Nei miei giorni vani ho visto di tutto: un giusto che va in rovina nonostante
la sua giustizia, un malvagio che vive a lungo nonostante la sua iniquità.
(Libro dell’Ecclesiaste)
I.
Ai lati del tratturo cespi di tarassaco e piè di gallo. E i campi: a maggese. E i coltivi: cardo e zafferano. Il questuante cammina ravvolto in un pastrano di lana grezza. Curvo. Scalzo. Impiastricciato di polvere e sudore. S'imbatte in tuguri e mangiatoie. Stazzi vuoti. Ruderi. I resti di un essiccatoio bruciato. Raggiunge una chiesa rupestre. Entra. Fuliggine nell'aria. Affreschi muffiti e crepati: il diluvio, i pozzi di Isacco, il sacro Sinai. Una taccola si stacca da una trabeazione e gracchia e vira e descrive un arco e poi scompare oltre la porta. Il questuante attraversa la navata. Osserva le panche e gli inginocchiatoi ammassati negli angoli. L’altare di pietra. La croce e il tabernacolo saccheggiato. Torna fuori, si guarda attorno, non c'è nessuno. Gli occhi sulla campagna umida che imbrunisce. Rientra nella chiesa e raccatta tra le panche ammassate alcune assi di legno annerito. Le ammucchia per terra. Accende un fuoco. Resta lì tutta la notte. Schiena alla parete. A pregare. A pensare. A vegliare. A masticare bacche e ghiande di quercia rossa.
Al mattino esce dalla chiesa. Osserva l'alba grigia sulla campagna, poi riprende il cammino. Il sole è basso e velato da una bruma sottile. Sul tratturo escrementi di capre e muli. Avanza e avanza e raccoglie lungo i bordi della pista foglie di borragine. Attraversa un boschetto di lecci. I tronchi si levano storti e rugosi. Le foglie tremolanti annichiliscono la luce. Oltrepassa fossati e intravede siepi di pruno e rosa canina e colonie di funghi: prugnoli bastardi, tignose brune, boleti reali. Esce dal boschetto e ritorna sul tratturo magno. Quiete. Gelo. Il cielo limpido, nuvole d'argilla addensate a sudovest. Poco più avanti incontra un pastore senza gregge: smunto, pelle albina, denti guasti. Il questuante dice: «Salve». Il pastore risponde: «Salve». «Dove avete lasciato il vostro gregge?» «E voi le vostre scarpe?» «Non le porto». «Lo vedo. Non vi fanno male i piedi?» «No». «Immagino che siete abituato». Il questuante annuisce: «Non le indosso da anni e anni». «Siete un pellegrino?» «Un questuante». «Un questuante». «Proprio così». «Che cosa vuol dire?» «Vuol dire che ho fatto voto di povertà. Vivo di elemosine». «Siete un frate mendico?» «Proprio così». Il pastore smiccia il questuante e poi dice: «È difficile vivere di elemosine?» «Dipende». «Da che cosa?» «Dalle persone che s'incontrano». Il pastore sorride e dice: «Io non ho niente da darvi. Sono in viaggio. Sto andando a visitare mio figlio». Fa cenno con una mano un punto vago davanti a sé: «Vive in un paese oltre le colline. Arriverò all'alba. O poco prima. Resterò con lui qualche giorno». «Vostro figlio non è un pastore come voi?» «No». «E che mestiere fa?» «Fa lo stagnino. Ha scelto il mestiere del padre della donna che ha sposato. Ora è proprietario di una spelonca al limite del paese suo». Il questuante resta in silenzio, il pastore dice: «E la vostra famiglia?» «Ho una sorella. Vive da qualche parte. Non la vedo da molti anni». Tace, sospira, aggiunge: «Mia madre non c'è più. Mio padre non l'ho mai conosciuto». «Capisco. E dove siete diretto, se posso domandare». «Potete. Non sono diretto in nessun posto in particolare». «Camminate e basta». Il questuante annuisce: «Non mi piace restare a lungo nello stesso posto». «E in che posti siete stato?» «Un gran numero di posti». «Sulle alture centrali?» «Sì». «Lungo le coste?» «No, lì no». «Le persone vi accolgono sempre bene?» «No, non sempre». «Siete mai stato in pericolo?» «Ogni giorno». «Intendo in un posto nuovo». «Sì, è capitato». «Cos'è successo?» Il questuante fa un sospiro e dice: «Alcuni villaggi sono votati a culti scellerati. E poi ci sono gli ubriachi. O i predoni. O i ladri». «Rubare a un povero?» «Accade di continuo». «Cosa può essere rubato a un uomo che non possiede nulla?» «Nessuno possiede mai nulla». «La vita?» «Sì». «Viviamo in una terra di lacrime». «Proprio così». «Ora devo andare». «Sì, devo proseguire anche io». «Vi auguro ogni bene». «Vi auguro lo stesso».
E così altri campi, altri ruderi. Uno stazzo. Un abbeveratoio di pietra. Il questuante si avvicina all'abbeveratoio. La vasca è riempita di acqua piovana. Beve con le mani a giumella. Beve ancora. E ancora. Si bagna il volto e se lo asciuga con una manica del pastrano. Prosegue. Dopo un po' devia per un tratturello. Testa bassa. Il viso arrossato dal freddo, i piedi anneriti dallo sporco. Davanti a lui, stretti calanchi che si inerpicano in direzione di un boschetto di cipressi calvi. Il questuante ascende un passo argilloso, raggiunge il boschetto, lo attraversa, si ritrova a percorrere un sentiero di selvaggina, in alto il sole bianco e inghirlandato nel velo di bruma. Cammina e cammina. Senza indugio. Senza foga. Lungo il fianco della montagna. Tra i rovi. Tra gli steli umidicci d'erba viperina. Scorge una rupe. Cammina in quella direzione. Raggiunge la rupe – un avvallamento di fango compatto – e si ferma, spinge l'occhio lontano: agri di terra arata, sentieri, boschi, le case dei villaggi dattorno; e oltre, a filo d'orizzonte, lampi muti e sottili. S'allontana dalla rupe e riprende il sentiero in discesa. Scantona per una carrareccia. Cambia versante. Attraversa una selva di alberi capitozzati. Mausoleo di radici e ife fungine. Una colonia di porcini neri e una di falsi chiodini. Ritorna sul tratturo e poco più avanti incontra un randagio razza mista. Ispido, occhi gialli. Lo osserva zampettare nella direzione opposta, fermarsi, indugiare, latrare, girare a largo e proseguire oltre. Il cammino è uniforme. Preghiere ai campi. Preghiere alla terra. Preghiere al cielo. Ma il cielo è inclemente. Portatore di pioggia e di vento a staffilate. Il questuante si ritrova zuppo e intirizzito. Cammina e cammina e pronuncia il pater e si segna su fronte labbra e petto con la sinistra. I campi ridotti a gore e acquitrini. La bruma che avanza, striscia, s'addensa. La pioggia. Il vento. D'improvviso scorge oltre la pista la sagoma nera di un rudere addossato a una quercia biforcuta. Scantona dal tratturo, s'inzuppa fino alle ginocchia nei solchi stagnanti, prosegue senza fermarsi. Entra nel rudere. Penombra e ramaglie abbruciacchiate. Antichi segni di un fuoco. Torna fuori e stacca rami bassi dalla quercia. Rientra. Accatasta i rami per terra. Si sfila gli abiti bagnati. S’accuccia nudo e in preda ai tremori. Invoca a denti stretti il sole e tartaglia: «Fuoco fuoco fuoco». Chiude gli occhi e li riapre. S’allunga e afferra i rami zuppi e li sfrega e ne raschia le incavature con dita e denti. Li spacca in piccoli pezzi. Si succhia via le schegge dall'indice e dal medio. Ammucchia una matassa di legna asciutta e accende il fuoco. Sistema gli abiti bagnati accanto al fuoco. S'intabarra nel pastrano. Si stende sul fianco. Immobile. Le labbra bianche e seccate. Il corpo intirizzito. Il pensiero rivolto al freddo, a Dio, all'abbraccio antico di sua madre. Pronuncia mentalmente l'Avemaria e il Gloria al Padre; la Preghiera dell'incenso e l'Atto di carità. Osserva il luccichio di rame del fuoco. Ascolta la storia furente che racconta la pioggia. Il ringhio del tuono. Pensa: passerà la notte e la pioggia e mi rimetterò di nuovo in viaggio. Fuori, un buio senza nome né misericordia.
II.
Si risveglia alle prima luci dell’alba. Gli occhi incatramati di secrezioni. Le ossa doloranti. Il fuoco ridotto a brace. Osserva uno scroscio di pioggia sabbiosa abbattersi sulla campagna. Poi la pioggia cessa di cadere e il sole appare inondando della sua luce benedetta la terra nera. Le nuvole passano. Il vento si calma. Il questuante esce dal rudere - piccolo lacero pellegrino -, ritorna sul tratturo e prosegue lugubre e silenzioso verso est, le alture centrali. La pista è fradicia. Gli alberi sparuti e gocciolanti. La tempesta ha lasciato sul tratturo pozze e canali intrisi di foglie e bacche e steli di gramigna. Nell'azzurro del cielo uccelli neri svolazzano formando cerchi e spirali. Cammina, il questuante. Chiese rupestri diroccate. Germogli di lappa e di aglio orsino. In fondo a un terrapieno la carcassa di un lupo scuoiato. Prosegue e devia per un sentiero di pacciame. Avvista due contadini affondati tra i solchi di un campo di liquirizia. Facce impastate, barbe nazarene. Passando si segnano una croce sulla fronte e gli fanno un cenno di saluto. Giunge a una palude: gore di fango, ciuffi di giunchi, botri, arbusti, tronchi esili e scortecciati. Nell'aria un fermento di gorghi malarici, un vapore che rende la luce del sole agra e abbuiante. Fuoriesce dalla palude. Delimita una dolina calcarea, le rocce soffocate da muschi e funghi rossi. Mazzi di calta palustre. Si ferma presso l'argine di un torrente. Si sfila il pastrano, entra nell'acqua gelida. Resta immobile col fiato corto e gli occhi fissi sull'argine fangoso. Prende a strofinarsi le dita incallite e arrossate, a togliersi lo sporco da nuca e braccia, a bere l'acqua a piccoli sorsi. L'acqua gli lascia sulla lingua un sapore acre. Esce dal torrente e si asciuga alla luce fredda del sole. Si riavvolge nel pastrano e riprende il cammino. Attraversa una radura di tronchi capitozzati e un valico pietroso. Una mulattiera accidentata in una valle di cerro-sughere. Tra gli alberi una fila di stanghe da cui sventagliano brandelli di tela rossa. Poco più avanti una casa. Fumo bianco dal comignolo di pietra. Finestre unte. Il questuante si avvicina alla porta di legno e bussa tre colpi. Aspetta. Bussa ancora. Passi. Un sospiro. La porta si spalanca sui cardini cigolanti. Le assi tremano. Appare una giovane donna vestita di stracci. Gli occhi untuosi e il viso scavato. I capelli stretti in una crocchia. Domanda: «Chi siete?» Il questuante dice: «Perdonatemi, signora. Vengo da un paese al di là delle alture. Sono in viaggio. E sono qui per chiedervi un sorso d'acqua e magari un tozzetto di pane». La donna lo sogguarda immobile, dalla testa ai piedi, poi batte le palpebre e dice: «Siete scalzo». «Sì». «Non avete le scarpe?» «Nossignora». «Non vi fanno male i piedi ad andare in giro senza scarpe?» «Ci sono abituato». «Ci si abitua ad andare in giro senza scarpe?» Il questuante sorride: «A quanto pare sì». La donna storce le labbra in una smorfia, tira su con il naso, dice: «Siete un prete o qualcosa del genere?» «Sì, pratico la questua». La donna aspetta, poi annuisce, si scosta dalla porta e fa cenno con la mano al questuante di entrare. Il questuante entra, si guarda attorno. Una stanza buia e polverosa. Odore di erbe di bosco e fumo di torba. Il fuoco nel piccolo camino di pietra. Un lungo letto di cartoccio nell'angolo in ombra. Un crocifisso. Una madia. Un tavolaccio. Due sgabelli. Una sedia senza braccioli. Un calderone. Secchie e paioli anneriti. Il questuante dice: «Vi ringrazio assai». La donna gli fa cenno di sedersi su uno sgabello. Il questuante siede sullo sgabello. Gli porta due fette abbruciacchiate di pane azzimo e un bicchiere con dell'acqua di pozzo. Il questuante china il capo e giunge le mani e dice: «Che il Signore vi benedica». La donna si siede sullo sgabello davanti al fuoco del camino e fissa l'ospite mangiucchiare il pane e bere l'acqua e asciugarsi le labbra con il dorso della mano. «Volete un altro sorso d'acqua?» «No, vi ringrazio». E dopo un silenzio: «Spero di non avervi disturbata». «Non mi avete disturbata affatto». «Sono troppo indiscreto se vi chiedo se vivete da sola?» «No, non lo siete. E sì, vivo da sola». Il questuante nota che la donna ha le lacrime agli occhi. Le dice: «Perdonatemi, ho forse detto qualcosa di sbagliato?» Lei fa di no con la testa. «Siete sicura?» «Sì». Restano in silenzio per un po', poi il questuante le chiede: «Come vivete quassù?» Lei scrolla le spalle: «L'inverno è lungo e l'estate è breve». Poi le dice: «Fuori ho notato una fila di stanghe con su affissi brandelli di stoffa». «Sì, sono stata io a piantarle.» E dopo una pausa: «Sono per mio figlio». «Vostro figlio?» «Sì, un giorno lo aiuteranno a ritrovare la strada di casa. Nei giorni di nebbia. O di bufera». Tace, afferra l'attizzatoio e si mette a spostare nel camino le braci ardenti avanti e indietro. Il questuante la osserva tirarsi su, appoggiare l'attizzatoio contro la parete, afferrare un paiolo annerito, riempirlo d'acqua da una secchia e metterlo sopra il fuoco. «Vi fermate qui per la cena?» Lui esita: «Siete gentile, ma non ho intenzione di disturbarvi oltre». «Non mi disturbate affatto, vi ho detto». «Siete sicura?» «Se non lo fossi non ve lo avrei mai chiesto». «Allora accetto».
La donna sgambetta avanti e indietro nelle sue scarpine di pezza sformate, tira via dalla madia vasi e barattoli e cestini contenenti erbe e bacche e frutti maturi, si ferma davanti al crocifisso inchiodato e chiude gli occhi e pronuncia sottovoce un Gloria. Offre al questuante altra acqua e poi un bicchiere di vino resinato. Lui beve a sorsi. Lei getta nell'acqua del paiolo delle ortiche selvatiche e bucce di patate e uno spicchio d'aglio e uno di cipolla. Rimesta la zuppa. Tagliuzza in piccole fette del pane raffermo e in strisce sottili del formaggio di capra ammuffito. Rimesta ancora la zuppa. Il vapore aleggia nella stanza. Il vetro della finestra si appanna. Piccoli tafani volteggiano sui piatti di stagno abbandonati sul davanzale. La donna offre al questuante il pane e il formaggio. Il questuante ringrazia e comincia a mangiare a mozzichi. Quando l'acqua inizia a bollire la donna aggiunge nel paiolo dello strutto e delle foglie di rafano e di vite e un po' di sale. Fissa il questuante e gli dice: «Parlatemi del posto da cui venite». Lui deglutisce, smette di masticare: «Un paese tra i campi popolato da bigotti sventurati». Si schiarisce la gola: «I terreni intorno sterili o maltenuti. I pozzi sabbiosi. Le febbri che lasciano sul volto piaghe fistole e ustioni». Batte le palpebre, aggiunge: «Crescere e vivere in un posto del genere rende affranti e inconsueti». Lei lo smiccia senza espressione, poi si accosta alla finestra, pulisce il vetro appannato con la mano e dice: «Dev'essere stato difficile». Fa un respiro profondo: «È per questo che fate quello che fate?» «Credo di sì». «Credete?» Il questuante non parla. Lei dice: «Parlatemi del giorno in cui avete sentito la vocazione». Lui esita, lei aggiunge: «Avete voglia di parlarmene?» Lui batte le ciglia, fa di sì con la testa: «Erano giorni di pioggia» racconta. «Il fiume esondò e immerse chilometri di campi e pascoli. Accadde che smise di piovere e l'acqua si ritirò. Riemersero corpi e detriti. Adulti. Bambini. Tre famiglie in tutto. C'era anche del bestiame. I corpi vennero portati nella piazza del paese, davanti alla chiesa. Le lamentatrici arrivarono e piansero e intonarono canti di lutto e la Celeste Gerusalemme e il Se m'accogli e il Madre io vorrei. E poi giunse il prete che recitò sul sagrato due volte e mezzo il Salve Regina e si bloccò al A te sospiriamo, gementi e piangenti in questa valle di lacrime, e fece cenno con l’indice alla minore della famiglia dei Quaraiesima; guardammo tutti: aveva riaperto gli occhi». Il questuante tace, la donna si gira a rimestare la zuppa. Dopo un silenzio dice: «Risorta?» Lui immobile. «È una storia vera?» «Sì, è una storia vera». Lo fissa di sbieco: «La gente non risorge». «È quello che è accaduto». Lei non aggiunge altro. Afferra il paiolo e versa l'acqua in eccesso in un secchio zincato e poi versa la zuppa in due scodelle di terracotta. Allunga una scodella al questuante. Lui china il capo con riverenza e poi afferra la scodella e ne accosta le labbra lungo il bordo smussato. Dopo un po' la donna dice: «Zuppa di ortiche selvatiche». Il questuante annuisce. Lappano in silenzio. Senza guardarsi. Lei ritta e compita. Lui tutto piegato. Alla fine la donna si pulisce le labbra con il bordino di un canovaccio. Il questuante col dorso della mano. Si alza e appoggia la scodella vuota sopra il tavolo. La donna gli dice: «Rimanete ancora». Lui guarda la finestra e poi di nuovo la donna: «Farà buio». «Sì». «Non posso fermarmi per la notte». «Perché?» Il questuante non risponde. Il fuoco crepita nel piccolo camino di pietra. La donna si alza, impila la sua scodella vuota nella scodella dell'uomo, dice: «Altro vino?» Lui risponde: «No». Lei insiste, lui dice ancora: «No». Poi aggiunge: «Devo andare». Si alza. «No, aspettate». Il questuante aspetta; la osserva mescere nel bicchiere altro vino resinato con due dita d'acqua, e la osserva ingollare il vino a un sorso e leccarsi su e giù le labbra e poi sfilarsi la veste stracciata e ammosciarsi nuda sullo sgabello a gambe flaccide e divaricate e sfregarsi la vulva su e giù e pisciare per terra fissandolo con gli occhi gialli e umidicci. «Datemi un figlio» mugola lei. Seni turgidi prugna secca. «Non lo saprà nessuno. Nemmanco Dio». Il questuante non parla, lei dice: «Non lo saprà nessuno». Il piscio si allarga in un cerchio scuro e vischioso. Fetore di rancido. «Avanti». E insiste: «Avanti». E insiste: «Avanti. Non lo saprà mai nessuno». E lui lì senza parola e senza tempo, si volta, raggiunge la porta a falcate, la spalanca, esce fuori.
III.
Un sentiero di selvaggina. Tortuoso. Alberi spogli. Alberi fronzuti. E in alto, lontano, nibbi che volteggiano affamati nel cielo bianco avorio. Il questuante si allontana dalla valle, oltrepassa un valico di argille scagliose. Una giuncaia. Un bosco di aceri calvi. Sentiero di pietra focaia sotto i piedi, bassi ciuffi di santolina ai lati. Nell'aria odore di cenere, ma nessuna traccia di fuoco o di braci. La notte cala improvvisa. Trova riparo in un rudere borbonico, al limitare del bosco. Resta al buio. Rincantucciato in un angolo. Ravvolto fino al mento nel pastrano. La notte è silenziosa. Né un canto, né un boato. Buio gelido e uniforme. Dorme, si risveglia. All'alba riprende il cammino. Una piana acquitrinosa. Topi cervini. La carcassa di un camoscio. La brina attaccata alle cose evapora al calore del sole. Il questuante raccoglie e mastica bacche rosse di biancospino. Avvista un paese appollaiato su uno sperone di roccia nera. Nei colti attorno stabbi e palmenti e tuguri di fango e paglia e pietra arenaria. Un greggeto di capre. Covoni. Spaventacchi. Mezzadri rachitici e piegati nei solchi. Sulla pista che fila all'insù verso il paese, il questuante incontra due vecchie monache soggolate. Le sclere ingiallite e i denti cariati. Quando lo vedono titubano, si segnano su fronte e petto, gli parlano a rantoli: «Da dove venite?» «Chi siete?» «Che cosa ci siete venuto a fare quaggiù?» Gli dicono che il paese è famoso per l'odore di torba, i maestri di campi, il grano e le preghiere alla Madonna del raccolto. Fanno cenno al campanile: «Le campane suonano a morto ogni giorno dell'anno, al mattino, al meriggio, alla sera. Sia per vivi che per i morti nei secoli dei secoli». Tacciono, gli fanno cenno di tornare indietro, il questuante fa di no con la testa. Le monache si segnano altre croci e poi si allontanano senza aggiungere altro. Il questuante prosegue verso il paese. Il paese è fatto di vicoli bui e umidi e di randagi affamati. Fuori le case mucchi di legna da ardere e letame pressato. Dietro le finestre chiuse, ombre che sembrano danzare. Una vegliarda da un uscio gli fa cenno e gli domanda: «Siete un prete?» E senza attendere risposta: «Qui un prete ce lo abbiamo già». Appena tace le campane iniziano a suonare a morto: tre rintocchi per gli uomini, due per le donne. E incalzano e riempiono i vicoli e guidano il questuante fino alla piazza centrale: un brulichio di carri e ambulanti infocati; stagnini erbivendoli e sensali; una folla urlante accerchia due vecchi che si sfidano alla morra; un penitente dagli occhi coperti di lanugine si fustiga il petto con un nerbo di bue; bambini che corrono; madri che urlano; vecchine in scialle che sbucciano noci; dal buco di una mescita fischi e canti di ubriachi. Al limitare della piazza svetta il campanile e la chiesa luterana. Il questuante cammina per la piazza. Banchi di cenci. Banchi di opuscoli. Banchi di statuine d’alabastro della Madonna. L'aria vibra del suono incessante delle campane a morto. Il vento spira e porta odori di salvia e basilico. Allontana il miasma di topo che fuoriesce dal sottano lurido. Gli offrono cotogne essiccate, vino resinato, ciambelle di cacio, caffè nero con semi di cardamomo. Un uomo con la faccia da mulo e la barba a ragnatela gli si fa sotto e pispiglia: «Cca ce sta na malannata. Uocchi sicchi. Cristiani rannezzusi. Jettati. Rinfie accorte. Na banna 'e mpestati cacasangue». Il questuante scuote il capo, l'uomo con la faccia da mulo aggiunge: «Accorto». Gesta con le dita: «Addò vai?» Il questuante non parla, scantona per un vicolo, aumenta il passo. Picciosi e scarcovie. Un randagio disteso nel suo piscio. Voci di nonne che dai bassi infissi richiamano i nipoti a casa. Il questuante cammina e cammina. L'uomo con la faccia da mulo lo segue a poca distanza, gibboso di spalle; lo chiama con veemenza: «Spetacciato! Ao! Ao!» Il questuante lo ignora, imbocca altri vicoli, fiancheggia portoni sbiaditi, muri a secco, muri di calce, muri senza finestre, depositi di legno e torba, pozzi, giacitoi. Si ritrova a percorrere il sentiero che s'allontana dal paese. Raggiunge i campi. Alle sue spalle l'uomo con la faccia da mulo grida: «Proffediuso! Lurdo! Drautto!» S'avvicina con sguardo torvo e acuminato, lo abbranca per una spalla, gli sfila il pastrano e lo costringe a fermarsi. Il questuante si ferma, faccia a faccia. «Che cosa volete?» L'uomo con la faccia da mulo calpesta il pastrano nel fango e dice: «Furese?» Il questuante non risponde. «Site nu prèvete?» Il questuante risponde: «No». «I nun sàccio preà. Nun l'aggio mai mparato. Ma vògghju mparà». Il questuante esita. L'uomo con la faccia da mulo sputa, il muco gli penzola a racemi dalla bocca: «Mparatemi. L'Avemaria. Cumme accumencia?» Il questuante non risponde. L'uomo con la faccia da mulo insiste: «Ao, cu vuje sto parlanno!» Il questuante si schiarisce la gola: «Avemaria, piena di grazia, il Signore è con te». Tace. L'uomo con la faccia da mulo ripete la preghiera a voce bassa, mangiandosi le parole. Il questuante riprende: «Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù». L'uomo con la faccia da mulo tartaglia, sputa, scuote il capo: «No no. Basta basta». E dopo una pausa: «O renàro». Il questuante batte gli occhi, l'uomo insiste: «O renàro». «Non ho niente». «Recete troppi no». Il questuante resta immobile. L'uomo con la faccia da mulo pianta lo sguardo ad est: i campi e le alture. Poi torna a fissare il questuante: «Cche c'avite?» «Niente». «Niente?» L'uomo con la faccia da mulo si piega a raccogliere il pastrano sudicio, guarda i piedi del questuante e dice: «Scauzo?» Il questuante annuisce. «Pecché?» Il questuante non si muove. «Lurdoso site». E poi: «Fetoso». E poi: «Nizzo». Il questuante arretra di due passi, l'uomo con la faccia da mulo gli dice: «Spugliati, lutamma». Si morde il labbro inferiore. «Rannato, spugliati». Il questuante si spoglia, resta nudo. Bianco, smunto, i peli che affiorano dal corpo a chiazze spinose. L’uomo con la faccia da mulo gli tira uno schiaffo. Tra zigomo e occhio. Un altro. Un altro ancora. Il questuante si piega, cade nel fango. Resta immobile. Arrossato. L'uomo con la faccia da mulo spergiura. Bestemmia. Gli sputa addosso. Muco nero che cola dalla scapola sporgente.
Accorre un uomo, lo aiuta a levarsi dal fango. Gli dice: «Che cosa vi è accaduto? Dove sono i vostri abiti?» Il questuante biascica un lamento, fa di no con il capo, poi un gesto secco con la mano come a scacciare una vespa. L'uomo gli dice: «Venite con me. Casa mia non è lontana». Ritornano in paese. Infilano un portone sbreccato, risalgono lenti una ripida scalinata. La casa dell'uomo è un sottotetto umido. Ci si muove a capo chino. Un letto, una stufa, un fornello, secchi e piatti sporchi e cenci laceri. L'uomo rovista in una cassapanca e tira fuori uno scialle sdrucito. Lo offre al questuante, gli dice: «Copritevi». Il questuante si copre, l'uomo dice: «Avete il volto pesto». Il questuante si sfiora fronte e zigomo. «Vi fa male?» «No». L'uomo fa cenno al letto: «Riposatevi. Avanti. State tranquillo. Avete fame?» Il questuante si sdraia sul letto, fa di no con la testa, biascica: «Vi ringrazio». La voce assente, lo sguardo vuoto. «Cosa vi è successo?» Il questuante non risponde. «Non ve lo ricordate?» «Un uomo mi ha derubato». «Mi dispiace». «Non avevo niente». E dopo un silenzio: «Non ho niente». «Quando vi ho trovato eravate da solo. Con la faccia nel fango». «Era un lucifero. Un satanasso. Poteva ammazzarmi». «Sì, poteva». Il questuante sospira. L'uomo cammina ingobbito fino a un canto illuminato debolmente da una candela smozzata. Tira via da una credenza e da un involto una piadina di segale: «Ne volete un pezzo?» Il questuante non risponde; recita mentalmente i versetti: Geremia. Oracolo del Signore. Ognuno si beffa del suo prossimo, nessuno dice la verità. L'uomo mangia. Mastica in silenzio. L'occhio alla finestra: cielo calante, blu cobalto. Dopo un po' l'uomo dice: «Il mio nome è Amilcare. Un tempo ero un prete. Adesso sono uno spretato». «Spretato?» Lo spretato annuisce. Il questuante si alza a sedere, mogio mogio, schiena alla parete, fissa lo spretato lì nell’angolo dove l’oscurità è più densa e dice: «Cosa vi ha fatto cambiare idea?» Lo spretato risponde: «Ho vissuto nel segno della croce per molto tempo. Poi un giorno mi sono svegliato, sono andato alla finestra, ho guardato l'alba e tutto è cambiato. Uno può pensare, Non è possibile, ma è ciò che è avvenuto. Non è accaduto nient'altro. È accaduto e basta». Il questuante dice: «Non vi siete dato alcuna spiegazione?» «Sì, ma preferisco non parlarne». «Va bene». Lo spretato si raschia la gola e poi dice: «Non vi chiederò chi siete, ma voglio chiedervi se siete credente». Il questuante si lecca le labbra, pronuncia uno stentato: «Sì». Lo spretato dice: «Non siete convinto». «Forse non sono più tanto convinto». «Cosa vi fa dubitare?» «Ogni cosa». «Ogni cosa è un mistero». Il questuante lo guarda senza espressione: nido di capelli grigi, viso arato da rughe profonde. Lo spretato dice: «Dio ci vuole, o ci sopporta?» «Entrambe, forse». «Prendete una posizione. Il mezzo non deve esistere. Il mezzo ammorba, affama, annulla. Solo le estremità. O una o l'altra». «Voi avete deciso». «Sì, all'alba di quel giorno di cui vi ho parlato. Pensateci: ci ammaliamo e soffriamo. Perché il Signore non ci ha fatto migliori? Non ne era capace? O non ha voluto?» «Il Signore ci ha fatto come dobbiamo essere». «È esattamente ciò che raccontavo a me stesso, prima di quell'alba. Ma Egli vive lassù, e noi quaggiù». «È sempre stato così». «Ne siete certo?» Il questuante esita, lo spretato dice: «Rispondetemi». «Non lo so». «Non lo sapete, ma ieri lo sapevate?» «Sì». Lo spretato si mette a sedere accanto alla stufa. Il questuante si stende, braccia in croce, chiude gli occhi, li apre, li richiude. A suo padre negli ultimi anni ci aveva pensato poco, ci pensa adesso.
E all'alba il questuante se ne sta in piedi davanti alla finestra. Con indosso gli abiti stinti che lo spretato ha insistito indossasse. E lo spretato gli ha offerto in un sacchetto di juta del pane delle fave e delle cicerchie. E ha insistito ancora e ancora e poi il questuante ha accettato. Adesso lo accompagna alla porta. Il questuante fa per sfilarsi lo scialle e restituirglielo, ma lo spretato fa di no con la mano: «Ora è vostro». «Vi ringrazio». «Restate qualche giorno in più». «Forse un giorno tornerò». «Sarete benaccolto». E con passo da vecchio il questuante si allontana dalla casa, scantona per vicoli bui, esce dal paese senza incontrare nessuno, intravede nei campi un rudere ed è come se lo avesse sognato, fin dall'alba dei giorni, col fruscio del vento e l'odore nell'aria di torba bruciata, l'antico rudere che si consuma nel tempo. E poi la piana acquitrinosa, il sentiero di pietra focaia, il bosco di aceri calvi; nella giuncaia s'inginocchia e china il capo; chiude gli occhi ed esita pensando: non devo pregare, non posso più pregare. Si rialza, riprende il cammino. Derviscio solitario dei boschi e della steppa. Anima incolta. Raminga. Lo sforzo di non pregare è un pensiero fisso e una lotta che quasi lo vince. E il pensiero lo riporta indietro, lontano, umiliandolo, al sussurro della santa madre moribonda: «Chi prega e chi si dimentica di pregare dimentica tutto e dimentica soprattutto i lineamenti. Ogni pensiero è lineamento. Ogni idea è lineamento. Ogni volto o gesto o parola o benedizione è lineamento». La memoria della santa madre moribonda sfuma, il questuante attraversa la giuncaia, il valico di argille scagliose; osserva il cielo rannuvolarsi, e poi le nuvole stracciarsi e invadere a gloria la terra ingenerosa. Cammina e pensa ai giorni che sono stati: i paesi desolati, le campagne abbandonate, le voci crudeli e l'umiliazione negli sguardi di coloro che la sorte ha derelitto sin dal primo vagito. Eppure i boschi continuano a rinverdire, i torrenti a scorrere limpidi, gli uomini a nascere e camminare ignari e tormentati. Con lo scialle avvolto attorno alle spalle, il questuante raggiunge la valle di cerro-sughere. E la mulattiera accidentata. Tra gli alberi la lunga fila di stanghe da cui sventagliano i cenci di tela rossa. La casa della giovane donna è alla fine del sentiero. Fumo bianco dal comignolo di pietra. Finestre unte e appannate. Il questuante si avvicina alla porta di legno. Bussa tre colpi. Aspetta. Bussa ancora. Passi.