*Sarebbe persino superfluo ricordare quale evento di cronaca nera ha catalizzato l'interesse del paese nelle ultime settimane, tanto è il tempo che (giustamente) vi è stato dedicato. Eppure il caso di Giulia Cecchettin non va considerato un incidente isolato che cattura l'attenzione nella sua tragicità, bensì il sintomo rivelatore di una realtà radicata nel tessuto sociale italiano, e i dati forniti ad esempio dall'Istat confermano una situazione che, benché a volte tenda a essere mantenuta nell'ombra, ha proporzioni allarmanti.
La necessità di un'ampia riflessione sul contesto di violenza in cui questi terribili eventi si inseriscono sembra diventato finalmente impellente anche per i media e persino per la classe politica. Eppure tutto questo non può essere considerato una situazione nuova, perché quando si analizza la dimensione numerica della violenza di genere in Italia emerge uno scenario agghiacciante. Le cifre sono inquietanti, a fine novembre sono già state registrate 109 vittime di femminicidio nell'anno ancora in corso, ed è comunque solo l'apice di un iceberg che coinvolge milioni di donne che , nel corso della loro vita, hanno subito una qualche forma di violenza.
La riflessione ci porta oltre la mera enumerazione di statistiche, perché sottolinea come non è necessario arrivare a essere uccise per essere considerate vittime. Molte donne subiscono abusi e violenze senza che il loro grido di aiuto ottenga un'adeguata eco mediatica, e rappresentano una realtà che si snoda nelle pieghe quotidiane della vita, nelle ombre che si allungano dietro porte chiuse e storie che si ha paura a raccontare. La violenza di genere è un fenomeno pervasivo che tocca la vita di molte, indebolendo la trama stessa della società nel suo complesso.
*Per provare a lavorare sul problema bisogna però partire dalle basi. Il tentativo di individuare la motivazione dietro un femminicidio spesso si scontra con la dicotomia tra il considerare il gesto come il frutto di un'anomalia individuale o come sintomo di un problema ben più radicato nella struttura sociale. Da una parte, vi è l'inclinazione a raccontare il colpevole come un mostro, una figura patologica che si discosta nettamente dalla normalità. Dall'altra, si insiste sulla necessità di analizzare il contesto più ampio che favorisce la nascita e la crescita di tali comportamenti estremi. L'individuazione di uno squilibrio mentale come unica spiegazione per il femminicidio è senza dubbio una prospettiva riduzionista e giustificatoria che rischia di offuscare la complessità della questione. Questo approccio tende a trattare ogni caso come un'entità isolata, incapace di fornire risposte concrete alle radici profonde della violenza di genere. Ricondurre l'atto criminale esclusivamente a una deviazione individuale rischia di distrarre l'attenzione dalla necessità di affrontare le problematiche sistemiche e culturali che lo alimentano.
Perché, è lampante da tempo, non si tratta di singoli individui che, mossi da un impulso incontrollabile, compiono gesti efferati. È al contrario un fenomeno radicato in una cultura che in molteplici modi perpetua la disuguaglianza di genere, dove la società stessa spesso consente e giustifica comportamenti che, seppur non giungano all'estremo della violenza fisica, contribuiscono alla normalizzazione di un sistema in cui la donna è spesso oggetto di controllo e sopraffazione.
*Una riflessione a parte merita la famiglia della vittima, che reagisce alla tragica perdita di una figlia, di una sorella, con compostezza ed estrema dignità, generando quella che potremmo definire una apparente delusione fra commentatori, giornalisti e politici.
Non da oggi sappiamo che l'ossessione morbosa dei media per la tragedia e il dolore umano hanno creato un terreno fertile per una nuova forma di spettacolo emotivo, per una estetica del dolore. I giornalisti costruiscono un melodramma che si ripete ciclicamente: il crimine, la tragedia, i volti commossi e le lacrime a comando. Ma cosa accade quando qualcuno osa infrangere questa sacra liturgia del dolore, quando le reazione è composta e articolata, persino propositiva? Certi opinionisti, certi politici, certi giornalisti sembrano sconcertati, come se il dolore avesse un manuale di istruzioni che tutti devono seguire alla lettera.
Quando una famiglia in lutto sceglie di non partecipare all'orchestra emotiva mediatica, i giudici dell'estetica del dolore entrano in azione. I congiunti devono apparire sconvolti, devono versare lacrime in abbondanza, devono mostrare il dolore secondo lo standard prestabilito.
Parrebbe superfluo sottolinearlo, ma l'espressione del dolore dovrebbe appartenere a chi lo vive, non a chi lo spettacolarizza. Il sentimento provato va liberato dalla gabbia dell'estetica mediatica, che altro non è che un tentativo di manipolare le emozioni, di imporre uno standard che torna comodo soprattutto a un certo tipo di racconto stereotipato, a una certa tendenza narrativa che vuole annullare la riflessione complessa in favore degli istinti primordiali.
*Per affrontare la violenza di genere in modo efficace è essenziale, dicevamo, iniziare dalle fondamenta, sviscerando le impostazioni maschiliste e patriarcali che permeano la nostra società e la cultura in cui viviamo. È un viaggio che richiede un confronto onesto e scomodo con la realtà, dove forse la sfida più ardua di tutte è il riconoscimento personale, per gli uomini, di quanto siano intrinsecamente coinvolti in questo sistema, a prescindere dalla loro stessa volontà.
Il primo passo cruciale è riconoscere le connotazioni maschiliste e patriarcali che sono intrecciate nei tessuti stessi della nostra società. Non si tratta solo di gesti eclatanti di discriminazione di genere, ma di una serie di sottili presupposti culturali che permeano le interazioni quotidiane. È una consapevolezza che richiede per gli uomini una riflessione forse scomoda, una sfida a smantellare gli stereotipi radicati e a rifiutare le dinamiche di potere sbilanciate che sono state perpetuate da sempre.
Tuttavia la vera sfida si manifesta per il maschio nel riconoscere la propria involontaria complicità, consapevolezza che richiede una dose di umiltà e una volontà di mettere in discussione gli stessi comportamenti e modelli di pensiero, schemi culturali che hanno radici profonde nella storia e che vengono inculcati fin dalla più tenera età.
Questo riconoscimento personale è un passo cruciale verso una responsabilità condivisa nella costruzione di una società più equa. Non si tratta di autoincriminazione, ma di un atto di consapevolezza che spinge a esaminare criticamente il modo in cui si interagisce con il mondo. In molti casi si tratterà di un viaggio tutt'altro che breve, poiché richiede di svelare e sfidare preconcetti e comportamenti interiorizzati, sapendo che è comunque solo l'inizio di un percorso che darà i suoi frutti, forse, solo sul lungo periodo.
*Nel contesto italiano, il patriarcato si esprime attraverso una miriade di sfaccettature, che vanno dalle disuguaglianze salariali alla sottovalutazione delle competenze delle donne, che la società, lo sappiamo, spesso relega a stereotipi antiquati, etichettandole in base alla presenza fisica o stabilendo aspettative irragionevoli sul loro comportamento.
Un aspetto all'apparenza benevolo ma nella sostanza concettuale non troppo distante è il paternalismo, un atteggiamento che si manifesta nel trattare le donne come figure da proteggere anziché come individui capaci e autonomi. Il paternalismo è una forma subdola di controllo che permea vari aspetti della vita quotidiana, si cela dietro gesti di supposta premura, ma in realtà alimenta la visione delle donne come esseri incapaci di prendersi cura di se stesse. Questo comportamento contribuisce a una cultura che minimizza le voci femminili, limitandone l'autonomia e la libertà.
Per liberarsi da questi vincoli è imperativo riconoscere ancora una volta la complessità del problema. Non si tratta allora solo di individui violenti, ma di un sistema che perpetua dinamiche di potere sbilanciate, la direzione è smantellare le strutture patriarcali che tengono in ostaggio metà della popolazione, impedendole di raggiungere il pieno potenziale.
È solo attraverso una comprensione approfondita che possiamo sperare di spezzare le catene che imprigionano le donne in un sistema che le tratta come cittadine di seconda classe. Unendo le forze, sfidando gli stereotipi e smascherando le strutture che perpetuano l'ingiustizia di genere, possiamo aspirare a un futuro in cui le donne non debbano temere per la propria sicurezza e in cui la parità sia la norma, non l'eccezione.
*Questo ennesimo tragico episodio ha senza dubbio portato alla luce le ferite profonde di una società ancorata a strutture patriarcali, un sistema che persiste nell'opprimere le donne, relegandole a ruoli subalterni e, in alcuni casi estremi, sottraendo loro la vita stessa.
La normalizzazione della prevaricazione, verbale o fisica, crea un clima in cui l'oppressione diventa parte integrante della vita quotidiana. Le parole misogine gettano le fondamenta per azioni violente, e la minimizzazione di episodi di molestie contribuisce a una cultura del silenzio che protegge gli aggressori e umilia le vittime.
Non si può restare indifferenti di fronte a espressioni misogine né giustificare episodi di molestie con il silenzio, anche se purtroppo le radici di questa cultura sono profondissime, e il percorso verso il cambiamento richiede sia uno sforzo collettivo che una responsabilità individuale. Ognuno di noi, donne e uomini, deve esaminare le proprie azioni, le parole che sceglie di pronunciare e il modo in cui contribuisce, consapevolmente o meno, a questo stato di cose.
La responsabilità individuale è la chiave per rovesciare questa impostazione nefasta. Ogni gesto, ogni parola, ogni scelta riflette la società che siamo e che vogliamo diventare. Non possiamo più permettere che la paura e l'oppressione permeino le nostre relazioni, le nostre istituzioni e la nostra cultura. In questo cammino verso la consapevolezza e la responsabilità, dobbiamo rifiutare ogni ambiguità. Non è sufficiente non essere un aggressore, bisogna essere attivamente anti-aggressione, sfidando le norme culturali che la rendono accettabile. Solo attraverso un impegno radicale, una consapevolezza costante e un rifiuto inequivocabile del maschilismo tossico, possiamo sperare di creare un futuro in cui la violenza di genere sia relegata al passato oscuro della nostra storia. L'ora di agire, di rovesciare il paradigma, è adesso, perché il cambiamento inizia da ciascuno di noi.
*Naturalmente, come purtroppo era forse persino troppo facile prevedere, le belle parole vanno presto a schiantarsi sull'abitudine a non infastidire la realtà consolidata. Se nell'immediatezza della scoperta dell'omicidio si erano moltiplicate le promesse a lavorare sulla formazione affettiva a iniziare dalla scuola, sullo studiare modi e attività per sensibilizzare giovani e meno giovani al rispetto, se più in generale, semplificando, si rifletteva come poter far in modo nella pratica di proteggere le donne, tutto questo è durato una manciata di giorni.
Oggi, sui giornali, nelle trasmissioni televisive, si parla molto dell'assassino in carcere, ha pianto, non ha pianto, ha mangiato, non ha mangiato, chiederà la perizia psichiatrica, non la chiederà. Dei discorsi sistemici, della cultura da cambiare, del patriarcato, pare che se ne siano già dimenticati in parecchi. La mera cronaca nera, i dettagli del crimine, del carcere, sono tornati al centro della scena. Le riflessioni complesse non sono interessanti come i richiami viscerali. Forse è presto per dire sin d'ora se anche questa sarà un'occasione sprecata e se fra sei mesi o un anno ci ritroveremo a fare gli stessi discorsi, a scrivere le stesse cose, ma la direzione al momento non sembra quella sperata.