I Mai Morti sono i vivi di allora, quello che noi saremo per i vivi di poi. Mai Morti è un libro pubblicato nel 2012, a cura di Marco Lupo e Luca Moretti. I coccodrilli di morti suicidi o morti di fame o morti di noia ritornano nella rete. Che il loro spirito possa strisciare nelle nostre carcasse biodinamiche.
I Mai Morti sono bastardi del tempo che hanno vissuto, figli di una letteratura minore. Sono famosi o non lo sono. Sono esistiti o non lo sono. Sono scrittori o imbianchini, sono stati punti neri sulla scacchiera bianca o sono stati al margine, non importa.
Oggi, vivono per noi: Renée Vivien, Angela Maria Raubal, Jack Kerouac, Ennio Iacobucci, Miguel Pereira, Philip Seymour Hoffman, William Friedkin. Riesumati dalle penne di: Tiziana F. Grellenti, Luca Moretti, Luca Scacchetti, Alessandro Chiappanuvoli, Stefano Salvi, Luca Miraglia, Gianluca Colloca.
Renée Vivien, poetessa (Londra, 1877 - Parigi, 1909)
Voleva essere Saffo e ci riuscì. In un'epoca in cui le donne dovevano nascondere i propri desideri dietro ventagli di pizzo, Renée Vivien li urlava in versi di straordinaria bellezza. La chiamavano Musa delle violette ma era una tempesta in forma di donna, un'anima inquieta che trasformava il dolore in poesia e l'amore in arte.
Nella Parigi della Belle Époque, dove anche la trasgressione aveva le sue regole, lei scelse di essere irriducibilmente se stessa. Amava le donne con la stessa intensità con cui scriveva, senza compromessi, senza mezze misure. I suoi versi parlavano di passioni proibite con una franchezza che fece arrossire i salotti parigini e impallidire i critici.
Non era solo una poetessa maledetta, era una rivoluzionaria che combatteva con le armi della bellezza, e ha vissuto come una fiamma: breve, intensa, divorante. Si è consumata nel tentativo di bruciare più forte, di illuminare gli angoli bui dell'anima umana che la società preferiva ignorare.
Quando il suo corpo cedette, fragile come i petali delle violette che tanto amava, aveva già scritto abbastanza versi da alimentare i sogni di generazioni future. Se ne è andata come è vissuta: troppo presto, troppo intensamente, lasciando dietro di sé una scia di bellezza straziante e il profumo persistente della ribellione.
Ora riposa nel cimitero di Passy, ma i suoi versi continuano a sussurrare di amori proibiti e passioni devastanti, ricordandoci che la vera poesia non conosce limiti, non accetta catene, non chiede permesso.
Angela Maria Raubal, cantante lirica (Linz, 1908 – Monaco di Baviera, 1931)
Polizei Pistole Kurz, questa notte hai premuto il grilletto per la prima volta nella tua vita. Sarà la tua maledizione, la Walther PPK sparerà ancora, premerai il grilletto una seconda e ultima volta: il proiettile che mi ha colpito tornerà da te per confermarti che è tutto finito, per seppellirti nel cimitero che eleggerai a tua dimora, un cimitero grande come il mondo che con la tua folle battaglia vorresti conquistare.
Mi hai voluto sempre al tuo fianco, mi hai costretto a seguirti ovunque, è il modo che hai usato per non permettermi di crescere, di essere altrove, lì dove i miei sogni mi conducevano. Hai abusato della donna che stavo diventando, dell'immagine che cercavo di costruire di me, mi hai dipinto come i tuoi occhi altrimenti chiedevano.
Mi hai amato, sì, ma come si amano le cose, come dici di amare la tua terra e il tuo popolo, distruggendoli lentamente per controllarli. Anche quell’amore tornerà a te, nel buio del tuo rifugio, lì dove cadrai solo, seppellito da mille tremori.
Hai portato via la mia voce e il mio canto: il sorriso con cui tutti riuscivo a incantare. Ma ancora i miei anni illumineranno il cielo con lunghe lingue di fuoco, Wagner allora farà straripare gli argini, il Reno ti inghiottirà insieme a chi ti ha salvato dalla sciagura della mia morte.
Sarà il crepuscolo e ognuna di noi diverrà finalmente lo specchio di un uomo che uccide se’ stesso.
Sinceramente non tua,
Geli
Prinzregentenplatz, 16 Monaco. 18 settembre 1931
Jack Kerouac, scrittore (Lowell, 1922 - St. Petersburg, 1969)
Impenetrabile, tristissimo; entusiasta e patetico, visionario. Suo malgrado, la vicenda umana e letteraria che ha attraversato è la storia di una delle personalità più influenti della cultura – On the Road – non solo occidentale.
Giovanilista e mammone. Cronista di vite eccitanti, prosatore impareggiabile, uomo da un milione di parole: la sua sacca, al netto della narrazione, ha calcato più poltrone di bus che coda-di-pesce americane. Ha rinnovato "vie dei canti" solo formalmente confinate, ridotte in riserve naturali. Gettava l'asfalto, originava montagne, apriva deserti da cui spuntavano seducenti foreste metropolitane: la sua parola febbrile inesausta, un nuovo mito.
Si distinse tra gli scranni dei celestiali autodistruttori.
Sulla sua lapide, splenderà in luminose parole: "Meditava sul lago, solo con un cane”.
I miei ossequi, Mr. Jack.
Un tuo Dharma Bum
Ennio Iacobucci, fotografo (Morrea, 1940 – Roma, 1977)
Se fai questo mestiere, sai che la fortuna ti sfiora una sola volta nella vita e devi farti trovare pronto.
Ed Ennio è lesto la mattina del 30 marzo 1972. Invia per primo la notizia alla France Press di Saigon: i Viet Cong hanno attaccato nel Quang Tri, l’esercito sudvietnamita è alle corde, gli americani, che non credevano a un attacco, vedono incrinarsi la loro già provata credibilità. In una guerra che è, anzitutto, guerra d’informazione, quella notizia, che fa preludere al ritiro delle truppe statunitensi che ci sarà solo un anno più tardi, non deve uscire, non in quel modo. E così la fortuna di Ennio – l’unica nella vita – si tramuta in una fuga, disperata, in moto attraverso la giungla, braccato dagli americani, e in uno stop pesante per la sua carriera.
Ma Iacobucci non si perde d’animo. Nell’aprile del 1975 è il solo fotografo occidentale a immortalare la conquista della capitale della Cambogia da parte dei Khmer rossi. I suoi scatti sono pubblicati sulle maggiori riviste del mondo. Il New York Times lo candida al Pulitzer. Ma senza esito. La fortuna, anche questa volta, gli dà le spalle.
Lo stesso anno, cogli occhi colmi del peggio che un uomo possa vedere, torna a Roma. La normalità però è un assedio ovattato. I corpi straziati sono più familiari dei colleghi fotografi e del mondo delle agenzie. Il matrimonio finito con Giselle è una mina che a ogni passo non esplode, pur squarciando i respiri dal pulpito. A trentacinque anni Ennio si sente già troppo vecchio, ha perso la sua curiosità, la gioia del brivido. Si sente come Morrea, il suo paese, che si sgretola e spopola lentamente. È solo, povero.
Una mattina, s’impicca nella cantina di casa. In mano il ritratto di Giselle.
Miguel Pereira, militare e custode (Santo Amaro, 1918 – Pistoia, 2003)
Era il quinto di dieci figli, ma a differenza di Waterloo, Valtur, Lance, Zult, Valda, Zaida, Zelma, Roxona e Nevitan dovette accontentarsi di un nome ordinario.
Lavorò fin da piccolo nella fazenda dei genitori. I dodici chilometri per andare a scuola li fece di rado, tant’è che a vent'anni, quando si arruola volontario, c’è la parola “analfabeta” dopo il suo numero di matricola.
“È più facile vedere un serpente fumare che il Brasile entrare in guerra” era una frase in voga in quegli anni, poi il Brasile dichiara guerra ai paesi dell’asse e Miguel nel 1944 sbarca in Italia con altri 25.333 soldati della Força Expedicionária Brasileira il cui simbolo era – per l’appunto – un cobra che fuma.
Tenne un diario, vide la testa di un commilitone volare lontana dal corpo per via di una bomba e perse la sua per Giuliana, la figlia del primo italiano che incontrò, un mutilato della Grande Guerra.
Fu una delle cinquantotto storie d’amore tra i “pracinhas”, "soldatini", come venivano chiamati per la loro statura i soldati brasiliani e altrettante donne italiane, che il 7 ottobre del ‘45 partirono da Livorno alla volta del Brasile su quella che venne battezzata “la nave delle spose”.
Miguel e Giuliana si sposarono per procura, ma fu lui a tornare in Italia nel 1947 come custode del Cimitero Militare Brasiliano a Pistoia e poi del Monumento Votivo Militare Brasiliano, come fu rinominato dopo che nel 1960 le 462 salme dei soldati vennero trasferite a Rio de Janeiro, e a Pistoia rimase solo quella di un milite ignoto rinvenuta durante i lavori.
Alla morte di Miguel una targa col suo nome fu aggiunto a quello dei 462 soldati del Monumento. Nel 2021 l’omaggio di Jair Bolsonaro al Monumento Votivo lo fece rivoltare nella tomba, o quantomeno è quanto sostenne il figlio Mario, subentrato al padre come custode e che per questa affermazione venne licenziato dall’Ambasciata Brasiliana, licenziamento che poi il Tribunale di Pistoia giudicò illegittimo, rimettendolo al suo posto, liberissimo di pronunciarsi sulle abitudini post-mortem del padre.
Philip Seymour Hoffman, attore (Fairport, 1967 – New York, 2014)
C'è chi recita e chi diventa. Philip Seymour Hoffman apparteneva alla seconda categoria, un alchimista capace sullo schermo di trasformare la propria carne in oro puro. Non era bello, non era un divo, eppure era straordinario, un uomo comune che celava un universo di complessità, pronto a esplodere non appena la macchina da presa iniziava a girare.
Hoffman non interpretava personaggi, li abitava. Si immergeva nelle loro vite con una fame vorace, divorando ogni sfumatura, ogni tic, ogni segreto, e poi li restituiva al pubblico, nudi e crudi, senza filtri. Era un prestigiatore dell'animo umano, capace di estrarre verità dal cappello della finzione cinematografica.
Ma forse è stata proprio questa sua capacità di immergersi così profondamente nell'oscurità degli altri a renderlo vulnerabile, come se ogni ruolo lasciasse un residuo tossico dentro di lui, accumulandosi fino a diventare insostenibile, fino a farlo inghiottire dai suoi stessi demoni, lasciandoci orfani del suo talento elegante e viscerale.
Ora purtroppo ci resta solo da chiederci quante altre vite avrebbe potuto vivere sullo schermo, quante altre anime avrebbe potuto illuminare con la sua presenza magnetica. Philip Seymour Hoffman se n'è andato troppo presto, ma il suo lascito rimane, un monito a vivere intensamente ogni ruolo, sulla scena come nella vita.
William Friedkin, regista (Chicago, 1935 – Los Angeles, 2023)
Il diavolo non esiste, ma la paura sì. E William Friedkin lo sapeva bene, lui che ha fatto tremare il mondo attraverso un'adolescente posseduta e crime violenti e innovativi che coprivano gli States da una costa all'altra. Non era il terrore quello che cercava, ma la vertigine del reale che si spalanca sotto i piedi dello spettatore, un realismo sporco, viscerale, che puzza di sudore e sangue. Raccontare storie e scuotere le viscere.
Ha vissuto la sua vita con la stessa ferocia con cui dirigeva i suoi film: impetuoso, irascibile, sempre al limite. Hollywood lo ha amato e odiato, come si fa con gli autori scomodi capaci di riscrivere le regole dei generi, e lui ha amato e odiato Hollywood, continuando a cercare quella scintilla di genio che fa brillare gli occhi degli spettatori anche cinquant'anni dopo.
Non è mai stato convenzionale, del resto non voleva esserlo, voleva essere quello che ti fa guardare negli occhi i tuoi demoni.