Molti anni sono passati da quel drammatico 8 agosto 1991, quando la città di Bari fu pacificamente invasa da circa ventimila albanesi che fuggivano da un paese disperato. Oggi molti di loro sono diventati cittadini e lavoratori italiani, altri hanno scelto di rientrare nel loro paese e …
Debora spense la radio. Trafficò nella tasca dello sportello. Infilò una compilation di canzoni, puntò la tre.
Quanti anni erano passati? Faticava a contarli. Un tempo immisurabile, scivolato via, come le macchine sulla tangenziale.
Per un attimo rimontò l’odore di ruggine e gasolio, di sudore e di urina che il viaggio aveva lasciato nella carne. Abbassò il finestrino e un vento freddo spazzò l’abitacolo. Dal cielo di piombo scendeva qualche spruzzo di neve.
Quando era nata, le avevano raccontato, Durazzo era tutta bianca, e non sembrava la stessa città. Sua madre la teneva fra le braccia avvolta nel telo e guardava oltre la finestra il vorticare dei fiocchi. L’aveva chiamata Debora, che in albanese significa neve.
Mentre ascoltava le note di Vasco Rossi se ti potessi dire, quante volte ho voluto morire, quante volte camminando sul filo, sono stato, sono arrivato vicino all'inferno un’auto le strombazzò, perché inavvertitamente aveva rallentato.
Pestò l’acceleratore.
Le piaceva guidare nel fiume turbinoso del traffico, per questo aveva rifiutato di trasferirsi vicino alla clinica.
“Chi è nato con la neve non si lamenta del freddo”, le ripeteva la madre quando all’alba facevano la fila per il latte.
Suo padre, dalla mensa degli ufficiali, portava a casa qualche pezzo di carne asciutto e stopposo, e orgoglioso lo distribuiva nei piatti.
Ne risentiva la consistenza di gomma sotto i denti, l’odore forte, mischiato con quello aspro di alghe e catrame, che il vento trasportava dal mare. A lei piaceva il mare. Nei giorni di sole correva al molo con un libro di scuola e, alzando gli occhi dalla pagina, si perdeva fra le onde.
Quando lui già era partito, in quelle onde sentiva l’odore di Deda, odore di tabacco e di birra scadente. Allora le prendeva paura che quel mare, sporco di olio, stesse per restituirgliene il corpo, come era successo ad altre donne.
Non capiva quel bisogno che aveva sempre di correre al porto. Non certo per l’ansia di vederlo tornare. Da quando era partito la sua vita era più leggera. Volava sulla bicicletta, senza sentire l’affanno dei pedali arrugginiti.
Eppure il pensiero che lui la chiamasse, che la traghettasse nel mondo di là, le suscitava un’attesa gioiosa. “Ti farò venire in Italia”, le aveva promesso, “finirai laggiù medicina. Neppure per un medico c’è speranza qui”.
Dall’altra parte del mare, ne era sicura, anche Deda sarebbe stato diverso.
Nelle giornate di sole, dopo il turno in fabbrica, scappava in bicicletta fino al molo e puntava i piedi per frenare. Osservava le barche dondolarsi pigramente sul riflesso dell’acqua, o sbattere contro i muraglioni, quando s’alzava il vento e il mare s’ingrossava. Aveva riconosciuto quella su cui si era imbarcato Deda, la più ammaccata di tutte, con un gabbiano dipinto sulla prua. E il pescatore che lo aveva fatto partire.
Lo osservava mentre tirava le vele e armeggiava sul ponte. Lei azzardava un saluto, ma lui abbassava la testa, e girava le spalle. Gente scontrosa, la sua, addestrata al silenzio.
Chissà come se la stava passando Deda. Tutto bene viaggio e altro. Appena sistemato chiamo te. Baci tanti, le aveva scritto, in quell’italiano buffo imparato dalla tivù.
Poi l’estate era ingiallita, la polvere si era fatta fango, anche l’inverno passava e dopo quella cartolina niente.
Solo il mare le ricordava quell’uomo che aveva spinto a partire. Era esistito veramente?
Anche ora, mentre metteva fuori la freccia e si divertiva a un sorpasso azzardato, doveva sforzarsi per resuscitarne il ricordo.
Se ti potessi dire quante volte ho pianto per capire …
Deda glielo aveva portato a casa suo padre, una sera come tante, quando l’Albania era ancora un paese decente. Anche Deda allora era un uomo decente, anzi bello. La riga fra i capelli, la cravatta impeccabile, in mano una bottiglia di vino e una scatola di tonno.
L’amore era sbocciato subito, e sua madre le aveva cucito un abito azzurro, scollato e stretto ai fianchi, per passeggiare in città, al braccio di lui, all’ora del tramonto. Deda quasi marciava, mentre le parlava della fabbrica. Era un lavoro importante il suo. Doveva vigilare sulla produzione ed evitare che i sabotatori s’infiltrassero nei reparti. Già si fiutava qualcosa e gli operai lanciavano certe occhiate che prima non avrebbero osato.
Lei confidava di trovare un posto alla facoltà di medicina, suo padre si stava dando da fare.
A ripensarci l’assaliva una specie di nostalgia per quella promessa di felicità, che invece era già tutta lì.
Poi il mondo era andato a testa in giù. Suo padre annichilito, la madre divorata dal cancro. Deda cacciato come un malfattore e l’offesa che non gli dava pace. Proprio lui, direttore della fabbrica e quadro del partito.
Il passo sicuro era diventato un instabile trotterellare, quando ancora l’accompagnava in città, insaccato nel braccio di lei.
Pretendeva che le sue poche camicie venissero stirate, poi la stoffa aveva ceduto e stracciato come gli altri era salito anche lui su una traballante impalcatura, a tirar su una fabbrica straniera. Un vecchio operaio l’aveva riconosciuto e additato agli altri.
Era tornato a casa e lavoro non ne aveva cercato più.
Lei invece in una di quelle fabbriche cuciva vestiti per la gente aldilà del mare, e almeno si campava.
La mattina si alzava all’alba, perché la fabbrica era lontana. Camminava lungo il porto e il rumore del mare calmava la tempesta che si portava dentro. Deda vagava da un bar all’altro, a bere e a inveire contro i traditori. E quando la sera si gettava sfinita sull’unica sedia di casa, lo trovava buttato sul letto, col fiato che puzzava e lo sguardo buio. Tacevano, di rancore e di vergogna.
Eppure lei non mollava, e un po’ di tempo per studiare, anche allora, era riuscita a strapparlo.
A forza di passare accanto al mare, lungo la strada piena di sassi, a Debora venne l’idea di partire. Sapeva di tanti che a notte fonda si nascondevano fra le lamiere delle navi, e poi li si rivedeva dopo qualche mese in automobile, con addosso i vestiti che lei cuciva. Lui non voleva saperne. Lo trascinava la sera, fino alla spiaggia, sull’orlo dei casermoni, che nel buio sembravano spettri.
“In Italia nessuno ti conosce, potrai fare quello che vuoi”, gli sussurrava fra i latrati dei cani, “e se lavorerò anch’io saremo ricchi presto. Avremmo una casa vera, potrei finire l’università. La vita sarà tutta diversa”.
“Non striscierò come un sorcio dentro una stiva. Le cose non andranno sempre così. Il partito si sta riorganizzando!”, ringhiava lui.
“Il tuo partito è morto”.
“Ma poi, come troveremmo i soldi per andare?”, le chiese una sera, la testa fra le ginocchia, gli occhi socchiusi.
Fu lei a procurarglieli, e glieli mise in mano quasi con odio.
Che partisse, che affogasse, non faceva differenza, pur di sgravarsene. E stringeva in mano uno di quei grossi sassi pieni di punte che le bucavano le ruote della bicicletta. Lo stringeva fino a farsi sanguinare la mano, poi lo lanciava. Un tonfo a inghiottirlo, nel luccicore della notte infida e ostile.
E finalmente era partito.
Quante volte sono stato sul punto di lasciarmi andare all'inferno, canta Vasco Rossi. Ritrovarsi sola l’aveva salvata. Se fossero partiti insieme, ovunque sarebbe stato lo stesso. Sua madre stava morendo, non poteva lasciarla.
Non aveva raccontato a nessuno quello che successe poi. Forse un giorno ne avrebbe parlato a suo figlio. Forse. S’immaginò anziana, seduta in giardino, suo figlio la bacia prima di andarsene. Lei lo trattiene.
“Ho qualcosa da dirti”.
“Un’altra volta, mamma, vado di fretta”.
“No, adesso...”
Uscì dalla tangenziale. La clinica dove lavorava era fuori città, sulle colline.
Se potessi raccontarti per davvero… I ricordi sono freddi, come se appartenessero a un altro.
Era successo una sera, lungo la costa. Sua madre era morta e ora aveva un solo pensiero. Partire, a ogni costo, anche senza l’aiuto di lui.
Aveva avvertito alle spalle un fruscio, confuso con altri rumori. E già credeva a un errore, ma poi quella cosa l’aveva sfiorata.
Riconobbe il respiro, irregolare e stanco. Un attimo di pena, una pena amara e contorta. Stava per voltarsi, quando le parve di intravedere all’orizzonte delle fiammelle come di candela, che si agitavano e svanivano. Poi riapparivano.
“Debora, sono io. Da un po’ ti seguo, e non osavo...”
Non capiva se quei ceri si allontanassero o no. Non si voltò.
“Non volevo più tornare, Debora. Ma poi è andato tutto male... e ho pensato a te...”
Una tempesta laggiù. A riva il mare era calmo, solo un incresparsi di riflessi lunari. Le notti d’estate assomigliano all’eternità.
Debora appoggiò il mento alle ginocchia.
“Le ho tentate tutte: di aprire un bar, di vendere sigarette... la sfortuna mi ha perseguitato... come pensavi che potessi partire?... era una cosa impossibile...”
Un uccello notturno lanciava un richiamo perentorio e infantile, irritante. Il tempo si sfilacciava.
“Sei arrabbiata per i soldi? Te li ridarò, in qualche modo. Guardami, per Dio... di' qualcosa!”
Dal terreno saliva il gracidare delle rane.
“Avevo chiesto al marinaio di mandarti una cartolina da Brindisi. Ho cercato di essere come volevi...”
La voce di lui era supplichevole e imperiosa, con la stizza per quel bisogno di essere riconosciuto e accolto che gli veniva negato.
“Debora, guarda come sono ridotto! Non ricordo da quant’è che non mangio. Aiutami. Torniamo a casa. Lavorerò. Guardami, accidenti, sono tuo marito!”
La paura le salì in gola. Una paura che le seccava la lingua e morsicava la testa.
“Guardami, ti dico!”, aveva gridato Deda, e l’aveva afferrata con rabbia alla nuca cercando di farla girare. E lei si girò. Ne guardò il viso scavato e cattivo, la bocca infossata.
Quando il sangue prese a scorrergli sugli occhi sbarrati e a rigargli gli zigomi sporchi di polvere, le sue braccia si erano messe ad annaspare, come se stesse nuotando. La bocca gli tremò, mentre la gola di lei pian piano riprendeva il respiro. Continuò a percuoterlo col grosso sasso che teneva in pugno e le unghie e i polpastrelli le si laceravano a ogni colpo. Ma la forza cresceva, con la voglia di colpirlo di nuovo.
Quando cadde a terra il sasso continuava ad abbattersi fino a sfondargli la fronte.
Allora Debora sentì il dolore alla mano. Gettò il sasso nell’acqua. Era leggera e felice. Quella neve antica tornò a posarsi sugli alberi e i davanzali, sulle antenne, sui viottoli, sulla riva silenziosa. Su di lei e sulla mano indolenzita.
Afferrò Deda per le spalle e lo trascinò in acqua. Lo spinse fin dove toccava, e ancora lo lanciò avanti come una zattera in partenza. Si sciacquò del sangue e della polvere, prima di tornare a casa.
Tante volte suo marito le aveva proposto un viaggio in barca fino a Durazzo, voleva vedere i luoghi dov’era nata, fare a ritroso il viaggio che l’aveva portata in Italia. Ma Debora non aveva voluto. Ora, mentre s’infilava nel parcheggio della clinica, pensò che quel viaggio avrebbero potuto farlo. Tutto era successo in un altro tempo, un tempo morto. Ricordare, non faceva più male.
Vivere per amare
Vivere per sognare
Vivere per rischiare