Quando si trattava di donne, il nostro Giancarlo Mobrini veleggiava come una nave che imbarca acqua in mezzo al mare in tempesta: sbattuto di qua e di là senza una rotta, sempre sul punto di affondare.
Ma lui, testardo come una capra zoppa, continuava imperterrito a navigare fra le correnti torbide dell'amore, convinto che prima o poi avrebbe trovato il suo porto sicuro.
La prima donna che gli fece girare la testa fu Marinella Sgarbozzi, una giovane trasteverina con una chioma rossa come il fuoco e un carattere per nulla mansueto tipo gatto scorticato. La incontrò in una sera dell'estate del 1977 a Campo de' Fiori, mentre lui stava declamando le sue poesie sconclusionate davanti a un gruppetto di fricchettoni mezzi addormentati. Marinella passò di lì per caso e si fermò a sentirlo, attratta più che altro dal suo aspetto trasandato e dall'odore di vino che emanava come una fontana sudata.
"A bello, ma che stai a di'? So' tutte cazzate!" gli urlò Marinella quando Giancarlo finì di recitare.
Il poeta la guardò con gli occhi iniettati di sangue e replicò: "Ahò, a zoccoletta co' la permanente, ma che ne sai te de poesia? Vatte a legge 'n fotoromanzo, va!"
Pure se da questo scambio non si direbbe, fu amore a prima vista.
Infatti, da quel momento, Giancarlo e Marinella diventarono inseparabili, come cane e padrone, solo che non si capiva mai chi fosse il cane e chi il padrone. Lei lo seguiva in tutti i suoi reading improvvisati, interrompendolo di continuo con commenti sarcastici e sonore pernacchie. Lui la portava in giro per le bettole più malfamate di Roma, dove la presentava come "la mia musa poracciona".
La loro relazione era un continuo scambio di insulti e provocazioni, letterarie e non, intervallate da scopate furiose nei posti più improbabili: dietro ai cassonetti dell'immondizia, sui tetti dei palazzi occupati, persino dentro una cabina del telefono a Porta Portese, con tanto di vecchietta indignata che bussava per usare l'apparecchio.
Giancarlo dedicò a Marinella una delle sue poesie più celebrate (o, direbbero i detrattori, meno detestate):
Sei come 'na cozza attaccata allo scojo,
'na zanzara fastidiosa che ronza de notte,
'n pruno ner culo che nun se po' toje,
ma senza de te la vita sarebbe 'na lotta
contro er nulla, er vuoto, la noia infinita.
Perciò resta qui, a rompeme li cojoni,
finché morte o sbronza non ci separi.
Ai meno avveduti la loro unione sembrò destinata a durare per sempre, come una macchia di sugo su un maglione bianco. Ma come tutte le cose belle (e Giancarlo di cose belle ne aveva viste comunque poche nella sua vita), anche questa storia era destinata a finire.
Fu nell'inverno del 1980 che Marinella, stanca di vedere l'uomo suo sempre ciucco e senza una lira, decise di mollarlo per un commercialista tirocinante. "Almeno lui c'ha 'n lavoro vero, forse!" urlò a Mobrini mentre se ne andava sbattendo la porta della stanza dove vivevano, nel Bertone Petrone occupato. Giancarlo, troppo ubriaco per rendersi conto di cosa stava accadendo davvero, e sempre inutilmente influenzato da una certa letteratura classica romantica, si limitò a borbottare: "Vattene, zozza! Tanto lo so che tornerai..."
Ma Marinella non tornò mai più. E Giancarlo cadde in una depressione nera come il carbone, che nemmeno litri e litri di vino sfuso riuscivano a mitigare. Per mesi vagò per le strade di Roma come un'anima in pena, un Giovane Werther della pajata, declamando versi strappalacrime dedicati alla sua amata perduta:
T'ho persa come se perde 'n portafogli sur tram,
come se perde la dignità quanno se cade pe' strada,
come se perde la speranza quanno se guarda er telegiornale.
Ma tu nun sei 'n portafogli, la dignità o la speranza:
sei er battito der core mio, er respiro dei miei pormoni,
la luce dei miei occhi... e mo so' rimasto ar buio,
senza 'na lira, senza fiato e co' 'n vuoto che me divora.
Sarà il destino, sarà il fascino dell'artista sgarrupato, sarà il vino che aiuta a cancellare i dolori, Mobrini non rimase comunque solo per molto. Nel giro di pochi mesi conobbe quella che sarebbe diventata la sua prima (e unica, per quanto se ne sa) moglie: Gelsomina Rattazzi, detta "Mina la Mistica".
Mina era una poetessa incompresa originaria di Orvieto, con una passione sfrenata per l'assenzio e le teorie del complotto. Era convinta che i piccioni fossero in realtà spie del governo, che l'uomo non fosse mai andato sulla Luna e, a dirla tutta, pure che la Terra fosse piatta come un vassoio di pizza al taglio. Ma soprattutto, più di tutto, era fermamente persuasa che Giancarlo Mobrini fosse il più grande genio della letteratura italiana contemporanea.
I due si conobbero durante un poetry slam abusivo organizzato nelle catacombe di San Callisto (sì, proprio quelle), dove Giancarlo stava declamando una delle sue classiche liriche mitopoietiche:
So' er vate der marciapiede, er profeta der pattume,
canto le gesta der popolo dei tombini,
la gloria dei ratti de fogna e delle zoccole de periferia.
La mia musa è 'na bottija de vino scaduto,
la mia penna è 'n mozzicone de sigaretta,
er mio calamaio è 'na pozzanghera d'orina.
Ascoltateme bene, o voi che passate:
non so' l'ultimo stronzo, so' l'ultimo bardo!
Mina rimase folgorata. Mai prima d'allora aveva sentito tanta sublime decadenza, tanto squallore elevato ad arte. Per lei fu come una rivelazione irrazionale, una sorta d'illuminazione lirica. Quando Giancarlo finì la sua performance, Mina si precipitò verso de lui e, senza neanche presentarsi, lo baciò appassionatamente sulla bocca.
"Maestro!" esclamò con gli occhi lucidi. "Lei è il Baudelaire di Tor Pignattara, il Rimbaud del Tuscolano! Mi prenda come sua discepola, la prego!"
Giancarlo, ancora stordito dal bacio (e dai sette bicchierini di sambuca che si era scolato), la guardò perplesso e rispose: "Ahò, a bella, ma che stai a di'? Io non so' maestro de niente, so' solo 'n poraccio co' la fissa pe' le parole in rima!"
Ma Mina non volle sentire ragioni, e da quel momento si autoproclamò allieva, musa e compagna del sommo "vate delle borgate". Prese a seguirlo ovunque come una fedele discepola, pendendo dalle sue labbra e prendendo appunti su ogni sua parola, anche quando si trattava solo di un borbottio incomprensibile.
Giancarlo, dal canto suo, si lasciò trasportare da quell'adorazione incondizionata. Era la prima volta che qualcuno lo trattava davvero come un artista di valore e non come un barbone con la passione per il verso libero. Così, quasi senza rendersene conto, si ritrovò a convivere con Mina in una specie di comune hippy in un sottotetto occupato a San Lorenzo, prima di trasferirsi ancora una volta al Bertone Petrone, in compagnia degli altri sedicenti artisti del giro di Mobrini.
La loro relazione fu fin da subito un mix esplosivo di alcol e poesia, disincanto e follia. Passavano intere giornate a scrivere versi sui muri, a organizzare reading per i senzatetto e a discutere animatamente sulla superiorità artistica delle scritte nei cessi pubblici rispetto ai grandi classici della letteratura.
Fu proprio durante uno di questi momenti di estasi creativa (o sbornia colossale - era sempre sottile la linea che separava le due situazioni) che Giancarlo ebbe la brillante idea di sposare Mina. Erano le tre di notte e stavano vagando per le strade deserte del centro storico, urlando poesie oscene alle statue di marmo.
"A Mina!" sbottò all'improvviso Giancarlo, felice come mai si era sentito. "Ma lo sai che sei la donna della vita mia?"
"Oh, maestro!" replicò lei con le lacrime agli occhi. "Lei mi confonde con le sue parole sublimi!"
"No no, dico sul serio!" insistette lui. "Damose 'na regolata: sposame!"
E così, senza pensarci due volte, si presentarono davanti a un povero prete assonnato nella sagrestia di Santa Maria in Trastevere, forzando varie porte e serrature, pretendendo di essere sposati seduta stante. Il prete, terrorizzato da quella coppia di pazzi seminudi e puzzolenti di liquore, non chiamò la polizia né li scomunicò, ma anzi acconsentì alla cerimonia pur di mandare via il prima possibile quel duo sgangherato.
Lo sposalizio, come inevitabile viste le premesse, fu essenziale e durò meno di cinque minuti. Mobrini improvvisò un discorso nuziale in versi che fece accapponare la pelle al malcapitato sacerdote:
Mina, core mio,
te piglio in sposa come se pija 'na sbornia:
co' entusiasmo, passione e dedizione totale.
Saremo come du' barboni sotto lo stesso ponte,
come du' topi nella stessa fogna d'amore.
Navigheremo insieme nel mare dello squallore,
urtando contro li scogli della miseria,
ma sempre uniti, come mosche sulla stessa merda!
Mina, commossa, rispose con un sonetto che a sua volta rischiò di provocare una sincope al prete:
Oh Giancarlo, mio sublime amato,
accetto la tua proposta indecente
d'essere tua moglie e tua musa fetente,
fino a che coma etilico non ci vinca.
Sarò la Regina del tuo regno decadente,
l'ancella del tuo verbo delirante,
la cozza del tuo scoglio puzzolente,
la cacca della tua fogna esaltante!
Insieme esploreremo i bassifondi,
dell'anima umana e dei quartieri,
cantando le gesta dei vagabondi.
Saremo poeti, amanti e pezzenti,
uniti nella gioia e nei pensieri,
fino all'ultimo dei giorni putridi e redenti!
Il prete, bianco come un cencio, li dichiarò marito e moglie e si precipitò in confessionale a chiedere perdono per quello scempio sacrilego.