I Mai Morti sono i vivi di allora, quello che noi saremo per i vivi di poi. Mai Morti è un libro pubblicato nel 2012, a cura di Marco Lupo e Luca Moretti. I coccodrilli di morti suicidi o morti di fame o morti di noia ritornano nella rete. Che il loro spirito possa strisciare nelle nostre carcasse biodinamiche.
I Mai Morti sono bastardi del tempo che hanno vissuto, figli di una letteratura minore. Sono famosi o non lo sono. Sono esistiti o non lo sono. Sono scrittori o imbianchini, sono stati punti neri sulla scacchiera bianca o sono stati al margine, non importa.
Giuseppe Zaccaria, in arte Pino Zac, fumettista e regista (Trapani, 1930 – Fontecchio, 1985)
Un tratto forte, gentile, dalla punta graffiante che scorreva, inciampava, si allungava e ricascava lungo le pieghe di una montagna di carta. Del mare siciliano non parlava mai, ma del suo essere ostinato montanaro se ne faceva vanto anche oltralpe dove in realtà il suo crayon è ancora oggi una spada sferrata verso le penurie dell’uomo che vedeva fallace e fallico, un binomio ideale per il suo sguardo sagace. Un comunista che amava il lusso, un mangia preti che con i preti spesso era seduto a tavola: come coglierne la contraddizione se non entrando nel suo mondo fatti di pretini, donne procaci e politici vilipesi? Ha vissuto così come è morto: con impeto e irriverenza, con baldanza e fragilità. Un suono brusco, secco come il nome che s’era scelto, ne ha bloccato il respiro ed è bastato un sussulto per fermare il battito, ma in quel momento l’uomo cedeva posto al mito. Oh, quanta intemperanza per un uomo così, sempre contro, sempre pronto, sempre attento. Ha visto molto più lontano della sua generazione. Così lo ricorda chi lo ha amato e lo ama ancora, chi non lo ha amato ne ha dichiarato dannazione eterna al nome, alla matita e alla parola.
Diego de Sterlich Aliprandi, pilota (Castellammare Adriatico, 1898 – Teramo, 1976)
L’Abruzzo è salita infame. Per questo Diego de Sterlich Aliprandi era imbattibile nelle cronoscalate. Per questo non è famoso come Tazio Nuvolari, al quale pure fece mangiare polvere nella Vittorio-Cansiglio del 1927. Figlio del marchese de Sterlich di Cermignano e adottato poi dal barone Aliprandi di Penne, alla morte dei genitori e a quelle premature di tutti i fratelli e fratellastri, Diego ereditò un immenso patrimonio: palazzi, borghi, castelli, torri, opere d’arte, terreni. Una ricchezza spaventosa che Diego, folle d’ogni velocità, sperperò in appena dieci d’anni. Ma il Re della Montagna non lasciò dietro a sé solo vittorie, record e buchi di bilancio. Diego fu vero filantropo. Finanziò la costruzione dell’autodromo di Monza, favorì la nascita della scuderia Maserati. E dal suo sconfinato impero di bontà tanti seppero cavarsi un piccolo regno di perfidia. “Ce ne passano di campagne per un gicleur”, diceva sempre. Ce ne passano di infami per un campione, aggiungerei, anche in Abruzzo.
Kristina Lisina, in arte Kris the Foxx, attrice (Красноя́рск (Krasnojarsk), 1989 – Санкт-Петербург (San Pietroburgo), 2019)
Nell’ultima foto che la ritrae, Kristina Lisina è distesa in un’aiuola rettangolare; è serena, non pensa a niente.
Ci sono persone che non riescono a guadagnarsi il rispetto che meriterebbero. Paradossalmente, il mancato riconoscimento delle reali dimensioni del proprio animo, talvolta dipende proprio da condotte profondamente rispettabili, ma a cui i custodi delle tavole dei comandamenti non accorderanno mai dimora: Kristina è una di loro.
Ma con un semplice cambio di prospettiva, la vita di Kristina apparirà un crescendo di atti di coraggio: abbandonare la città natale, che è in Siberia ma è calda; trovare un posto in banca e lasciarlo dopo cinque giorni perché non ti interessa parlare con quella gente; scegliere tra i vari possibili colloqui di lavoro un casting per il porno; diventare per tutti Kris the Foxx ed esibirsi in POV in video dal titolo esplicito come “Mi ha svegliato con un pompino succoso”, con El Diablo in sottofondo e Machine Gun Kelly che fa la Cassandra sgranando “I shoot dice yeah, gamble with my life yeah”; e alla fine, un mercoledì come gli altri, entrare in un hotel con un pacchetto di patatine in mano e poco dopo fare un salto dal 22° piano stringendo in un pugno una moneta con una frase incisa: “sei sempre nel mio cuore”.
L’unica immagine reperibile in rete in cui il corpo di Kristina Lisina è oscurato, al riparo dal nostro sguardo, è quella che la ritrae in un’aiuola rettangolare, spoglia, dopo il suo ultimo volo.
Dietrich Bonhoeffer, pastore protestante (Breslavia 1906 – Flossenbürg 1945)
Di lui sono ancora intatti l’ampiezza del suo pensiero e l’avversione che riuscì a conquistarsi in occasione della sua prima e ultima conferenza radiofonica malamente interrotta. Nel febbraio 1933, con la potenza delle parole quotidiane che fanno di uno studioso attento un grande profeta, dichiarò che l’omino con i baffi non era e mai sarebbe stato un capo, un Führer. Era e sarebbe stato solo un seduttore, come il grande accusatore delle scritture. Non avrebbe mai trattato le persone come popolo adunato su una stessa terra ma al contrario le avrebbe usate come un pubblico adorante. Bonhoeffer lo disse. Poi gli venne strappato il microfono. Poi si allontanò dalle scelte che condussero all’adozione del paragrafo ariano nei concordati ecclesiastici, poi andò a Londra e in giro per il mondo, poi si dedicò al dialogo interconfessionale e alla resistenza interna ed esterna alla sua Berlino, poi tornò in Germania – ma solo dopo la nascita della Chiesa Confessante (quella della Dichiarazione di Barmen) - mise su un seminario clandestino e andò avanti finché non venne la Gestapo nel 1937 a chiudergli la scuola per pastori protestanti liberi di pensare a un Dio che si è incarnato. È in quegli anni che scrive e si impegna, oltre che nella resistenza al regime, a spiegare che Dio non si pone alla fine della capacità e delle possibilità del pensiero umano. Dio non poteva essere un ultimo trucco a cui ricorrere in caso di fallimento della scienza, della ragione o della tecnica. Dio per Bonhoeffer era in mezzo, presente mentre l’uomo viveva la storia dell’uomo. Un Dio che non serviva a tappare i buchi della cecità umana ma un Dio vivo nelle pieghe del mondo pur senza mostrarsi mai più. Un Dio, insomma, che smuove alla resistenza della vita e non alla promessa del vivere e nessuno avrebbe potuto dichiararsi innocente se non si fosse impegnato per impedire quel che a tutti ormai era chiaro che fosse già quasi un inferno. Finì morto impiccato ventuno giorni prima che Hitler si suicidasse. Il processo sommario e la condanna furono due degli ultimi ordini dettati dallo stesso Hitler: voleva scongiurare che contagiasse troppi preti e pastori. Voleva che la fede non smettesse di essere un atto di rito e che mai si trasformasse in qualche cosa di reale, capace di riconoscere l’alito di divinità che anima ogni essere umano, anche il più lontano. Aveva paura, Hitler, che se Bonhoeffer avesse continuato a parlare e spiegare e insegnare, dopo la sconfitta della grande Germania, neanche più i riti collettivi di stato potessero essere credibili anche solo per essere filmati o raccontati. Aveva paura cioè, il Führer alla fine, di risultare davvero un imperatore nudo. Nudo e penzolante finì Bonhoeffer, come il Cristo che aveva tanto amato e vissuto, ma senza le braccia stese. Quelle, le aveva tenute dentro la vita per tutto il tempo che passò su questa terra.
Angelo “Sigaro” Conti, poeta (Roma, 1956 – 2018)
Usciva da dove il sole entra a scacchi. Era stata la dignità a farlo chiudere. Un’idea che quelli come lui, i contadini e gli operai, si scambiavano con gli occhi da generazioni e che era nella sua testa anche quel giorno, sopra una vespetta, sobbalzando sui sampietrini di lungotevere, lì dove c’erano ancora le case occupate. All’improvviso, come accade ai predestinati, lo strascico della casanza – un certo modo di vedere e di stare al mondo, con altri due occhi al posto della nuca – si spalancò in un’apparizione: Rino Gaetano. Il destino, da allora, fu obbligato a seguire il solco delle parole tracciate da una chitarra. Quella portata in spalla da Angelo “Sigaro” Conti. Poeta.
Guido Nicheli, attore (Bergamo, 1934 – Desenzano del Garda, 2007)
É curioso il destino dei caratteristi, spesso famosi quasi come gli attori più grandi, ma così identificati con la maschera che indossano che nessuno ne conosce il nome. E questo è il ricordo che abbiamo di Nicheli, le sue battute ripetute a tormentone da generazione dopo generazione, ma non un nome e cognome da associargli.
Eppure la sua esistenza sarebbe potuta anche restare quella anonima e banale di un qualunque diplomato in odontotecnica, se la vita non gli avesse proposto un paio di svolte che lui fu bravo a cogliere al volo. Negli anni settanta prese a lavorare come rappresentante di alcolici, e fra i vari locali finì a frequentare il Derby, luogo di culto della comicità milanese, dove divenne amico di Jannacci e Teocoli, Calà e Boldi, Abatantuono e Pozzetto. Con il suo caratteristico modo di esprimersi, il marcato accento brianzolo, fu inevitabile trovare spazio come spalla negli sketch comici, fino a diventare l'archetipo dell'imprenditore lombardo arricchito.
E così Nicheli entrò negli anni ottanta con cucito addosso il ruolo del cumenda, e piccoli ruoli in film di enorme successo commerciale – Sapore di mare, Eccezzziunale veramente, Vacanze di Natale, Yuppies – insieme a una popolarissima serie tv come I ragazzi della 3^ C, lo consacrarono come una delle figure più conosciute del grande e piccolo schermo, pur senza essere nei fatti nemmeno un attore vero e proprio.
Restava infatti a tutti sempre il dubbio su quanto portasse di se stesso davanti alla macchina da presa, e al contrario quanto recitasse il medesimo ruolo nella vita di tutti i giorni. Persona e personaggio erano nei fatti indistinguibili, tanto che, come ricordano i registi con cui lavorò, era lui stesso, sul momento, a inventare sul set le battute poi rimaste iconiche.
Finita la stagione della Milano da bere terminarono pure le offerte di lavoro nel campo dello spettacolo. Lui, preveggente, aveva mantenuto il suo studio di odontotecnica, anche se leggenda vuole che lavorasse solo sei mesi per poi andare in vacanza i successivi sei. Probabilmente fedele a una filosofia di vita che lo immaginava costantemente in una località ricca e alla moda, sole whisky e sei in pole polistion!
Liberato, benzinaio abusivo (Roma, ca. 1970 - ca. 2020)
Matto, ma anche no. Menomato pure, ma anche meno, o passivo aggressivo, talvolta, come vi piace dire. Nato e cresciuto lì, dove la sabbia scotta e il buio brulica di protagonisti, e lui, Liberato nel nome e nel fatto, salutava e metteva benzina.
Poi non si è più visto. Morto, tutti avete pensato. Ma anche no, d'altro canto non può morire chi è Liberato.
Ultimo cerbero delle nostre notti, padrone dei self service e pijate sti spicci, viveva a ridosso delle pompe di benzina. Di quello aveva fatto il suo mestiere e il suo sostentamento. In tanti, coi suoi pieni mandò a schiantare sulla Colombo. Ma anche no, alla fine si schiantavano soli soli. Ubriachi o fatti di merce.
E lui fischiettava in quelle notti di mezza estate: "ciao, so' Liberato!"
Prima della mobilità a zero emissioni, prima delle macchine elettriche, prima di quei monopattini del cazzo che sfrecciano sulle piste ciclabili, quando ancora erogare carbon fossile significava potere e il Grande Raccordo Anulare era davanti a noi come un futuro sicuro, circolare, che prima o poi ci avrebbe riaccompagnato a casa.
Poi c'è stata la pandemia. La Colombo e il Raccordo sembravano quelle strade invisibili e sole che attraversano il deserto.
Poi più nulla.
Non c'è più nessuno all'inizio della Cristoforo Colombo, non puoi tirare a nessuno i tuoi spicci, non c'è più nessuno che puoi schernire per come parla o per il suo aspetto.
Non sai più su chi scaricare le tue frustrazioni e la tua ansia. Liberato non c'è più e la tua è rimasta una vita di merda.
Eve Babitz, artista e scrittrice (Los Angeles, 1943 – 2021)
Tutti amano l’arte, ma nessuno è mai bruciato vivo per essa. A me è successo. Era il 1997 e indossavo una gonna che diceva scopami subito. Ma diceva pure non utilizzare in prossimità di fiamme vive. E io, ragazzi, a cinquantaquattro anni ero una fiamma viva e incandescente. Ravvivai l’inaugurazione di una galleria in centro: la gonna prese fuoco. Passai dei mesi al Cedars-Sinai Medical Center di West Hollywood. Mi pentii solo di non essere morta: sarei passata alla storia per la seconda volta. La prima era stata trentaquattro anni prima, quando le mie tette erano delle mongolfiere e non c’era uomo che non volesse accendermi la sigaretta, se capite cosa intendo. Desideravo ardentemente fare l’artista, ed entrai nell’arena dalla porta principale: nuda davanti a una scacchiera con Marcel Duchamp. La foto che ritrae l’evento è stata definita dallo Smithsonian «tra le immagini documentarie chiave dell’arte moderna americana». D’altronde si parla delle mie tette. Ma ero una narcisista nobile, ed era intollerabile che Marcel avesse continuato a giocare senza battere ciglio. No, non era quella dell’artista la mia missione. Volevo essere la gran puttana dell’arte. Volevo essere io l’emozione che vi faceva bruciare tutti. Perché tutti amano l’arte, ma nessuno è mai bruciato vivo per essa.