, le aveva sussurrato, mentre teneramente le leccava il seno.

Niente a che vedere con la studentessa. Di traverso l’informa che il professore ha una moglie legittima e un’amante fissa, per cui veramente non c’è spazio. La riaccompagna alla porta e sta per abbracciarla, ma l’altra si gira e ridiscende le scale tenendosi stretta al corrimano.

 

Da Livorno lo scultore rincasa stanco e ingrugnito. Getta la borsa sul letto, la disfa in silenzio.

La invita da Bibe, loro due soli, a mangiar rane fritte e a contemplare la campagna moribonda. Si siedono vicino alla vetrata. Ha smesso di piovere e l’aria luccica.

Lei indossa un tailleur di marca. Gonna stretta, la giacca più lenta. Una camicia di seta rosa, le ballerine di vernice.

Sembrano una coppia vera.

Se fossi più giovane, se ti avessi incontrata prima…le dice, prendendole la mano.

A malincuore, certo, a malincuore.

 

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