Fa’!
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Fa’!

Avevi occhi che sembravano liquefarsi ogni respiro, ma rimanevano intatti. Io evitavo di incrociarli per paura erompessero. Gli abiti ci stavano addosso come orpelli, maschere da indiani e cowboy all’asilo in foto ingiallite. Sentivo canti di vite passate.
Ci siamo confessati segreti sicuri. Stalattiti e stalagmiti delle notti insonni, solitarie. Mentivamo consci di non poterlo fare ancora a lungo. Era come altri 5 min al mattino.
La tua storia d’amore ti ha spezzata perché non ti sei mai sentita riconosciuta. Ti sei presa in faccia della violenza verbale nascosta da silenzio. Io, dopo un monte di anni che si credevano calcarei, oggi ho paura delle ombre dei gatti. Ho rimorso.
Il bancone del locale era incerato di recente, sembrava volesse sacrificarsi per noi. O di scorticarci vivi. Sei tu che hai chiesto di raccontarci le ultime storie, storie che sono stufo anche di pensare dopo aver intasato i labirinti membranosi di chiunque conoscesse me e lei. Tu non so, forse non ne hai fatto parola con nessuno. Avevi una parvenza di mandorlo.
Né io né il bancone sappiamo chi sei. Sappiamo che occupi una sedia non lontana dalla mia in uno spazio chiamato ufficio che invece è un modo per tenerci distratti.
Dopo il primo cocktail il tuo sguardo si è solidificato. La voce perdeva qualche tono, ma gli occhi no, non più. Alla fine, avevamo fame e ci ha salvati un pezzo di pizza. Alla fine, io ti ho abbracciata e tu hai fatto la stessa cosa. Due pianeti che si allineano, ma senza che alcuno li fotografi. Il tessuto del tuo cappotto è più delicato di quanto non avessi pensato.

Una serata perfetta, ci siamo detti. Perfetta di bisogni.
Poi una sorta di volontà di potenza si è impossessata di me. Non potevo oppormi: in questo periodo sono un indigeno che fruga il racconto della strada di casa. Sono nudo e mi spargo la sabbia del deserto sul sudore. Non sudo. Sono Esodo. Io sono colui che sono.
Per essere più perfetta dovrei venire a dormire da te, ho detto.
No.
Non è possibile, hai detto.
Tranquilla. Tranquillo anche tu, hai sussurrato con una voce nuova, dolce che non avevi ancora usato, ma che ero certo frinisse da qualche parte in te.
Un sorriso. Avvisa quando torni a casa. Certo. Sono a casa, buona notte. Notte.

Stasera il bancone mi ha chiesto di te. Gli ho risposto solo che avevo un sacco di silenzio da raccontare. Il suo, diventato tuo, ora mio. Era un cappotto proprio morbido.

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