Il Poetry Slam di Velletri
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Il Poetry Slam di Velletri

 

 

Era l'estate del 1986 quando Velletri, placida cittadina dei Castelli Romani, fu scossa da un evento che avrebbe cambiato per sempre la storia della poesia italiana – o almeno così immaginarono gli organizzatori dopo qualche bicchiere di troppo.

Quello che solo in seguito venne definito come il primo poetry slam sul territorio nazionale, nacque da un'idea di Mimmo Sforza detto er Ciofeca, un ex benzinaio con velleità artistiche che aveva scoperto la poesia in maniera improvvisa e traumatica, ovvero in seguito a una botta in testa subita cadendo da una scala. Er Ciofeca, convinto una volta ripresosi di essere la reincarnazione di Trilussa, decise che era ora di portare un po' di cultura nella sua città natale.

"Basta co' 'ste sagre der carciofo e da' salsiccia!" tuonò una sera al bar, sbattendo il pugno sul tavolo e rovesciando il suo ennesimo bicchiere di Cesanese. "Velletri se merita 'na manifestazione de livello internazionale!"

I suoi compagni di bevute lo guardarono perplessi, ma Mimmo non si lasciò scoraggiare. Con l'entusiasmo tipico degli ubriachi visionari, iniziò a organizzare quello che, nella sua mente obnubilata ed etilica, sarebbe diventato l'evento culturale del secolo.

La notizia del poetry slam si diffuse rapidamente nei circoli letterari alternativi di Roma e provincia. Locandine scritte a mano comparvero sui muri delle strade, nei locali frementi e sgarrupati, nei bagni dei centri sociali, sotto i ponti dove dormivano i poeti barboni. Il tam-tam arrivò fino alle orecchie di Giancarlo Mobrini, che all'epoca era all'apice della fama e veniva appellato come er Leopardi della Gianicolense.

Mobrini, sempre a caccia di nuove aree da acculturare e platee da scandalizzare, fiutò l'occasione di portare la sua arte scurrile e visionaria oltre il Grande Raccordo Anulare. Radunò la sua cricca di artisti scalcagnati e annunciò con fare teatrale: "Regà, se va a Velletri a fa' 'n macello!"

Fu così che una carovana sgangherata di poeti, pittori e musicisti si mise in marcia verso i Castelli Romani. C'era Mobrini ovviamente, con la sua fedele bottiglia di sambuca. C'era Alexio De Gasperi, il fotografo maledetto, armato della sua inseparabile Nikon e di una scorta di distillati per resistere alla trasferta. C'era Bruto Vutrico, il pittore espressionista in quel momento noto per dipingere solo usando escrementi di piccione. E poi una pletora di figure minori del sottobosco culturale romano: poeti eroinomani, cantautori stonati, ballerine zoppe, performer concettuali di dubbia lucidità mentale.

Il viaggio verso la pur vicina Velletri si trasformò dunque in un'odissea alcolica. Il pulmino scassato su cui viaggiavano, un vecchio Volkswagen preso in prestito da un centro anziani, un macinino che aveva attraversato i continenti fino in India e in Afghanistan un paio di decenni prima, ma ormai a rischio implosione a ogni cambio di marcia, si fermava in ogni osteria lungo la via Appia. A ogni sosta, la combriccola scendeva per lubrificare l'ispirazione a colpi di vino dei Castelli.

I nostri performer arrivarono a Velletri nel tardo pomeriggio, più ubriachi che ispirati. La città li accolse con un misto di curiosità e diffidenza. Mai si erano visti personaggi simili per le strade del tranquillo borgo: sembravano una via di mezzo tra una carovana di zingari e un circo in disarmo, un incrocio fra dei clown maledetti e dei cannibali anemici.

Il poetry slam era stato organizzato in piazza Cairoli, il cuore pulsante della cittadina. Un palchetto traballante era stato montato al centro della piazza, illuminato da una fila di lampadine tremolanti. Intorno, un centinaio di sedie di plastica per il pubblico, già occupate per metà da pensionati incuriositi e ragazzini disposti a tutto pur di sfuggire per qualche ora alla noia della provincia.

Er Ciofeca accolse la delegazione romana con entusiasmo alcolico. "Avete visto che roba? Questo è er Parnaso de li Castelli!" esclamò, indicando con orgoglio il palchetto che minacciava di crollare da un momento all'altro.

Mobrini diede un'occhiata poco convinta alla location e sentenziò: "Me pare più er cesso der Parnaso, ma ormai stamo qua. Dov'è er bar?"

 

Mentre i poeti si preparavano per le loro performance annaffiando l'ansia da palcoscenico con ulteriori e generose dosi di vinello, il pubblico cominciava ad affluire in piazza. C'erano i curiosi del posto, attratti dalla novità. C'erano gruppetti di alternativi romani, arrivati in corriera o con passaggi di fortuna. C'erano persino un paio di giornalisti di testate locali che speravano in uno scoop che gli permettesse di fare il salto verso un quotidiano nazionale o – hai visto mai – addirittura la televisione.

Alle ventuno in punto, o meglio alle ventuno e quaranta visto il ritardo cronico degli artisti in questione, il primo poetry slam di Velletri ebbe ufficialmente inizio. Er Ciofeca Sforza salì sul palco barcollando visibilmente e prese il microfono:

"Signore e signori, bentornati... No, aspè... benvenuti... benvenuti a 'sta grande manifestazione culturale internazionale!" La voce impastata e l'alito vinoso fecero arricciare il naso alle prime file. "Stasera sentiremo i più grandi poeti der momento... E pure quarche stronzo, ma questo è er rischio dell'arte!"

Il primo a esibirsi fu un giovane poeta locale, tale Ercolino Marulla, studente di ragioneria con la passione per i versi d'amore. Il poveretto, terrorizzato dalla platea poco amichevole, balbettò qualche rima banale sulla sua cotta per la fioraia. In risposta ottenne un silenzio imbarazzante, rotto solo dal rumore di Mobrini che in prima fila provava ad accendersi uno spinello.

Seguirono altri versificatori dilettanti, tutti accolti con scarso entusiasmo da un pubblico sempre più irrequieto e con sempre meno pietà. Qualcuno iniziò a rumoreggiare, chiedendo di passare ai big, probabilmente inconsapevole di cosa li attendesse davvero.

Fu allora che Mimmo Sforza, nel tentativo di ravvivare la serata, commise l'errore fatale di chiamare sul palco Bruto Vutrico. Il sedicente pittore, più sbronzo e attaccabrighe del solito, si arrampicò sul palchetto con una tanica puzzolente tra le mani. "Questa non è poesia, è arte concettuale!" urlò, prima di aprire la tanica e cospargere il palco di un liquido maleodorante.

"Ma che è 'sta puzza?" gridarono inevitabilmente dal pubblico.

"È er distillato della mia anima sofferente!" rispose Bruto, prima di dare fuoco al liquido lanciando ai suoi piedi un fiammifero acceso.

Il palco si trasformò in un inferno di fiamme puzzolenti. Bruto Vutrico, fermo in mezzo alla scena, pareva il diavolo. E qualcuno avrebbe giurato che lo fosse davvero.

Scoppiò il panico. I vigili del fuoco, chiamati d'urgenza, impiegarono mezz'ora per domare l'incendio e disperdere i miasmi. Bruto fu portato via in manette, urlando che si trattava di un happening artistico ed era il pubblico borghese a non capire un cazzo.

 

Dopo questo intermezzo pirotecnico, il festival riprese in un clima surreale. Il palco, annerito e maleodorante, era ancora in piedi fra lo stupore generale. Nel frattempo metà del pubblico era fuggita, mentre l'altra metà pareva in preda a una sorta di isteria collettiva.

Fu in quel momento che Giancarlo Mobrini decise di fare il suo ingresso trionfale, conscio che il vero artista trionfa sulle ceneri. Salì sul palco a torso nudo, con addosso solo un paio di boxer a tema jolly roger e uno stivale da cowboy – letteralmente uno solo, il destro, il sinistro l'aveva perso durante l'incendio, insieme a tutti i vestiti.

In una mano stringeva il microfono e nell'altra una bottiglia di sambuca mezza vuota. "Popolo de Velletri!" tuonò con voce cavernosa. "Siete pronti pe' la vera poesia?"

Il pubblico, ormai oltre ogni limite di sopportazione, rispose con un ruggito collettivo. Mobrini sorrise soddisfatto e iniziò la sua performance. 

"Ve reciterò er mio nuovo poema epico: Appuntamento grottesco co' 'na zoccola all'incrocio Acilia-Dragoncello. So' solo nove ore de versi, metteteve comodi!"

Molti pensarono che ti trattasse di una boutade, una battuta per impressionare la platea, ma si sbagliavano. Quello che seguì infatti fu un delirio poetico senza precedenti nella storia della letteratura italiana, e in particolare nella storia di Velletri nel suo complesso.

Per un'ora intera, Mobrini vomitò un fiume di parole, mescolando dialetto romanesco, latino maccheronico, neologismi sconclusionati e biascicamenti etilici. Il suo poema era un viaggio allucinato nei bassifondi di Roma, popolato da prostitute filosofe, tossici con il dono della profezia, baristi medium e corrotti politici con manie messianiche.

Il pubblico oscillava tra lo shock e la fascinazione. Alcuni fuggirono inorriditi, altri restarono, ipnotizzati da quel flusso di coscienza lisergico. I giornalisti presenti scribacchiavano furiosamente, consapevoli di star assistendo a qualcosa di unico. Qualcuno appuntò sul suo taccuino: "il delirio lirico del secolo".

 

La zoccola aspettava ar semaforo,

co' 'na minigonna de pelle de cinghiale.

Je feci: "A bbella, quanto costa 'n pompino?"

Me rispose citando Leopardi:

"Sempre caro me fu quest'ermo colle,

ma più caro me sei te, co' 'sti quattro scudi!"

 

Sulla strada pe' Acilia incontrammo

'n branco de cinghiali cocainomani,

che se sniffavano la monnezza dei cassonetti.

Uno m'urlò: "Ao, c'hai 'na pista?"

Je risposi: "Ciamancasse pure la Formula Uno!"

 

A Dragoncello c'era 'n bar de filosofi 'mbriaconi,

che discutevano de metafisica tra 'n cicchetto e l'altro.

Er barista, un Socrate de borgata, sentenziò:

"So de non sapè 'n cazzo, ma armeno so' 'mbriaco!"

 

La zoccola era 'na lettrice de Kant,

ma preferiva er criticismo alla pecorina.

Me disse: "L'imperativo categorico è 'na stronzata,

mejo l'imperativo der cazzo, che è più pratico!"

 

Così vagammo pe' la notte romana,

tra monnezza metafisica e fumi di trascendenza,

cercando un senso in 'sto schifo de città,

dove perfino le buche so' voragini esistenziali!

 

Ar Pigneto incontrammo 'n gabbiano filosofo,

che se magnava 'na pizza cor mojito.

Me fece: "La vita è 'na ruota panoramica,

gira gira e poi finisci sempre ar Colosseo!"

 

Sulla Tangenziale vidi 'n autobus volante,

pieno de turisti marziani co' le cartine.

Er guidatore, 'n alieno co' la coppola,

strillava: "Prossima fermata: Tor Bella Monaca!"

 

A Trastevere c'era 'na fontana de vino,

dove se abbeveravano poeti e piccioni.

'Na vecchietta co' la scopa pontificava:

"Chi beve acqua ha 'n segreto da nasconne!"

 

Sotto ar Gazometro ballava 'n'orchestra de gatti,

suonavano jazz co' le code e i baffi.

Er direttore, 'n soriano co' l'occhiali,

faceva: "Miao be bop, ronf ronf cool!"

 

E la zoccola, ormai laureata in astrofisica,

calcolava l'orbita der Raccordo Anulare.

Concluse: "Sta città è 'n buco nero cosmico,

dove er tempo, lo spazio e la gricia so' la stessa cosa!"

 

E così via, per sessanta deliranti minuti – è vero, Mobrini aveva barato annunciando che il poema sarebbe durato nove ore. Quando il Leopardi della Gianicolense concluse la sua performance, crollando esausto sul palco, calò un silenzio irreale sulla piazza. Poi, lentamente, iniziò un applauso che crebbe fino a diventare un boato. Il pubblico era in delirio.

"È 'n genio!" urlava qualcuno.

"È matto ragà. Non c'è artra spiegazione, è matto", replicava qualcun altro.

Ma tutti, estimatori e detrattori, erano d'accordo su una cosa: avevano assistito a qualcosa di irripetibile.

 

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