La congiura

La congiura

L’ho riconosciuto subito fra tutti, Stankiewitz: da quella sua aria sempre attenta, precisa, da quel suo modo di guardarsi intorno. Come un animale a caccia intendo, avvitando il collo sottile come un periscopio. Uomo d’intuito, Stankiewitz. E consapevole: ha scelto occhiali piccoli con la montatura rotonda perché gli danno uno sguardo più acuto. Gli ha fatto piacere incontrarmi, mi è sembrato, anche se la nostra è una conoscenza superficiale. Non ci siamo mai parlati per più di qualche minuto di fila. Non ha mai accettato che gli offrissi il caffè.

Mi ha invitato a sedermi con lui su una panchina in mezzo al prato, lontano dal viavai dei vialetti di ghiaia. Gli ho offerto una Camel Light, mi ha detto che ha smesso ma l’ha accettata. Quando ci siamo seduti fianco a fianco era così alto che per guardarmi negli occhi stava tutto ingobbito.

Ci siamo scambiati i soliti convenevoli. Poi gli faccio: «Allora, che succede?»

I suoi occhi si fanno fessure dietro le lenti rotonde.

È una storia difficile da credere, mi fa. Vuoi sentirla?

«Certo, se non ti spiace.»

Allora lui fa girare il periscopio per controllare che non ci ascoltino, mi chiede un’altra Camel Light; mi fissa di nuovo con quei suoi occhi penetranti, da animale selvatico. Tu mi vedi come mi hai sempre visto?

Mi pare di cogliere una nota d’ansietà nella sua voce. Non voglio inquietarlo: alzo le spalle e basta. Lui annuisce come se non si fosse aspettato altra risposta.

I problemi sono iniziati martedì, dice. Ho aperto gli occhi all’improvviso in piena notte: avevo un leggero affanno, inseguivo l’ombra di un pensiero che mi svolazzava oltre la punta delle dita per non farsi acchiappare. Non era un sogno, era più come un istante di consapevolezza che non ho fatto in tempo a fissare. Ho fatto due o tre respiri profondi. Piano piano mi sono calmato. C’era una luna bella rotonda, continua Stankiewitz, la stanza era immersa in una luce giallina - a Clara piace dormire con le persiane spalancate. Mi sono voltato lentamente perché lei dormiva, ho adocchiato le lancette fluorescenti sul suo comodino, di fianco alla nostra foto di matrimonio: nemmeno le cinque. L’ho osservata ronfare per qualche minuto, i ricci erano sparsi su tutto il cuscino. Poi mi sono tirato la coperta su fino al mento e mi sono riaddormentato.

Così parla il vecchio Stankiewitz e io l’ascolto perché si sta facendo interessante la cosa, ma lui s’interrompe proprio in quel momento. Ah, ora ci vorrebbe un bel caffè ristretto, mi fa. Annuisco sorridendo, gli allungo il pacchetto: lui afferra un’altra Camel Light, fa un paio di tiri.

Quando mi sveglio, riprende, la camicia da notte di Clara è buttata sul letto, quella grigia con i musi dei gattini. Faccio la solita doccia tiepida, mi rado. Prendo una camicia elegante perché ho una riunione in ufficio. Dalla cucina arrivano una specie di jazz e profumo di uova strapazzate e di caffè.

«Buone le uova strapazzate» lo interrompo. Stankiewitz mi sorride, mi fa capire che stiamo arrivando a un passaggio importante della storia.

In cucina, dice, sono seduto al tavolo a testa bassa, la solita tazza di caffè nero fumante in mano. Mentre l’avvicino alle labbra sento la presenza di Clara di fronte a me. La guardo, in piedi oltre il tavolo, e rimango con la tazza a mezz’aria, la bocca aperta. Mia moglie ha una chioma rossa e splendente, ma così splendente che sembra prendere fuoco. Si tiene dritta, le braccia incrociate sul petto, un sorriso da orecchio a orecchio. Mi ci vuole qualche secondo. 

Ah beh, dico… niente da eccepire, ti stanno bene. Non sapevo che volessi cambiare…

Fai attenzione, mi fa lei, il caffè scotta. Così, come se non ci fosse niente di strano.

Insisto: e li hai pure stirati! Come mai? Lei sorride ancora di quel sorriso esagerato.

Forza, mangia, mi fa lei, che le uova si raffreddano.

Quel rosso non le sta male, ti dirò. Neanche da ragazza era di un colore così brillante. La ringiovanisce. Le dà qualcosa di nuovo.

«Vorrei svegliarmi io con questo genere di problemi!» lo interrompo, strizzandogli l’occhiolino. Ma Stankiewitz non ricambia il mio gesto d’intesa: sembra teso, concentrato.

Clara viene a salutarmi sulla porta, continua a raccontare, mi dà un bacio sulla guancia. Ma mentre aspetto l’ascensore, mi giro per dirle ci vediamo stasera e non so, sarà la mia immaginazione, ma per un istante, vedo qualcosa… qualcosa di stonato. Come se il sorriso le fosse cascato per terra. È stato meno di un attimo. Poi, mentre mi sistemo il nodo della cravatta di fronte allo specchio dell’ascensore, quel pensiero che mi ha svegliato di notte torna a solleticarmi e mi scappa di nuovo. Mi guardo negli occhi, come se potessi leggermelo in faccia, ma l’unica cosa che vedo è un uomo con le labbra secche e la pelle tirata. Ci metto un momento a capire che sono io. 

Poi le porte dell’ascensore si sono aperte e non ci ho pensato più.

Esco, c’è un bel tepore primaverile: cielo azzurro, una nuvoletta solitaria dorata sui bordi dai raggi del sole. Per strada non c’è traffico: dove sono tutti?, penso, mentre imbocco il vialetto d’ingresso degli uffici, fra le aiuole piene di tulipani. Quando arrivo al mio posto auto, è occupato da una macchina sportiva rossa, se ne sta lì col muso girato verso di me, sembra che mi strizzi l’occhiolino. Non importa, c’è un posto libero più in là.

«Succede di sbagliare parcheggio, Stankiewitz!», gli faccio, tanto per dire qualcosa.

Tu non conosci la nostra azienda, m’interrompe serio. I posti auto sono assegnati in maniera rigorosa, ci tengono. Decido di segnalarlo alla reception, ma senza farne una questione, mi segui?

L’interno è calmo. I miei passi rimbombano sul marmo, chiamo l’ascensore e mi accosto al bancone. Dei due ragazzi, il receptionist e la centralinista, vedo solo i fondoschiena: sono girati di spalle, chinati a controllare qualche registro del giorno prima. Butto lì un salve, ma quando si girano ci rimango secco.

Buongiorno!, dicono. Come va, signor Stankiewitz? Ehm, signor Stankiewitz? Signor... ?

Sono imbambolato di fronte al bancone, non so più cosa volevo dire. Loro mi sorridono a disagio. Passeranno dieci secondi.

Che idea divertente, biascico, vi siete… vi siete…

Prego? Mi dice lui.

… vi siete scambiati i colori!

Mi guardano come se non capissero, con sorrisi accondiscendenti, come se fossi un nonno che non riesce ad attraversare la strada.

Tutto bene, signor Stankiewitz?, sussurra la ragazza.

La storia si fa davvero strana, dice Stankiewitz: perché lei è bionda e lui è moro. Capisci? Fino al giorno prima lei era corvina e lui aveva i capelli di un cherubino!

Vi siete scambiati i colori, insisto con un risolino nervoso. Faccio ballare il dito a destra e a sinistra per indicare i capelli dell’uno e dell’altra, ma niente.

Vuole aiuto, signor Stankiewitz?, insiste la ragazza. E ora che la osservo meglio, mi sembra anche più giovane, più in forma, più bella. E anche lui: non è mai stato brutto, ma ha sempre avuto gli angoli della bocca un po’ cadenti, come quei cani che sbavano, e ora ha un sorriso smagliante. Insomma sono sconvolto, ho dimenticato la mia frase pronta e balbetto qualcosa sulla difficoltà di trovare parcheggio al giorno d’oggi. Lui mi lancia un’occhiata complice: il direttore è in ferie oggi, signor Stankiewitz, perché non ne approfitta e prende il suo posto?

Non importa, dico, ho già parcheggiato, era solo per dire…

E lui: il posto del direttore è il migliore, signor Stankiewitz.

Mi schermisco, insisto che è tutto a posto, ma lei – Ludmilla, la centralinista – mi strizza l’occhio: se poi volesse usare l’ufficio del direttore, signor Stankiewitz, non credo che darà fastidio a nessuno… lo sa quanto è comoda, quella poltrona reclinabile?

Non sapevo più neanche chi avessi di fronte, ti dirò. Per anni è stato solo buongiorno e buonasera… faccio un cenno per dire che la loro premura non è necessaria, vado all’ascensore. Ma un attimo prima che le porte si chiudano, li guardo e mi sembra che si scambino un cenno d’intesa. Alle mie spalle? Non so. Ma qualcosa è cambiato nella loro espressione, quando hanno pensato che non li stessi più guardando.

Mentre salgo lentamente, rivedo Clara che mangia lo yogurt a colazione, come un flashback. E la vedo tenere il cucchiaino con la mano dell’anello di lapislazzuli: la destra, capisci? Non è strano? Possibile che un mancino un bel giorno si metta a mangiare con la destra?

In ascensore mi torna l’affanno: come di notte, quando mi sono svegliato. Allento il nodo della cravatta, sbottono il colletto. Ti capita di avere delle intuizioni? Di dirti che bisogna stare in campana, perché i conti non tornano? Avrei voluto più tempo per pensarci ma quando le porte dell’ascensore si sono aperte, mi ritrovo di fronte a Linda e Bill. Che mi sorridono, radiosi.

«Linda e Bill?» lo interrompo. «E chi sono?»

Due colleghi del Marketing, ci stavo arrivando, si spazientisce Stankiewitz. Mi hanno sempre guardato dall’alto in basso perché alle Vendite non abbiamo la stessa raffinatezza intellettuale. Ci manca solo che mi vedano con la camicia sbottonata, offuscato da quei pensieri. Mi devo dare un contegno, non pensare più alle stranezze di quella mattina. Li saluto con un cenno della testa, cerco d’infilarmi nel corridoio ma lei mi ferma con una mano sulla spalla: Paul! Buongiorno!

Linda, Bill, che piacere!, tossicchio. Il sudore mi bagna le ascelle, ma attraverso la giacca non credo si noti. Mi asciugo di nascosto il palmo nei pantaloni prima di stringere le loro mani.

Paul, mi dice Linda, abbiamo letto il tuo rapporto: complimenti! E Bill aggiunge subito: è eccellente, Paul. Il migliore che abbiamo mai visto preparare per un comitato di direzione. E lei rincara: il migliore, Paul! Avrai una standing ovation alla riunione.

«Non vedo ancora dove stiano i problemi» lo interrompo di nuovo. «Dai, prendi un’altra Camel Light.»

Stankiewitz prende la sigaretta, con uno sguardo mi fa capire di lasciarlo continuare.

Non è da loro parlarmi in quel modo, riprende. E quanto è bello il rapporto, e come è chiaro, e quanto sono potenti le conclusioni… Ora, io a quel rapporto ci ho lavorato duro, ma non era mica così brillante. Sono lucido, conosco i miei limiti. Anzi, l’idea di presentarlo al comitato di direzione mi inquieta. È il genere di riunione dove uno si gioca la carriera. Ma loro sono entusiasti. Non mi torna. Bill è sempre stato un maschio alfa, un competitivo. E Linda è una stronza – scusa, quando ci vuole ci vuole. Cos’è tutto questo amore?

Hai corso, Paul? mi chiede Bill. Hai l’aria accaldata. Dai, ti offro un caffè prima della riunione.

Ma no, gli rispondo, è questo caldo primaverile, chi se l’aspettava. La voce mi esce un po’ stridula. Li seguo alla macchinetta del caffè in fondo al corridoio. Penso: calmati. Cerco di controllare la mano che mi trema leggermente mentre infilo le monetine nella fessura - alla fine sono io che offro il caffè.

Linda, faccio, ti sei tagliata i capelli? No, mi dice, non ho fatto niente ai capelli. Neanche il colore? No, ripete. Mi era sembrato, faccio io. Lei si stringe nelle spalle.

Eppure ha qualcosa di diverso nel viso. Mentre mando giù l’ultimo sorso di caffè, capisco: è botox. È più liscia, quasi tirata, gli zigomi più pronunciati. Un lavoro fatto bene, mi ci è voluto un po’ per rendermene conto.

E Bill… Anche lui si deve essere ritoccato. Gli occhi? Sono un po’ più tirati negli angoli? Si è sbiancato i denti. Sembra dieci anni più giovane. Quand’è stata l’ultima volta che li ho visti, Linda e Bill? Forse una settimana prima. È sufficiente per riprendersi da un intervento di chirurgia estetica?

Mi torna l’affanno. Lo sento fisicamente, quel pensiero della notte, lo sento alitarmi sul collo da dietro, allora mi giro di scatto. Ma è evaporato di nuovo.

Tutto bene, Paul? Cosa guardi lì dietro? Mi fanno Linda e Bill in coro.

«Ti sei girato davvero per afferrare un pensiero?» sorrido.

Stankiewitz sembra irritato. Fidati, dice, quell’alito freddo sul collo… anche tu l’avresti fatto. Invento una scusa per lasciare Linda e Bill lì al caffé, manca un quarto d’ora alla riunione e devo darmi una calmata. Ma mentre mi allontano sento il calore del loro sguardo sulla schiena, così intenso che mi brucia. Mi volto all’improvviso…

«Ma allora è un vizio!» scherzo, pentendomi subito, perché ho capito che su questo punto Stankiewitz è un po’ suscettibile.

... indovina? Mi stanno fissando. C’è un’ombra di derisione nei loro occhi? Fanno cenni amichevoli, ma per un istante ho intravisto un’incrinatura nel loro sorriso plastificato.

È allora che ho la rivelazione: sto rischiando. Non so cosa rischio, per opera di chi o perché, ma rischio forte. Sarà al comitato di direzione che si aprirà la trappola? Sono Linda e Bill? E il personale della reception? Linda e Bill possono averli corrotti. Ma Clara? Possibile che anche mia moglie faccia parte della congiura?

Bisogna reagire, ma prima ci sono verifiche importanti da fare. Non voglio sbagliare. Mi chiudo a chiave nel mio ufficio, avvio il computer sbagliando cinque volte la password. Mi dico: calma, Paul, resta lucido. Cerco le foto della festa di Natale al museo delle cere. Voglio controllare…

«L’aspetto di Linda e Bill?» lo interrompo.

Bravo, mi dice Stankiewitz, vedo che segui. Eccoci, tutti insieme, brilli di fianco alla statua di Gandhi. Avevamo bevuto e ballato, Linda e Bill mi avevano trascinato a fare il giro del museo per fare foto stupide con le statue. Bill che fa finta di toccare il culo a Marilyn Monroe, Linda che fuma il sigaro di Fidel Castro. La foto è sfocata, più ingrandisco e più si sgrana. La studio finché gli occhi mi si sono incrociati, ho la conferma che non avevo le traveggole: Linda e Bill mi sembrano diversi, nella foto. Poco, come ti ho detto – un lavoro fatto bene, per entrambi. Da farti dubitare, quasi. Ma diversi.

«E i due della reception?», chiedo a Stankiewitz.

Bravo, mi risponde di nuovo, ho pensato anche a loro: non sono nelle foto. Non erano invitati alla festa? Si sono eclissati al momento delle foto? Perché? Torno al piano terra, ma a piedi: se chiamo l’ascensore alla reception se ne accorgono, e io devo coglierli di sorpresa. E Clara... il pensiero che Clara faccia parte della congiura mi tormenta. Dove può aver conosciuto Bill e Linda? Intanto mi fermo a un passo dalla reception, mi fermo per asciugarmi il sudore con la manica della giacca, ritrovo una respirazione normale. Sbircio: Ludmilla osserva il computer... cosa guarda? Immagini da un circuito chiuso? Mi ha visto scendere? Era preparata al mio arrivo? Il receptionist è sparito. È sospetto, no? Dove vuoi che vada un receptionist?

Entro ostentando nonchalance. Scusi Ludmilla, dov’è il suo collega?

Lui è andato… si sente bene signor Stankiewitz?, mi fa lei. Vuole che chiami qualcuno?

No, dico, io volevo solo… Non so bene come andare avanti: sono stato affrettato, sono sceso alla reception senza una strategia, diavolo.

Signorina Ludmilla, guardi, mi lasci usare il suo computer un secondo.

Mi è venuto in mente che il computer della reception ha accesso al database con le foto di tutti i dipendenti. Lei mi fissa, non risponde. Ha capito che ho capito. Devo bluffare.

Questione di un istante, Ludmilla… non voglio tornare su al mio ufficio, ho fretta. Voglio solo controllare le prenotazioni delle sale riunioni…

Glielo posso dire io, quale sala le interessa?

Dipende… devo verificare le possibilità, ecco. Faccio subito.

Signor Stankiewitz, è pallido, vuole sedersi?

Mi guarda il petto: seguo i suoi occhi, la mia camicia azzurra è diventata blu per la traspirazione. E quando torno a guardare verso di lei, il mio turbamento è così forte che devo aggrapparmi al banco per non crollare: appesa alle spalle di Ludmilla c’è la foto di una premiazione, e in quella foto riconosco Clara! Clara, mia moglie! È sfocata, certo, ma è lei! Mia moglie fa parte della congiura e la prova sta davanti ai miei occhi!

Signor Stankiewitz, farebbe meglio a sedersi, dice Ludmilla.

Scusi, le rispondo seguendo un’altra intuizione improvvisa, devo usare il telefono. Il mio è… la batteria, m’invento, kaput.

Ma certo, mi dice, usi la linea del centralino, faccia lo zero per le chiamate esterne.

Capisci, vero?, mi dice Stankiewitz, non voglio che Clara riconosca il mio numero. Quindi inizio a comporre il numero di casa, Ludmilla mi guarda e sorride… qui sorridono tutti, ma li ho capiti quei sorrisi.

Faccia con comodo, mi dice Ludmilla, e si mette a picchiettare sulla tastiera del computer.

A chi sta scrivendo? Sta avvisando mia moglie?

Pronto?, dice una voce al telefono.

Non riesco a parlare: la voce femminile che ha risposto non è quella di mia moglie.

Pronto?, insiste la voce. Assomiglia a Clara ma non è lei, sono sicuro. Hanno scelto bene, penso, se fossi stato distratto o meno lucido ci sarei cascato.

«Sei sicuro che non fosse lei, Stankiewitz?» gli chiedo. «Stressato e affaticato com’eri…»

Conosco la voce di Clara, mi dice Stankiewitz innervosito, non era lei. In quel momento, la luce sul display dei piani dell’ascensore si muove – nove, otto, sette… l’ascensore scende, devono essere Linda e Bill. Nello stesso istante la centralinista si alza dalla sedia… l’ascensore è al quarto piano, al terzo… il receptionist compare all’ingresso proprio in quell’istante, finge di spegnere una sigaretta nel posacenere sulla soglia… la trappola si sta chiudendo!

Getto la cornetta contro Ludmilla, schizzo verso l’uscita mentre le porte dell’ascensore iniziano ad aprirsi, travolgo con una spallata il receptionist, lo mando per terra oltre l’uscio. Corro verso la mia auto, il posto del direttore è in fondo al parcheggio, se avessi retta a loro sarei fottuto, ma il caso o una mia intuizione vogliono che abbia parcheggiato vicino all’ingresso: li ho fottuti, bastardi! Faccio urlare le gomme, punto la cancellata mentre la centralinista esce sulla soglia e dà una mano al receptionist a rialzarsi. Mi guardano stupiti, sconvolti: ora è il loro piano che va a farsi fottere, non il sottoscritto.

Accelero, e un secondo prima di sfondare il cancello ho la presenza di spirito di girarmi verso di loro e sorridere, imitando i loro sorrisi finti e pieni di disprezzo, e poi sento l’impatto del cancello che per fortuna cede subito; e continuo ad accelerare.

«Cristo, Paul...» bisbiglio.

Prendo la strada di casa, continua Stankiewitz infervorato, il mio gioco è scoperto ma non ho scelta, devo arrivare prima che la falsa Clara abbia il tempo di rimettere le cose a posto. Vado a rotta di collo, brucio semafori rossi, ma il traffico si è infittito: tutti quelli che si erano nascosti un’ora prima, mentre andavo in ufficio, sono usciti a intasare le strade. Chissà se fanno parte della congiura, mi chiedo. Non posso lasciarmi rallentare, mando per aria una bicicletta per superare un autobus ma non mi fermo. Svolto nella strada di casa, sbando contro il marciapiede, ecco casa mia là in fondo, ed ecco Clara, cioè la persona che si finge Clara, andare in fretta verso la sua auto, devono averla avvisata. Se riesce a immettersi nel traffico l’aiuteranno a sparire, lo sento. La vedo posare la borsa sul sedile del passeggero, tenere le falde della giacca per sedersi al posto guida. Si accorge solo allora della mia auto che arriva lanciata, si mette al volante proprio mentre il muso della mia macchina entra nella fiancata della sua, trascinandola fra strada e marciapiede, finché una quercia ci ferma.

Qui, Stankiewitz smette di parlare.

Restiamo qualche minuto in silenzio.

Mi fa un cenno, gli passo un’altra sigaretta.

«Dio mio, Dio mio Paul...»

Adesso sai perché sono qui, dice lui mestamente, facendo un gesto verso gli altri pazienti che salutano i familiari e si preparano ad andare a cena.

«Ma... cosa ti è successo quella mattina, Paul?»

Stankiewitz si stringe nelle spalle. Lo devono ancora accertare i dottori, dice. Potrebbe essere una brutta forma di esaurimento, dice. Ma non credo. Perché mi succede ancora. Rivedo dappertutto i sorrisi finti di Bill e Linda, di Clara e della receptionist. Mi vengono i sudori gelati, mi torna l’affanno, mi sveglio di notte. So che è la mia immaginazione, ma mi sento ancora minacciato. Ho paura.

«Ci vuole del tempo», faccio. «Coraggio. Tornerò a trovarti.»

Poi mi alzo dalla panchina, gli do una pacca sulla spalla, l’orario delle visite è finito. Stankiewitz scruta il giardino sempre più buio, sento che ha la testa già altrove. Lo lascio ai suoi pensieri, alle sue paure. Seguo il viottolo ghiaioso che porta all’ingresso dell’istituto, entro nella casupola dove firmo il registro delle visite, segno l’ora di uscita: le sei e ventotto. Poi esco. Lei mi aspetta vicino alla macchina.

«Allora?» mi chiede Linda.

«Tutto bene» le dico.

«Ti ha riconosciuto?»

«No, te l’ho detto che non c’era pericolo.»

«Ma cosa ha capito?»

«Tutto.»

«Allora cosa si fa ora?»

«Non si fa niente, non ce n’è bisogno. Crede di essere pazzo.»

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