I Mai Morti sono i vivi di allora, quello che noi saremo per i vivi di poi. Mai Morti è una rubrica di TerraNullius. Mai Morti è un libro pubblicato da Dissensi Edizioni nel 2012, a cura di Marco Lupo e Luca Moretti. I coccodrilli di morti suicidi o morti di fame o morti di noia ritornano nella rete. Che il loro spirito possa strisciare nelle nostre carcasse biodinamiche.
I Mai Morti sono bastardi del tempo che hanno vissuto, figli di una letteratura minore. Sono famosi o non lo sono. Sono esistiti o non lo sono. Sono scrittori o imbianchini, sono stati punti neri sulla scacchiera bianca o sono stati al margine, non importa.
In questa uscita speciale del 2 novembre 2018 avevano vissuto per noi: Amalasunta, Isidoro di Siviglia, Ferdinand Cheval, Albrecht Haushofer, Joseph Pujol, Ilarie Voronca, Brad Renfro, Esbjörn Svensson, Corey Haim e Predrag Matvejević.
Amalasunta, regina (Ravenna, 495 circa – Isola Martana, 535)
Si racconta che Amalasunta, figlia di re Teodorico, fu seppellita in una carrozza d’oro nel grembo ostile di un colle sul Lago di Bolsena, uno di quelli che fronteggiano l’Isola Martana. Qui la regina ostrogota fu esule e prigioniera e fu uccisa da misteriosi sicari, forse per volontà di suo cugino Teodato, quello che lei stessa aveva deciso di sposare per mantenere nelle sue mani quel trono che aveva perso con la morte del giovane figlio, Atalarico. Prima di diventare un lugubre fantasma (i pescatori del lago nelle giornate di forte tramontana, sostengono ancora si possano udire le sue urla strazianti), Amalasunta fu una regina colta, volitiva, conoscitrice della lingua latina e greca, interessata a una politica di integrazione e tolleranza reciproca tra goti e romani. Ma i goti per lo più mal giudicavano una politica che non fosse solo il diritto delle armi, e non tolleravano i suoi gesti di equanimità, come quando volle restituire i beni confiscati ai figli di Boezio e Simmaco. Insomma non sopportavano che fosse donna. Così prima le tolsero il figlio (che non ricevesse un’educazione romana!), e poi la spinsero tra le braccia di un vile, avido e violento, che, quando capì di non poterla domare, si risolse ad assassinarla. E questa è una storia ancora di oggi.
Isidoro di Siviglia, Padre della Chiesa (Cartagena, 560 circa – Siviglia, 636)
Isidoro era il vescovo di Siviglia e, durante la dominazione visigota, svolse il suo duro apostolato politico concependo a beneficio di vaste moltitudini un’enciclopedia che conteneva l’origine di tutte le parole e quindi l’essenza di tutte le cose. Quel giorno sedeva a corte, mentre Sisebuto, il re poeta, cantava alcuni suoi versi insensati e fuori metro davanti ai nobili visigoti di tutta la penisola iberica. Sembravano tutti sinceramente soddisfatti, e, del resto, alcuni giorni prima Isidoro aveva sentito dire a qualcuno che era ora sorgesse una nuova letteratura, moderna e cristiana, che parlasse al cuore della gente con suggestioni vivaci e la descrizione di quelle emozioni che le persone davvero provano. È ora, aveva detto quel qualcuno, di gridare il nostro vaffanculo ai filosofi greci e latini, questi malati, che parlano con tono monotono senza badare se la gente li capisce e che fanno di continuo esempi che non c’entrano un cazzo. I nobili, quando il re finì di cantare i suoi versi, fecero un lunghissimo applauso. Durante l’applauso, Isidoro fece scorrere nella propria mente alcuni passi del De senectute di Cicerone. Cicerone, pensò, è qui dentro l’unica persona viva.
Ferdinand Cheval, postino e architetto (Charmes-sur-l'Herbasse, 1836 – Hauterives, 1924)
A Hauterives lo conoscono tutti, e pure a Tersanne. Gli aprono le case dove lui entra, si ferma due passi dopo l’uscio, consegna la posta. Solo a volte si spinge nelle cucine, nei salotti di quelle case per accettare una fetta di torta, un bicchiere di vino fresco o un biscotto al burro. Da bambino è apprendista panettiere, poi la vita lo mette sulla strada, gli consegna una divisa da postino, una borsa di cuoio, gli indica i sette chilometri, ora assolati, ora piovosi, ora gelati, che dividono Hauterives e Tersanne. Percorrili, gli dice. Va’ e porta le lettere in quelle case tutte uguali. Le case, è vero, sono uguali. Sempre diverse invece sono le pietre. Cheval inizia a guardare le pietre, a raccoglierle. I suoi passi sollevano la polvere della strada e scoprono pietre che sono foglie, pietre che sono occhi, pietre che sono mammiferi o anfibi. Una mattina, non si sa bene quando, Cheval approfitta di un giorno libero per trovarsi un campo nascosto tra gli alberi. Lì inizia ad ammassare le pietre che raccoglie. Lo fa per trent’anni. Da solo, giorno dopo giorno, dopo aver consegnato plichi, necrologi, giornali locali, convocazioni del giudice, costruisce un palazzo che in realtà è una foresta e che chiama Palais Idéal. «Cosa può fare un uomo che percorre eternamente lo stesso paesaggio, se non sognare?», annota una sera su un quaderno. Inizia a pensare alla morte, così al centro del palazzo ricava una cripta sorvegliata da animali di pietra. Sul soffitto di quella stanza incide le parole: «Qui volevo dormire». Non gli verrà concesso. Lo metteranno al cimitero, concedendogli di costruirsi con le sue pietre una cappella privata, il Tombeau du silence et du repos sans fin. Crepa come crepano i postini: maledetto da alcuni e rimpianto da altri. Crepa come crepano gli artisti: creduto pazzo.
Albrecht Haushofer, dissidente (Monaco di Baviera, 1903 – Berlino, 1945)
Figlio di un geografo nazista, ama l’arte e la letteratura orientale. Viaggia e conosce il Brasile, attraversa il Pacifico, naviga sul Volga, marcia dal Caucaso alla Turchia fino all’Africa del nord. Dà lezioni di geografia in un’università accerchiata dai censori. Usa la storia antica per demolire le teorie nazionalsocialiste. Entra nella Resistenza tedesca e viene arrestato dopo il fallito attentato del 20 luglio 1944. Rinchiuso nel carcere di Moabit, scrive 79 sonetti che nasconde fino alla fine. «Qui sonno si fa veglia, veglia sogno./Sento, in ascolto, che di là dai muri/vibra un tremore di fraterne mani».
Muore con un colpo alla nuca, all’alba, un’ora prima che gli alleati liberino Berlino.
Joseph Pujol, artista pieno d’arie (Marsiglia, 1857 – Tolone, 1945)
Apprendista panettiere, decise di mettere da parte il mestiere per dedicarsi all’arte leggera delle arie. Un increscioso incidente infatti gli aveva permesso di mantenere intatto il bambino di tre anni che era stato, regalandogli il dono di addomesticare gli sfinteri e trasformare l’aria in gran soldi. A trentacinque anni, dopo tanti spettacoli amatoriali per amici e conoscenti, arrivò al Moulin Rouge. Due anni dopo, uomo pacato e serio, si ritrovò impresario di se stesso a girare la Francia e l’Europa. Nel salotto di casa, luogo più discreto, non di rado organizzava poi spettacoli per soli uomini: stretto in un aderentissimo costume da bagno si mostrava senza trucchi e senza inganni perfino ai re. Perché le arie, in forma di scoregge, si sa, fanno ridere tutti, anche chi non è libero di esprimersi per via dell’alto lignaggio o della buona educazione.
Perfino Freud pagò il biglietto per vederlo, perché in fondo anche quell’arte, come il sogno, dava voce a un desiderio. D’altronde Pujol era capace di modulare un contenuto inaccettabile in forma di sonata, buttando in faccia alla bella époque lo sberleffo di saper cantare col culo. Nei panni di un moderno Barbariccia, traghettava le donne dalla compostezza dei corsetti alla forma discinta delle risate convulse. Come un novello Rabelais, capovolgeva le arie del flautare. Calcando le scene con Aristofane, riportava alla luce l’origine del riso. Uomo onesto e padre affettuoso, dall’aria quasi mesta, ebbe cuore di andare avanti a divertirsi – e guadagnare – fino alla prima grande guerra, quando constatò che tutto il mondo era rimasto invischiato in una indicibile pastoia, impegnato a espellere bombe e granate e a sporcare le trincee con le viscere aperte dei ragazzini arruolati. Allora, a cinquantasette anni, si rese conto che tutti gli sforzi per mostrare quanto fosse facile scambiare il canto della bocca con il canto del culo non avevano salvato il mondo dalle nevrosi. Così, almeno lui, stupito dall’orrore della guerra, tornò a fare il panettiere, perché non era il tipo aggressivo da cacare fuori posto.
Ilarie Voronca, poeta (Brăila, 1903 – Parigi, 1946)
Attraversò meno di un secolo, ma attraversò e superò le maggiori avanguardie del Novecento, inventandone anche una: la Pittopoesia. Ilarie Voronca, poeta romeno ebreo, espatriò in Francia e attraversando con gli occhi di un Ulisse la Città delle città, la Parigi dei cafè e delle arti che si donava nei sobborghi come polvere di cocaina, cantò il secolo delle trasformazioni e della mediocrità, lo raccontò con abbecedari sotterranei sapendo che ogni verso è una somma di nuove possibilità, divenne testimone di tempi implacabili; durante l’occupazione nazista lottò tra le fila della resistenza francese, sapeva che ogni tristezza è là solo per coprire un miracolo. Credeva nella meraviglia, meglio, conclusasi la guerra, dopo aver scampato proiettili e deportazione, nella sua Parigi profumata, passeggiando sugli Champs-Elysées, specchiandosi alla vetrina di una pasticceria, confessò al suo amico Eugène Ionesco che possedeva il segreto della gioia, diceva che poteva insegnare al mondo, il segreto, il metodo della felicità. Ma su questo si ingannava, la felicità la puoi mostrare ma non insegnare. Voronca lasciò incompiuto il suo “Manuale per la felicità perfetta”, si uccise nella sua dimora francese utilizzando il gas, il gas che non lo aveva trovato negli anni del Terzo Reich.
Nel 1924, nell’unico numero della rivista “75HP” da lui ideata e diretta, Voronca scrisse che per collaborare bisogna: saper ballare bene/ pisciare su tutto/ rispettare i propri genitori/ aver avuto un incidente aereo/ non fare della letteratura/ avere un certificato di buona condotta/ bere dell’acido solforico/ saper tirare di boxe/ decapitarsi due volte la settimana.
Brad Renfro, attore (Knoxville 1982 – Los Angeles 2008)
Lui diceva di essere stato scoperto in un rodeo, mentre cavalcava un toro, ma la verità è che fu scovato da Mali Finn in un campo roulotte ai confini di Knoxville, Tennessee, dove viveva con sua nonna e aveva dieci anni, e Mali Finn disse che era il ragazzino più attraente che avesse mai visto. Mali Finn dovette pensare che era il ragazzino perfetto, per il film di Joel Schumacher e per molti altri film, o forse che era perfetto per essere calato in un pozzo, non so.
Io ci lavorai nel 1995, qualche mese dopo l’uscita de Il cliente. Ero l’ assistente regista e lui la star principale. Se ne andava in giro sul set a fare domande e a rompere le palle. Fumava, beveva, reclamava attenzioni, si comportava di merda, scopava. Fumava molta erba.
Sentivamo tutti di avere un oscuro vantaggio su Brad. Perché? Prima pensavo che fosse perché Brad era assolutamente abbandonato. Abbandonato a sé stesso, o forse nemmeno a sé stesso. Abbandonato nel nulla, o in quel momento specifico, nelle fauci di una produzione hollywoodiana. Non so. Non so davvero cosa avesse potuto provare in quegli anni. Cioè me lo immagino seduto in qualche grande sala d'aspetto, su una sedia morbida, con il cuore in gola e la sensazione di avere solo sé stesso e nient’altro. Che poi era una sensazione assolutamente esatta.
Quando era allegro faceva brindisi molto spiritosi o poetici: alla cosa che ci aprirà gli occhi, a quello che avremo e che ci spetta, alle vacche che vedono solo l’erba. Faceva ridere. Si drogava. Credo fosse per quella storia che ha raccontato dei suoi genitori, che erano tossicodipendenti, e lui era nato tossicodipendente e, non so, forse vedeva nell’eroina una specie di profezia.
L’anno successivo, nel 1996, uscì Sleepers, e lui era bellissimo, e bravissimo, e il suo fascino aveva raggiunto profondità inaudite.
Lo rividi dieci anni dopo sul set di un film indipendente. Era ingrassato, diceva allegramente che aveva messo giù il cucchiaio (dell'eroina) e tirato su la forchetta. Diceva cose all'apparenza banalissime ma che avevano il potere di agghiacciarmi. Sembrava un bifolco del Tennessee con le camicie a scacchi, e le occhiaie, l’alito che puzza e tutto il resto.
Poi qualche mese dopo morì. Sul divano del suo appartamento a Los Angeles. E due settimane dopo morì anche sua nonna. Non aveva messo giù per niente il cucchiaio. Qualche giorno fa ci ho ripensato: qual era questo strano vantaggio che avevamo tutti su Brad? E allora mi è venuto in mente, e ho passato la notte a bere vodka e a vomitare: il vantaggio era che Brad Renfro era solo un bambino.
Alla tua, Brad Renfro, e alla bianca stella dell’eccezionalità che brillava dentro di te.
Esbjörn Svensson, pianista (Skultuna 1964 – Stoccolma 2008)
Il quattordici giugno del 2008 muore il pianista Esbjörn Svensson. Viene rinvenuto gravemente ferito, a seguito di un incidente subacqueo, sul fondale marino del Baltico, nell’arcipelago di Stoccolma.
Due anni prima aveva risposto in questo modo a chi gli domandava, con assuefatta inanità, quale fosse il suo metodo di lavoro: «Ho due bambini, il più piccolo necessita che io lo accompagni a scuola e così faccio. Quando lui è a scuola torno a casa e scendo nel seminterrato, nel mio piccolo studio dove ho il mio pianoforte; mi siedo lì, mi esercito e compongo musica. Poi, quando il pomeriggio è andato, vado a riprenderlo e allora la giornata di lavoro è conclusa. Così ho trovato il mio modo di lavorare. Vado giù nel seminterrato e compongo».
Corey Haim, attore (Toronto, 1971 – Burbank, 2010)
Lo sanno tutti che i ragazzini famosi del cinema finiscono spesso per fare una brutta fine, come se il successo fosse un pozzo avvelenato dove abbeverarsi di popolarità e abisso. Quando lo raggiungono i paramedici, Corey Haim non è più l'adolescente che negli anni ottanta sbancava i botteghini con un blockbuster dietro l'altro, quando all'apice della fama era inseguito e osannato da persone di ogni genere, ragazzine innamorate, produttori mercanteschi, agenti illusori, colleghi invidiosi, giornalisti distratti, trafficoni hollywoodiani, diavoli tentatori, spacciatori fraterni. Nonostante tutta la gente che aveva intorno era già solo, ma non lo sapeva. Del resto a quell'età come fai a intuire che il successo non durerà per sempre, non puoi mica immaginare che le cose belle siano destinate a finire. E nel suo caso la discesa fu tanto rapida e fragorosa quanto l'ascesa fulgida e inarrestabile, in un susseguirsi di film sempre più improbabili e ignoti, di paghe ogni volta più basse e comunque subito sperperate, di dipendenze via via più irrecuperabili.
Il giovane uomo steso adesso a terra nell'appartamento della madre malata, all'interno di un complesso residenziale di periferia, nel viso somiglia ancora all'adolescente baldanzoso di un tempo, ma nel frattempo ha conosciuto la solitudine, la disgrazia, i fallimenti, le porte chiuse in faccia, le promesse non mantenute. Nell'ultimo mese si è presentato con false identità a una decina di medici, riuscendo a farsi prescrivere centinaia di pillole, soprattutto potenti antidolorifici. Una vicina racconterà in seguito che lo vedeva spesso in giro attorno al complesso residenziale, alla ricerca di un po' di compagnia, di persone con cui scambiare qualche parola.
Predrag Matvejević, infedele della letteratura (Mostar, 1932 – Zagabria, 2017)
«Quello che abbiamo vissuto non risulterebbe credibile in alcun romanzo». Così scriveva dei sopravvissuti di una città dopo una guerra, dopo uno sterminio, dopo un assedio – città, guerra, assedi e sopravvissuti sono gli stessi ovunque e non ha senso dare coordinate. Sono gli stessi, ovunque e in qualunque data, i ponti che crollano abbattuti dai mortai, i campi di sterminio, i cecchini, le città bombardate, e identici i governi, magari alcuni peggiori d'altri ma comunque governi. E se tutti abbiamo un romanzo, e nessuno è credibile, Matvejević ne ha sbagliati due: quello sul Mediterraneo – e qui il nome lo dico perché non c'è un mare uguale a un altro – ovvero il più bel tentativo di esaurimento che sia mai stato tentato; e quello sulla propria morte: una stanza di sanatorio chiusa a chiave da fuori, non più tra asilo ed esilio a cercare, sradicato, le parole per dare un senso a quella parte di mondo che è ovunque la stessa, ma isolato, per l'ultima volta al confino. Nonostante fosse finalmente riuscito a tornare.