Dopo la morte di Silvio Berlusconi, lo scorso 12 giugno, Camera e Senato sono rimaste chiuse sette giorni in segno di lutto. E se da un lato questa decisione sottolinea un carattere cialtronesco da peggiore commedia all'italiana, dall'altro conferma come il Cavaliere abbia del tutto modificato il significato delle cose, segnando un prima e un dopo per la storia del Paese.
Allo stesso modo sarebbe però sbagliato credere sia stato lui a cambiare l'Italia e gli italiani, un pensiero consolatorio che vorrebbe attribuire a una sola persona dei difetti endemici presenti e acclarati nella nostra penisola da ben prima che l'uomo diventasse un attore protagonista sulla scena nazionale.
Non sarebbe corretto imputare a Berlusconi di aver sdoganato l'idea che ogni sotterfugio è giustificato per non pagare le tasse o sottrarsi alle leggi, di aver promosso una ignoranza diffusa e una mercificazione in qualsiasi ambito anche immateriale della società, di aver rimosso il pensiero logico, il senso civico e le responsabilità, individuali o collettive che fossero. Lui ha “solo” fatto comprendere agli italiani che tutto questo si poteva fare, e si poteva fare senza vergognarsene, anzi pure un po' vantandosi.
Quel curioso tratto nazionalpopolare per cui riusciamo a vantarci di cose sulle quali sarebbe meglio sorvolare. Ad esempio l'influenza che la figura di Berlusconi – e il relativo tragitto da imprenditore a politico – ha avuto su altri personaggi vagamente assimilabili e con una simile idiosincrasia alle più basiche regole democratiche, Donald Trump su tutti. Eppure tutti questi epigoni più o meno riusciti hanno basato il loro successo su un populismo identitario che non è mai stato il centro del messaggio del Cavaliere – che tuttalpiù è stato identitario incidentalmente, quando gli era necessario per convenienza politica e sondaggistica, e più di ogni altra cosa ha costruito una figura identitaria intorno a se stesso.
Berlusconi, da grande comunicatore quale è sempre stato, ha infatti sviluppato e venduto alla perfezione non un modello Italia, ma il suo proprio brand. E lo ha fatto talmente bene da far credere al suo pubblico – telespettatori, consumatori ed elettori – che lui e loro avevano gli stessi interessi, gli stessi sogni, le stesse aspirazioni. Ben consapevole comunque che nessuno di quelli che lo osannavano sarebbe potuto essere come lui, offriva al popolo una comunanza di valori che si traduceva in un messaggio semplificato, che ognuno poteva applicare alle necessità del proprio livello sociale.
In sostanza ha fatto intendere, prima di qualsiasi altra tendenza socio-politica, che era finito il mondo dove l'imprenditore o il politico siedono su un trono mentre il popolo è suddito, una gerarchia rimpiazzata da una uguaglianza nei fatti impossibile da far avverare, e genialmente superata dallo slogan di presentarsi alla pari, allo stesso livello. Ma non allo stesso livello dal punto di vista del denaro o del potere – che era, per l'appunto, inattuabile – ma delle pulsioni primarie, delle emozioni, un'affinità elettiva basata su una comunanza di difetti che, appartenendo a tutti, potevano dunque essere scusati. Il Re insomma sedeva sempre sul trono ma, condividendo le debolezze con il suo popolo, le giustificava.
Altri personaggi attuali – Elon Musk o Jeff Bezos ad esempio – sono probabilmente più potenti e influenti di quanto Berlusconi sia mai stato, eppure non hanno creato né mai creeranno quel livello di empatia, quell'effetto miraggio che nei momenti di maggior splendore appariva tanto nitido da poter quasi essere toccato con mano.
Una dimensione talmente ben sviluppata, talmente ben raccontata, da diventare misura del valore indipendentemente dai reali risultati raggiunti. Una bulimia mediatica così prossima alla venerazione da trasformare la persona in personaggio, e il politico, l'industriale, l'imprenditore in icona.