Pascal D'Angelo alla Festa delle Narrazioni Popolari
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Pascal D'Angelo alla Festa delle Narrazioni Popolari

Pascal D’Angelo, poeta autodidatta, ci racconta un Abruzzo ancestrale, in cui per amore della superstizione si è pronti a tutto, anche a picchiare, a emarginare, a spezzare. È il tempo della malasorte e dei vampiri, delle accattone che sputano sentenze, dei bambini che si ammalano e delle credenze che prevedono come cura la vendetta. «Noi gente delle alture abruzzesi apparteniamo a un’altra genìa. Gli abitanti delle pianeggianti distese di Lazio e Puglia, mete invernali delle nostre transumanze, ci considerano poeti e veggenti. Crediamo nei sogni».

La sua figura e i suoi libri:  Son of Italy (edito da Readerforblind) e Poesie (edito da Radici Edizioni) saranno raccontati da Maura Chiulli,  Amedeo Di Nicola e Massimo Tardio, il 23 agosto a Civitaretenga in occasione della Festa delle Narrazioni Popolari.

Nell'attesa vi proponiamo di seguito l'introduzione di Maura Chiulli alla nuova edizione di Son of Italy.

*** 

«Bellezza è verità, verità bellezza» – questo solo sulla terra sapete, ed è quanto basta –.

È domenica, sono le otto del mattino e il sole è già alto e punta dritto al mio parabrezza. Ho deciso di andare a trovarlo, di tornare nei luoghi in cui Pascal D’angelo è stato un bambino; voglio ascoltare i discorsi che fanno gli alberi lassù, nel cuore dell’Abruzzo, dove il sangue della terra è verde, il rumore del mondo è tutto nei becchi degli uccelli.

Circa settanta chilometri mi aspettano.

Mentre guido per strade ancora impervie, curve e asfalti dissestati, mi fa eco nella mente quel verso del poeta John Keats sulla bellezza.

Il viaggio è nella poesia e questo vuol dire, dico a me stessa, che posso lasciar andare la materia delle cose e affidarmi soltanto alla pelle del mondo: è sulla frontiera, sul crinale della terra che cammineremo, in equilibrio tra il cielo e gli abissi. Ho una grande responsabilità: restituire il tuono che fa la vita, quando grida che non vuole arrendersi.

 

Pascal d’Angelo nasce nel 1894 in un villaggio vicino Introdacqua, un paese «abbarbicato in cima a una bellissima vallata di prati verdi e soffici cinti dalle spoglie cime bluastre della Maiella». La montagna è la madre e lui la lascerà a soli sedici anni per cercare una possibilità in America. Partirà, ancora ragazzo, con suo padre e in quegli anni, tra il 1900 e il 1915 oltre cinquecentomila abruzzesi lasceranno la loro casa per cercare fortuna all’estero1. Dalla transumanza all’emigrazione, da questo lembo di terra assolata ci si deve spostare per vivere.

Introdacqua mi aspetta, con il suo nugolo di case in pietra arroccate su stradine ripidissime, tutt’intorno a una torre che dal punto più alto del paese guarda e protegge. Le persone camminano lente, è domenica, l’aria è una brezza leggera e l’estate canicolare e umida della città qui è scalzata via da un sole diretto, asciutto, che non ferisce. Nessuna morsa, solo una carezza sulla pelle. La montagna mi abbraccia e mi viene in mente la verità che ha raccontato Pascal d’Angelo, la fedeltà con cui le sue poesie e la sua storia hanno reso onore alla maestosità di questi luoghi. Fin dalle prime pagine della sua autobiografia straordinaria, si intuisce il legame viscerale con la terra generosa o crudele, con la gente d’Abruzzo, con la vita che pulsa, nonostante i morsi della fame.

Pascal D’angelo, poeta autodidatta, in Son of Italy ci racconta un Abruzzo ancestrale, in cui per amore della superstizione si è pronti a tutto, anche a picchiare, a emarginare, a spezzare. È il tempo della malasorte e dei vampiri, delle accattone che sputano sentenze, dei bambini che si ammalano e delle credenze che prevedono come cura la vendetta. «Noi gente delle alture abruzzesi apparteniamo a un’altra genìa. Gli abitanti delle pianeggianti distese di Lazio e Puglia, mete invernali delle nostre transumanze, ci considerano poeti e veggenti. Crediamo nei sogni».

 

MEZZOGIORNO

 

Simile ad un compagno è la strada che corre innanzi a me e Poi si nasconde dietro una curva –

 

Chissà se per sorprendermi quando arrivo.

 

Il sole ha intrecciato un nido di luce sotto la gronda del mezzogiorno;

Cade in picchiata un’allodola dal cielo senza nuvole

Come freccia melodiosa intinta nell’azzurro, scoccata dall’arco celeste.

 

Ma i miei occhi trafiggono lontano, oltre l’azzurro soffice,

Nel luogo degli eterni amanti errabondi

Costeggiando gli ampi sentieri

Del silenzio.

 

L’America che trova Pascal D’angelo non ha niente a che fare con la madre Maiella, piuttosto appare come una matrigna crudele e dispotica, che non offre niente, ma pretende tutto. È la terra dei sogni che si infrangono sull’asfalto, dell’ingiustizia che diventa di carne e ossa, del freddo che spezza le mani e del caldo che arriccia la pelle. È l’America che esclude i miseri braccianti, che impone di restare italiano perché non lo vuole il sangue, se non impastato col cemento.

Come si può continuare a vivere in un’America che non lascia spazio, che è tutta un pasto da conquistare, un momento di pace da rivendicare? Come si può restare umani di fronte alla vessazione, allo sfruttamento?

Nella sua autobiografia, Pascal D’angelo ci racconta che per sopravvivere serve solo una cosa nella vita di un uomo: il sogno.

E in lui un sogno nasce pagina dopo pagina, parola dopo parola. Pascal d’Angelo legge e costruisce il suo lessico, impara le parole a memoria da un vecchio dizionario di inglese comprato per un quarto di dollaro, si appassiona alla poesia romantica di Shelley e Keats e inizia a comporre versi. La poesia è l’antidoto alla miseria di un’esistenza da spaccapietre sulle strade statali nel Nord del New Jersey.

«D’un tratto mi apparve chiara la meta. La bellezza si offriva ai miei occhi, l’avevo sempre istintivamente seguita (…)».

In Son of Italy Pascal d’Angelo, che accosta le parole a suo modo e ci regala la tenerezza anche quando sta sanguinando per davvero, racconta il mistero di un’intera generazione: ci parla dei paesani, delle traversate in mare, delle crudeltà dei “commissary man”, ci svela il lato oscuro di un’America che i sogni degli emigranti li vorrebbe mangiare e ci avvicina a lui, ai nostri paesani partiti un secolo fa.

Oggi per troppi versi è come ieri.

Pascal D’angelo con la sua autobiografia riavvicina intere generazioni.

Ci porta sulla ferita e massacra quando può, ma preme e accosta i margini addolorati della pelle soltanto perché il segno, la cicatrice è la salvezza. La letteratura è questo: è ambizione al punto più alto, all’assoluto, al punto in cui “io” diventa “noi”, ma è anche un po’ sutura, mano che stringe i lembi, parole che costruiscono ponti, che gettano semi anche quando il sole e la verità sembrano aver arso tutto.

In Son of Italy ho ritrovato tutto il dolore e il luminoso coraggio di cui la nostra vita ha ancora bisogno.

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