Mai Morti #27 - Speciale 2 novembre 2016

Mai Morti #27 - Speciale 2 novembre 2016

I Mai Morti sono i vivi di allora, quello che noi saremo per i vivi di poi. Mai Morti è una rubrica di TerraNullius. Mai Morti è un libro pubblicato da Dissensi Edizioni nel 2012, a cura di Marco Lupo e Luca Moretti. I coccodrilli di morti suicidi o morti di fame o morti di noia ritornano nella rete. Che il loro spirito possa strisciare nelle nostre carcasse biodinamiche.

I Mai Morti sono bastardi del tempo che hanno vissuto, figli di una letteratura minore. Sono famosi o non lo sono. Sono esistiti o non lo sono. Sono scrittori o imbianchini, sono stati punti neri sulla scacchiera bianca o sono stati al margine, non importa.

In questa uscita speciale del 2 novembre 2016 avevano vissuto per noi: Remo (ovvero Romolo), Mary Flannery O'Connor, Albert Caraco, Dimitri Zanotti, Leonora Carrington, Alfred Krankstein, Margherita d'Ungheria, Ascari, Osiride Pevarello, Lhasa de Sela, Iara Iavelberg, Teresa Green, Otto Witte, Giovanna Bonanno e Harry Houdini.

 

Remo (? – Roma, 753 a.C.) ovvero Romolo (? – Roma, 716 a.C.)

È per me una gioia osservare come ancora oggi, nel giorno a me sacro, si festeggino i miei fasti. Questi bambini, vestiti da lemuri, cui si offrono dolci per non subire lo scherzodella morte.

Un tempo, questo è vero, gli uomini preparavano per il mio popolo focacce squisite di farina e miele, dandogli forma umana. Oggi, dobbiamo fare a meno di tanta arte. Nessuno, fra la gente che vive sulla Terra, ama più i piaceri. Ma ancora si ricordano di me. Ancora hanno bisogno di me. Forse hanno smemorato che Giove regnava in cielo solo perché, con il nome di Plutone, regnava agli inferi. Di certo, a causa di questo, pensano la morte come una punizione e una colpa, e non sanno più che è, rigenerante e forte, della vita l’ombra. Questa è la morte. Non sanno questo, e da qui deve venire che non amano più i piaceri.

Ma festeggiano ancora il mio giorno, quello che istituii, fondando eterna la città, facendo di me sacrificio perché di me si compisse l’apoteosi. Ricordo il dolore violento di quell’omicidio sacro come lo avessi sempre presente. La stilla di un veleno potente, la vita, e la scintilla elettrica della morte. Da allora veglio dal cielo gli uomini, e mi chiamano Romolo. Da allora per tutti gli uomini tengo saldo il regno che in eterno li accoglie. E sono Remo.

 

Mary Flannery O’Connor (Savannah, 1925 – Milledgeville, 1964)

All’età di sei anni, quando la miseria e la crisi economica si abbattono come furie sulle praterie degli Stati del Sud, viene filmata dagli inviati di una rivista mentre addomestica un pollo a camminare all’indietro e diventa un volto celebre sui rotocalchi sfogliati da anziane signore, da commessi viaggiatori e da dattilografe. Cresce velocemente per affrontare lamorte del padre: l’eredità che le lascia sfiora il grottesco e si chiama lupus eritematoso sistemico. Diventa una credente appassionata e ogni notte legge le pagine dense della Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino. Scrive due romanzi e trentadue novelle, e si batte contro la definizione di grottesco, un’etichetta che i lettori del Nord impongono a quelle storie che rasentano la barbarie perché raccontano vite che si logorano nella loro ignoranza, in quelle gabbie che al Sud si chiamano realtà. Le fotografie la ritraggono sorridente, con cappotti che le calzano male, un bastone che compensa la malattia e un modello di occhiali di cui molti, in futuro, faranno un uso eccessivo. In un’intervista disse che una volta avrebbe voluto scrivere una bella preghiera. Non ci riuscì. Scrisse una manciata di capolavori.

 

Albert Caraco (Costantinopoli, 1919 – Parigi, 1971)

Costantinopoli, Vienna, Praga, Berlino, Parigi, Rio de Janeiro, Buenos Aires, Montevideo. Queste sono alcune delle città dove nasce, vive, rinasce. Forse per questo – benché stimi la letteratura di viaggio – non riesce ad allontanarsi dalla sua famiglia. Se la madre lo alleva solo per sé, il padre, come scrive l'editore Vladimir Dimitrijević, addirittura se lo cova. E Albert la forma di un uovo ce l'ha persino. Sul viso tondo, il naso sembra come attaccato a un tuorlo; l'unico vezzo che si concede sono dei sobri baffetti. «Le mie idee mi vietano il pathos, il mio stile mi proibisce anche solo di sfiorarlo» scrive il bugiardo. Perché se è vero per la sua scrittura, definitiva come i suoi pensieri, la sua morte testimonia il contrario. Anelava così tanto la propria, infatti, da desiderare ardentemente quella dei genitori. Solo dopo avrebbe potuto fare i conti con la tanto odiata vita. E così fece, con affannosa puntualità, qualche ora dopo l'ultimo addio a José Caraco: prese dei barbiturici che per poco non gli sfuggirono dallo squarcio che si era aperto in gola. Fui, non sum, non curo, questo il suo motto.

 

Dimitri Zanotti (Venezia, 1972 – Venezia, 1997)

Figlio di un’esule russa e di un professore veneziano, sin da bambino legge e scrive alla perfezione in due lingue, ma non le parla. I medici escludono problemi fisiologici e neurologici. Gli psicologi affermano all’unanimità che la sua mente è un buco nero. I genitori, seduti in cucina, leggono e rileggono i referti accarezzandosi le mani a vicenda e iniziano a pensare con orrore a quel bambino che passa le giornate in giardino insieme a compagni di gioco immaginari con cui non parla mai. A cinque anni viene affidato alle cure di Giulia Remington, logopedista appena laureata e amica di famiglia. Dopo sei mesi di sedute, Dimitri pronuncia la sua prima parola: Giulia. I progressi si arrestano qui, Giulia viene a malincuore sollevata dall’incarico, Dimitri inizia il suo vagabondaggio attraverso le scuole speciali che lo porteranno a diplomarsi e che, più avanti, nel suo diario battezzerà “istituti per bambini fantasma”. Come un morto vaga per la Laguna, mischiandosi agli studenti chiassosi di Ca’ Foscari e all’improvviso allontanandosi da loro per scivolare in un vicolo. A ventitré anni incontra in biblioteca la Remington e con quella donna più vecchia di lui di vent’anni allaccia una relazione di cui nessuno, a oggi, sa nulla. Ogni domenica torna a casa dei genitori e consuma il pranzo in silenzio. All’alba di un giorno di febbraio di due anni dopo, il corpo affogato del quasi laureato Dimitri viene ripescato dalle acque scure di un canale. Al suo funerale, a parte i genitori e Giulia, non partecipa nessuno. Lascia trentasei quaderni di nomi, numeri di telefono e conversazioni trascritte. Nessuno di quei nomi, tuttavia, trova corrispondenze: tutti falsi, tutti inventati. Il ragazzo era disturbato, si è ammazzato, concludono gli uomini dell'ultima parola, ma a questa illazione Giulia Remington replica: «Il mio amore aveva amici e nemici, ma non in questo mondo».

 

Leonora Carrington (Lancaster, 1917 – Città del Messico, 2011)

Fu ogni cosa. Pittrice, scrittrice, acrobata, iena, e persino la Regina Elisabetta. Ma soprattutto notò un'assenza, e rimediò all'errore della Trinità sostituendosi a Cristo. In un uovo vide l'Europa degli anni Quaranta, la disse ipnotizzata, ma fu creduta pazza e internata all'Hospital de abajo di Santander, Spagna. Qui, la crocifissa mestruata fu infilzata con iniezioni di Cardiazol, inchiodata a un letto, ricoperta da ascessi provocati dagli infermieri.

Poco prima l'occupazione nazista della Francia, l'arresto del suo amato Max Ernst, i primi crolli nervosi; poi la fuga a Lisbona, il Messico, l'arte, una vecchiaia serena. In mezzo, una marcetta di sonnambuli che non è riuscita a svegliare. Ne dipingerà uno, il Dottor Morales, e sarà la peggiore delle vendette.

Se è vero che abbiamo barattato l'eternità con il divenire, non siamo altro che il risultato del tempo. Si possono perdere i denti, tutti, ma a novantaquattro anni bastano poche parole per dipingere un ultimo quadro: «Hay algo maravilloso. Hay estos pajaros neros,volando en el muro...» 

Poi il tempo si rompe.

 

Alfred Krankstein (Francoforte, 1910 – Palmira, 1999)

Nato in una notte senza lacrime nella casa del padre, circondato da sei fratelli, da quattro sorelle, dalla madre, dalla levatrice e da una vecchia signora di cui non ha mai ricordato il volto. Perde i capelli alla fine del sesto anno di vita: visitato da medici specialisti, scopre di essere uno dei tanti. Sviluppa molto presto la passione per i deserti. Disegna aree aride sui muri della casa in Strichenstrasse, punti amorfi che delimita con i battiscopa e con le porte. Dall’ottavo anno si assume la responsabilità di essere cresciuto abbastanza, e imita fratelli e sorelle nelle arti oratorie, nello studio dei testi gotici e nel gioco delle carte. Nel 1929 parte per un viaggio in Europa, ma sbaglia treno, arriva per errore a Patrasso e si imbarca su un panfilo che lo conduce dall’altra parte del mondo. Viaggia per cinque anni attraverso il Medio Oriente, vede città morte, moschee, cimiteri sacri e fortezze inespugnabili. Nel 1936 viene ingaggiato in una spedizione tedesca che propone una versione nazista del Jihad. Tocca il suolo persiano e si licenzia. Conosce una donna e si rifugia da lei, in una valle che gli ricorda altri luoghi. Resta tutta la vita accanto a quella donna, dipingendo acquerelli e sognando deserti. Muore in una tenda, ormai anziano, alle porte di un luogo disegnato anni prima.

 

Margherita d’Ungheria (? Turòc, 1241 - ? Budapest, 1270)

Il suo destino ebbe inizio ancor prima della sua nascita per bocca di una donna. La madre, regina d’Ungheria, assediata si rifugiò sull’isola Lepri al centro del Danubio. I mongoli erano feroci e facevano paura. Lei era incinta e barattò la creatura di cui non conosceva il sesso per la salvezza del Paese: se fossero riusciti a respingere quel tentativo di invasione e se fosse nata una bambina, questa sarebbe stata consacrata a Dio e avrebbe preso i voti e così fu. A quattro anni, Margherita d’Ungheria viveva in convento, a cinque indossava la tonaca bianca, a sette aveva provato il cilicio ma solo di giorno e non sulla carne viva. Crebbe senza vocazione ma rapita dalla pratica della preghiera, dalla pulizia della povertà e dal mistero della trasformazione degli elementi come quello del pane in corpo, continuava a rifiutare le proposte di matrimonio che le sottoponeva il padre, incurante dei voti della moglie e della salvezza del suo Regno: Margherita, a dispetto di tutte le geometrie politiche, non voleva essere barattata una seconda volta. Piuttosto minacciava di tagliarsi il naso. Sarebbe rimasta per sempre in convento. A dieci anni nel 1252 prese i voti. Tutto era avvolto da una banale quotidianità sancita dal beneplacito di madri superiori, della madre naturale e dignitari di corte e andò avanti sempre uguale fino a diciotto anni quando la giovane riuscì a trovare nelle sue visioni divine il senso di quelle che le erano parse solo fantasie e divinazioni. Diventò una visionaria e per sua fortuna il mondo non ne ebbe paura; anzi, fidandosi, la interrogava e le si stringeva attorno sperando, se non di raccogliere qualche briciola di Dio, almeno dipoter accedere a qualche favore del re. La sua fama crebbe ancora quando si trovò a far da paciera tra il fratello e il padre per la divisione del regno. Non sappiamo se le servì davvero a qualcosa passare due anni prostrata col viso a terra, fatto sta che la guerra tra i due giunse a termine. A quel punto la forza attribuita alla sua preghiera era diventata pari almeno alla vividezza delle descrizioni delle sue visioni, potenti e colorate. Rimase chiusa nel convento fino al 1270 quando, come ogni santa, ebbe il suo miracolo post mortem. Il processo di canonizzazione ebbe bisogno di altri seicentosettantadue anni ma, nel frattempo, la sua salma profumava di rose e la sua persona era diventata talmente imponente e presente in tutta la cristianità che duecento anni dopo riempiva ancora la bocca di un’altra donna: la Pulzella di Orleans durante il processo dichiarò che il suo braccio era stato armato e mosso dalle voci. Una delle voci era più forte delle altre ed era quella di Margherita d’Ungheria. La Chiesa si sbrigò: bruciò l’eretica e si tenne la Santa anche senza l’ufficio della santificazione. La Francia sarebbe stata persa comunque; l’Ungheria, ultimo avamposto contro l’avvento delle religioni dell’est, doveva ancora resistere.

 

Ascari*

Come perì il padre, venne strappato il figlio: nel fuoco e nel vento.**

*. Cfr. Bernardino Asvero, Biografie minime di padri e figli illustri, p. 32 (1959, inedito).

**. «Ci preme mettere in evidenza, superando l’estrema sintesi di questa epigrafe, che tanto Antonio Ascari, spericolato e fulgido pioniere dell’automobilismo, morto nell’estate del ’25 mentre primeggiava nel Gran premio di Monthléry, quanto suo figlio Alberto, acerrimo rivale e al tempo stesso amico del divino Fangio, deceduto trent’anni esatti dopo il padre sotto il peso di una Ferrari 750 Sport, abbiano infine trovato la pace e il riposo eterno presso il Cimitero Monumentale sito in Milano, nell’omonima piazza, l’uno accanto all’altro. Dei sette anni che i due condivisero nella vita terrena rimane appena una foto, un unico istante immobile la cui carne oramai brucia nel tempo, e da cui si eleva una impercettibile, sottile, scia di fumo brunastro, di quelle che segnalano, in lontananza, la mortifera sorte di un’auto da corsa ribaltata in un canale». Estratto dalle Note in op. cit., p.41, curatori anonimi, 1962, edizione stampata ma non ufficialmente pubblicata.

 

Osiride Pevarello (Montagna, 1920 – ?)

Osiride è morto ma nessuno se n’è accorto. O forse non è mai morto, che non ha senso morire se nessuno se ne accorge.

Credo sia morto perché non lo vedo più girare con la sua Graziella rossa e poi perché recentemente ho ritrovato un raro documentario del 1960 dove, intervistato nella roulotte in cui viveva, dichiarò di essere nato nel 1920, fratello di diciannove. Oggi dovrebbe avere quasi cent'anni e cento sono troppi in questa periferia dove si fatica ad arrivare all’età adulta.

Lo ricordo vendere il pesce con la sua Graziella rossa, in canotta o a petto nudo, e poi litigare con i vigili mentre pescava sul Pontile, dove era ed è tuttora vietato pescare. E lui rispondeva che stava facendo il bagno al verme.

Poi mio padre me lo fece vedere nei film di Bud Spencer, era quello che menava più forte, e io ripensavo a quell’uomo grosso, coi tatuaggi e l’orecchino che rispondeva alle guardie che stava facendo il bagno al verme e pensavo che da grande sarei stato come lui, mica come mio padre.

Osiride è stato uno stuntman caratterista che ha recitato in oltre cinquanta pellicole. Nel mio immaginario è la persona più illustre di Ostia dopo Anco Marzio e prima dei protagonisti di Mafia Capitale, rappresenta quelli che con le loro mani hanno costruito, forse inconsapevolmente, la forma di questa periferia, quelli che si sono arrangiati, coi banchetti del pesce e come comparse a Cinecittà.

Era o è padovano, non di Ostia, come tutti qui, nessuno è di Ostia, tutti vengono da qualche altra parte, prima Ostia non esisteva, c’era solo la foce del Tevere. Siamo tutti caratteristi e stuntman qui, un po’ sinti, come la famiglia da cui proveniva Osiride, un po’ pugili falliti come lui, coraggiosi, suonati e pieni di tatuaggi.

Osiride probabilmente non è mai morto, se così fosse con queste poche righe gli avrò solo allungato la vita.

Da quando non c’è più, nessuno pesca sul Pontile e questo posto è diventato solo più triste.

Eppure Ostia è ancora qui, sotto di noi: qualcosa di più di una semplice imprecazione.

 

Lhasa de Sela (Big Indian, 1972 – Montréal, 2010)

Cantadora, giocoliera e acrobata del circo, nomade per vocazione, fino a dieci anni visse coi suoi genitori hippie e con le sue tre sorelle più grandi, in un autobus che il padre, maestro di lingua messicano, aveva organizzato come scuola itinerante tra Messico e Stati Uniti. Sua madre, fotografa americana, le imponeva intanto, con sguardo leggero e contemplativo, uno strano destino, privandola del nome fino all’età di cinque anni: solo allora, leggendo un libro sul Tibet, la donna fu folgorata da quella parola, Lhasa, parola che le rimase impressa nella mente e che, da allora, divenne il vero nome della piccola. Ma se il nome arrivò con ponderata lentezza, la vocazione invece sgorgò subitanea, ché l’anima sa, più degli uomini, quanto la vita di questi sia breve: Lhasa a tredici anni già si esibiva, cantando, in una caffetteria greca a San Francisco. E proseguì a farlo, a suo modo, da nomade, attraversando quella che lei definiva “la frontiera dell’anima”, di bar in bar fino a Montréal, e poi fino in Europa dove, raggiungendo le tre sorelle, cominciò a lavorare nel circo-compagnia teatrale che quelle avevano messo su, tutte insieme, in Francia.

Intanto Lhasa raccoglieva il materiale che, con sapienza stregonesca, avrebbe mescolato nelle sue canzoni-poesie. Componeva musica e testi attingendo dal repertorio di canzoni popolari del Sud America, dalla musica gitana dell’Europa orientale, dal folk americano, fondendoli in brani originali, dando vita a un mondo personale, l’immaginario della sua infanzia itinerante.

Dopo il primo album, La Llorona, e prima di morire a trentasette anni per un tumore al seno, nel giro di dieci anni Lhasa compose altri due gioielli della musica mondiale: The living Road e Lhasa.

Oggi il parco Clark nel quartiere Mile-End di Montréal, si chiama Lhasa De Sela, come lei, e non come il capoluogo del Tibet.

 

Iara Iavelberg (São Paulo, 1944 – Salvador de Bahìa, 1971)

Da un medico con gli occhi gialli, di cui smette di essere moglie a diciannove anni, Iara Iavelberg impara tutto quel che non vuole essere. In un mattino gelido di dicembre diventa Clàra e nasconde la propria ombra tra le pareti ammuffite dove respirano quelli che ora sono i suoi simili. Spara contro sagome di cemento all’alba, insegna marxismo nei caseggiati senza nome, attraversa le notti con un solo occhio chiuso. L’altro fissa la pallottola da destinare al proprio cuore.

Iara sa che le mani dei militari sono tenaglie arrugginite: quel che non riescono a possedere, lo possono annientare. Assieme a Carlos Lamarca – o Capitão da revolução – raccoglie da terra la cenere dell’MR-8 e della Vanguarda Popular, e con quei granelli assembla una bandiera che sventola sul rogo gracile della rivolta armata. La dittatura brasiliana affigge sui muri silenziosi i volti degli ultimi terroristi . I più ricercati appartengono a una coppia. Lui un capitano disertore, lei la figlia di ricchi ebrei che invece di posare nelle vetrine di cristallo dell’alta società ha scelto di essere tempesta. Una tempesta su cui, nell’estate del ’71, si abbatte il deserto.

Nella stanza accanto i rumori sono appena percettibili, il caldo ha trasformato l’aria in pietra, ma non sono le lucertole a graffiare la parete del rifugio di Pituba, a Salvador de Bahìa. Iara esce dalla finestra. Cammina sul cornicione con un solo occhio aperto. Scivola dentro una caverna di afa e intonaco. Qualcuno strilla nella sua direzione. Le lucertole sono ora coccodrilli, lei sente già le tenaglie sulla carne, le palpebre infuocate. Iara Iavelberg – a Musa da revolução – diventa un cimelio da affondare nella terra dei rinnegati, fuori dalle mura del cimitero ebraico, dove giacciono i suicidi. E il suo nome, che sia Iara o Clàra, proprietà di un verbale militare.

Ma se la verità, come la bellezza, è liquida e abbaglia, sfuggendo tra le dita e accecando chi pensa di possederla, allora c’è chi più di trent’anni dopo decide di raccogliere da terra la cenere di questa storia e con i suoi granelli assembla una bandiera, che sventola luminosa verso il processo di «Verità per la Nazione». E c’è chi dice che la verità ha il suono lacerante delle grida in fondo a un corridoio. «Era lei, ne sono certo». O che a Iara toccò la sorte dell’amato Carlos, ucciso nella stessa polvere ventisette giorni dopo: non fu lei a scegliere, tra la resa e il buio, le spararono nel petto, dentro una nuvola di gas.

 

Teresa Green (Parigi, 1956 – Parigi, 1992)

Figlia di una coppia di artisti americani di stanza a Parigi, a sette anni è già orfana e viene accolta dalle Sorelle della Santissima Vacca Celeste, come le chiamerà in una lunga intervista (mai pubblicata) per il Festival di Cannes. Qualcuno la ricorda nel ruolo di Emily in Il giardino dei sussurri di Roland Malet, anche se la sua interpretazione più celebre resta quella della morta senza nome di Delitto a bordo piscina, in cui appare completamente nuda e insanguinata, dapprima sotto gli occhi del gruppo di ragazzi che scoprono il suo cadavere, poi nei loro sogni. Al cinema era arrivata dopo aver fatto per anni la donna delle pulizie. Nella sua prima intervista dichiara: «Le regole della donna delle pulizie sono semplici. Pulisci anche dove a casa tua non puliresti, pulisci anche quello che non può essere pulito, pulisci quello che viene sporcato affinché tu lo pulisca, non rubare niente, ringrazia sempre quando ti pagano, ringrazia dio, non fare la troia con i figli o i mariti delle signore». Nel 1978 viene notata da Malet in un vagone del metrò. «Stavo andando a suicidarmi quando la vidi» racconterà il maestro. «Senza fare nulla mi fece cambiare idea». Sarà la sua musa per quattro film. Quando a Parigi arriva una tempesta, Teresa si chiude in casa e beve. Non vuole uomini, non vuole donne. Nel suo soggiorno è appeso un quadro comprato da un morto di fame a Barbès, che ritrae una spiaggia d’inverno. Nel 1985 si avvicina allo spiritismo. Muore di cancro alle ossa nel1992. Malet la fa seppellire a Montparnasse, a pochi metri dalla tomba di Jean Seberg. Vincent Cassel e Mathieu Kassovitz, in diverse occasioni, confesseranno di essere stati innamorati di lei da adolescenti e di essersi masturbati sulle sue foto. Michel Piccoli, invece, di aver pianto sulla sua tomba. Jean-Luc Godard, scolandosi un bicchiere di Château Lafite, dirà: «Mai sentita nominare».

 

Otto Witte (Dortmund, 1872 – Amburgo, 1958)

Giocoliere, menestrello, domatore di leoni giace ad Amburgo sotto la scritta Re d’Albania. La stessa esibita sui suoi documenti dal giorno che, comparso dal nulla a Berlino, pretese che si attestasse la sua identità. Nessuno può dire se fosse affetto da pseudologia fantastica o se si trattasse di un ordito austriaco contro ogni possibile ingerenza turca. Fatto sta che Otto Witte, nel 1913, se ne andava zigzagando col suo circo per le terre del vecchio Impero Ottomano. Arrivato in Albania, seppe che ottantatré albanesi, temendo la spartizione della loro terra tra confinanti, avevano proclamato lo Stato Indipendente. Nell’attesa che il mondo ne appurasse l’effettiva esistenza, quel nuovo Paese brigava ancora per avere un re e Otto, uomo allegro, generoso nonché amante di una certa dose di rischio, pensò bene di regalargliene uno. Aiutato da due mustacchi neri, un abito di scena, due cavalli bianchi e un amico mangiatore di spade si presentò a Durazzo e, alla presenza di consoli, popolo e alti dignitari, si fece incoronare Otto I, parente ed emissario del Sultano. Nei cinque giorni di reggenza raccontò d’aver fatto in tempo a dichiarare guerra al Montenegro, minacciare una marcia su Belgrado ma, soprattutto, a provare numerose posizioni nell’harem di corte. Un telegramma da Costantinopoli smascherò la truffa: il vero re sali al trono senza mai incontrare il re falso. Nessuno sa se quella interpretazione rese Otto immortale. Di certo però gli consentì di scappare e mettersi in salvo portandosi via la metà del tesoro del regno.

 

Giovanna Bonanno (Palermo, 1713 – Palermo, 1789)

Dicono che il Padreterno ad alcuni abbia dato la ricchezza, ad altri la nobiltà e ad altri ancora l’intelligenza. Li ha divisi il Signore. Giovanna Bonanno nobile non lo era, ricca nemmeno, campava miseramente d'elemosina, però il cervello ci camminava. Un giorno si trovava in via Papireto, sopra la strada che da più di duecento anni cummigliava il fiume, quando a un certo punto vide una cosa che la intrigò. Una madre portava in braccio una bambina tanto sofferente che pareva dovesse morire da un momento all'altro. La picciridda, che si salvò dopo che gli avevano fatto bere dell'olio e l'avevano fatta vomitare, per sbaglio s'inghiottì aceto per pidocchi, insomma aceto e arsenico. Alla Bonanno gli venne un'idea, ma prima bisognava provare. Pigliò un cane, l'attaccò a Porta d'Ossuna e ci diede da bere l'aceto per i pidocchi. Dopo due giorni u'canuzzu morto. Ma la cosa bella era un'altra: l'animale il pelo perfetto ce lo aveva, manco le gengive nere gli erano diventate, nessun segno d'avvelenamento. La Bonanno iniziò a spargere la voce per il quartiere della Zisa che aveva un rimedio infallibile per risolvere qualunque dissidio familiare. Tempo niente e i clienti si moltiplicarono come babbaluci dopo un acquazzone, che qualcuno che ci stava antipaticuliddu ce lo avevano tutti. Ma naturalmente la cosa non era fatta per durare. I funerali iniziarono a essere troppo frequenti, e quando una madre vide morire il figlio e risposare la nuora dopo pochi mesi, il limite fu superato. La vecchia fu rinchiusa nel carcere della Vicaria e condannata come strega. Durante il processo, disse unicamente: «Io solo bene faccio alla gente e il pane ce lo devo portare a' casa». Il 30 luglio 1789 manco il sole era spuntato, che già i Quattro Canti erano pieni di carrozze e portatine di nobili arrivati ad assistere allo spettacolo. Morì così Giovanna Bonanno, con il corpo che si annacava al vento e le quattro sante protettrici sopra di lei, e allo stesso modo nascì la storia della Vecchia dell'aceto.

 

Harry Houdini (Budapest, 1874 – Detroit, 1926)

Per iniziare fuggì la vecchia Europa prima dei vampiri e degli spettri della guerra. Poi fuggì il suo nome. Presto dovette capire che nell’abitudine cresce il demonio, il carattere, o semplicemente il fato. Manette, catene e camice di forza lui le fuggiva, se ne liberava, e, quando migliaia di occhi lo stavano a guardare, quando tratteneva il fiato, non era né vivo né morto, ma era così che cantava il diritto al sogno. E quando era il pubblico a trattenere il fiato, allora, gli stava insegnando a sperare: è nelle stanze cieche, nelle scatole impossibili che si trova il coraggio della poesia, come nelle palpitazioni l’esattezza della vita e la disciplina dell’arcano. Si fugge per poter tornare e per un applauso, sia chiaro. E così, in una notte di Halloween, i riflettori si spensero definitivamente, ma, ancora un attimo, un inchino e poi una promessa: «Se è veramente possibile a qualcuno tornaredall'aldilà, Harry Houdini lo farà».

 

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