Nel 1994 ho fatto un viaggio in Italia per inseguire una nuova passione. Nella prima settimana di dicembre di quell’anno mi trovavo a bordo di un
treno che da Padova andava a Roma dove, quattro giorni più tardi, il mio nuovo amico Alexi Lalas avrebbe giocato a pallone.
Lalas era quel tipo alto con la barba e i capelli rossi che era stato una delle stelle della squadra degli Stati Uniti durante i Mondiali di calcio: un torneo che, come le Olimpiadi, si tiene in un Paese diverso ogni quattro anni e che nel corso di quella estate si era svolto negli Stati Uniti. Lalas aveva giocato bene, tanto da attirare l’attenzione della squadra che rappresentava la città di Padova nella Serie A italiana, il più bel campionato di calcio del mondo.
Aveva firmato un contratto con il Padova e in agosto si era trasferito in Italia.
Tre mesi più tardi l’avevo seguito, nella speranza di poter trascorrere un po’ di tempo con lui e di imparare qualcosa di più sul gioco che negli ultimi tempi era diventato la mia ossessione.
Tanto Alexi quanto Jill McNeal, la sua ragazza, si erano rivelati molto più che ospitali e mi avevano dedicato una quantità di tempo a dir poco insolita.
Ma ormai era dicembre e, dopo aver visto Lalas giocare quell’ultima partita, sarebbe venuto il momento di tornarmene a casa.
Mi ero appena seduto al mio posto sul treno per Roma e stavo leggendo La Gazzetta dello Sport, quando fui notato da un uomo (avevo scoperto che
leggere La Gazzetta in pubblico era un metodo infallibile per fare conoscenza con gli italiani: le sue pagine rosa la rendevano inconfondibile e il fatto che,
in tutta evidenza, io non potessi essere scambiato per un italiano dava origine a una curiosità che aveva la meglio sulla riservatezza).
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L’Italia è formata da 20 regioni. Alcune leggendarie, altre estremamente popolari fra i turisti stranieri e altre ancora meno conosciute da chi viene da fuori, ma molto apprezzate dagli italiani. Poi c’è l’Abruzzo. La guida Frommer’s 1996 lo descrive come “una delle regioni più povere e meno visitate” di tutto il Paese. “Brullo e riarso dal sole... soggetto a frequenti terremoti, l’Abruzzo è... depauperato e aspro”. È una regione, diceva un’altra guida turistica, “nella quale c’è molto poco di interessante da vedere e ancor meno da fare”.
Una reputazione acquisita fin da tempi non recenti. Nathaniel Hawthome la visitò nel XIX secolo e scrisse fin da allora che la regione era “così priva di vita e piacevolezza da non essere suscettibile di decadenza ulteriore. Solo un terremoto potrebbe offrirle la possibilità di aggiungere rovine alle rovine attuali”.
E questo in alta stagione. Il poeta inglese Swinburne, per motivi mai adeguatamente illustrati, cercò di penetrare fra le difese montagnose d’Abruzzo nel-
l’inverno del 1879, ma fu respinto dalla “più furiosa tormenta di neve che mi sia mai capitato di affrontare”. Fece ritorno a Roma e non tentò mai più l’impresa.
Per quanto riguarda gli abitanti, Norman Douglas, scrittore inglese di libri di viaggio, nei primi anni del nostro secolo scrisse che “la loro vita è di miserevole e disgustosa indigenza”. La Frommer’s, in anni più recenti, ha rilevato che “molti dei suoi abitanti sono emigrati verso regioni più ricche”, lasciandosi alle spalle soltanto “gruppi familiari estremamente chiusi”, descritti in un altro testo come “atavici e introspettivi”.
“Questa è una terra che ancora oggi”, ha scritto Tim Jepson, “è in grado di fornire ambientazioni per un sacco di favole, con i suoi lupi, i suoi orsi, i suoi gagliardi contadini... paesini su colline spruzzate di neve, avvolti nella foschia fra corone di montagne selvagge, vallate profonde e fitte foreste; e un artigianato antico, praticato per i propri bisogni e non per i turisti”.
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Nei primi mesi dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, un giovane prete che si chiamava don Arbete si assunse il compito di ricostruire una parvenza di società civile fra le macerie di Castel di Sangro, dove alcune famiglie disperate cominciavano lentamente a fare ritorno dall’esilio cui li aveva costretti la guerra.
Il sacerdote cominciò con l’unico sistema che conosceva: un gruppo di ragazzini che avevano una voglia matta di tirare dei calci e una palla fatta di stracci vecchi tenuti insieme con lo spago. Verso l’autunno, il compito che si era assunto lo inorgogliva a tal punto che decise di sfidare un paese vicino, forse un po’ meno distrutto. La sfida venne accettata e, di buon’ora, una mattina di ottobre del 1945 – le strade erano ancora impraticabili per i bombardamenti, ma era rimasto illeso un breve tratto di linea ferroviaria – caricò i suoi ragazzi scalzi con la loro palla di stracci su un carro privo di sponde e con la pompa a manovella, e li trasportò per dieci chilometri fino al campo senz’erba e irto di sassi dove erano attesi dagli avversari. Avversari particolarmente arroganti, in quanto non solo dotati di scarpe, ma perfino di un pallone di prima della guerra, vero, di cuoio, per quanto un po’ sgonfio.
Nonostante queste sfavorevoli circostanze, i ragazzini di Castel di Sangro portarono via la vittoria – e portar via è il termine appropriato – scappando a gambe levate verso il carro ferroviario, affiancati dalla nera tonaca svolazzante di don Arbete che sprintava insieme a loro. Grazie soprattutto allo sforzo erculeo compiuto da tutti i componenti della squadra una volta saltati a bordo (e al lieve declivio che li favorì alla partenza), riuscirono a sfuggire ai loro furibondi inseguitori, e tornarono al loro paese devastato con resoconti così trionfali e inverosimili che pochi ci avrebbero prestato fede se non fossero stati confermati dal prete stesso.
Nel corso degli anni il pallone di spago e stracci venne sostituito da uno regolamentare da calcio, ma l’eroismo di quella prima squadra postbellica di Castel di Sangro definì una volta per tutte lo spirito con cui i suoi abitanti affrontano lo sport. La popolazione era scarsa, ma i risultati erano eccellenti.
La squadra cittadina nacque ufficialmente nel 1953 e nei decenni successivi il Castel di Sangro consolidò la fama (perlomeno entro i confini dell’Abruzzo meridionale) di compagine coriacea e particolarmente combattiva. Al punto da conquistare una lunga serie di successi nelle varie categorie dei campionati dilettantistici e semiprofessionistici.
Categorie che – e non è un aspetto secondario in relazione al futuro miracolo – erano nettamente distinte una dall’altra. Grazie alla sua posizione incontrastata al vertice della vita sociale, il calcio italiano ha sviluppato una struttura e una gerarchia talmente complesse, ramificate e universalmente rispettate da essere paragonabili a quelle del Vaticano o della mafia. Serie su serie su serie, e all’interno di ciascuna, gironi su gironi su gironi. È possibile tentare di visualizzarne la struttura attraverso l’immagine di una piramide, ma, soprattutto quando ci si avvicina alla base, la figura geometrica ortodossa tende a deformarsi e prende il sopravvento quella specie di disordine esistenziale così frequente in tanti altri aspetti della vita italiana.
Il miracolo di Castel di Sangro - Joe McGinniss
Il libro di McGinnis aprirà la prima serata della Festa delle Narrazioni Popolari: tre giorni di storie, libri, editoria indipendente, presentazioni, dibattiti, street art e musica.
A presentare il libro sarà il curatore Roberto Gagliardi, che si tratterrà, dopo la presentazione, per una serata di selezioni musicali soul, ska & 2tone.