Che cosa poteva esserci di meglio? Lontano dall’aria tossica della città, dai pensieri che premevano per uscire, scontrosi e insoddisfatti, s’immaginavano una settimana di estremo relax: quell’annuncio “La casa nel bosco” prometteva bene.
Dalle foto online sembrava una casa molto confortevole ma essenziale. Non una di quelle piene di ninnoli e orpelli – che lei odiava. Gli erano capitate case di vacanza in cui la gente sembrava collezionare di tutto: dalle bambole appartenute alla nonna, con i vestiti di pizzo e la cuffietta ai cuscini di ogni forma ricamati a mano.
Il cartello Marciana Marina era passato già da un po’ quando raggiunsero Angelica, l’affittuaria, ai piedi della montagna.
«Purtroppo googlemaps da qui in poi non dà più indicazioni. Seguitemi. Percorreremo tre tornanti e poi la casa si troverà in cima, dopo la vite», disse dopo aver abbassato il finestrino.
Il figlio, seduto sul sedile posteriore, guardava il paesaggio boscoso. L’auto procedeva lenta e gli permise di notare, all’inizio del primo tornante, un’incisione su un tronco: un cerchio perfetto all’interno del quale c’era una spirale contenente tanti simboli. Gli alberi erano rigogliosi, le foglie verdissime, alcune bagnate dalla pioggia della notte precedente. C’erano piccoli rami spezzati in mezzo alla strada e una limpida luce che gli bruciava gli occhi.
Ma davvero tutti i giorni avrebbero dovuto passare da lì?
Il suo analista glielo aveva detto. Era tutto nella sua testa, aveva la patente da due anni e il fatto che da un paio di mesi talvolta le curve si spostassero, restringessero e lui al volante sentisse mancare il respiro era solo dovuto allo stress.
Superato il terzo tornante, si trovarono in una lunga stradina, in cui sulla destra c’era il bosco; sulla sinistra, invece, le vigne si estendevano per almeno trenta metri. Ordinatissime. Gli acini gonfi e sodi brillavano. C’era poi un orto, stretto e lungo. Poco più avanti, i due garage con la cler pitturata d’azzurro e, di fronte a loro, la casa immersa nel silenzio. Il rumore degli pneumatici era l’unico suono a far compagnia al canto dei tordi, dei merli e dei fringuelli. Angelica si fermò accanto al bosco; la loro auto accostata alla sua.
«Benvenuti a Marciana!» disse Angelica scesa dall’auto. «Avete fatto buon viaggio?»
La casa era più bella di come appariva nelle foto. Il Ficus Elastica, nell’angolo in ombra, aveva foglie grandi e spesse; due rami alti e lunghi distesi nel cielo. Il bianco della facciata era più intenso e il contrasto tra i serramenti e la muratura dava l’impressione che fossero di fronte a un disegno perfetto. Loro avrebbero abitato al pianterreno. Sopra, notarono ben cinque finestre e cinque gatti appollaiati al cornicione del grande balcone. Li stavano fissando. Appena fuori dalla porta d’ingresso c’era un tavolo di legno riparato da una tettoia. Sui tre lati, floridi oleandri traboccavano dai vasi.
La luce del sole illuminava come un seguipersona la testa canuta della signora col vestito floreale, che scendeva dalla scala esterna. I gatti la seguirono.
«Fate finta che io non ci sia» disse con un sorriso, e s’incamminò dietro casa. I gatti, uno nero, uno bianco, uno marroncino e l’ultimo grigio le stavano attorno. Quello rosso rimase appollaiato in cima alla scala.
Il figlio si sforzò di sorridere. Ormai era troppo grande per dividere lo spazio con le borse della madre.
«La macchina potete anche lasciarla qui, se volete. La signora appena scesa è mia madre; lei e mio padre, che abitano al piano di sopra, mettono l’auto in garage e di qua non passa mai nessuno. Se preferite, invece, c’è l’altro garage a disposizione. Ve lo consiglio per la notte.»
«Mi sentirei più sicuro.» disse il padre.
«Prego seguitemi: vi mostro la casa.»
Si trovarono di fronte a una cucina luminosissima. C’era profumo di fresco, di pulito che si fondeva a quello giallo dolciastro muschiato e gentile delle susine in bella mostra nel cestino, sul tavolo.
Non era molto grande, ma aveva tutti i comfort: i cassetti con la chiusura automatica, i vari porta piatti a spinta, il frigorifero con la doppia anta. Le pareti erano laccate e, sebbene non fosse una casa nuova, non c’erano crepe, né buchetti, né macchioline. Splendevano. Stipati sulle mensole barattoli di ogni dimensione: lunghi, stretti, piccoli, cicciottelli ed erano dappertutto. Ogni cosa era perfettamente in ordine.
«L’appartamento è completamente rimodernato. Ho preso tutto da Ikea: prima ci abitavo io. Poi ho preferito trasferirmi.»
«Infatti è tutto bello, Angelica. Tutto meraviglioso.» confermò la madre, accarezzando il tessuto del divano blu.
«Se volete seguirmi» e s’incamminò senza attendere una risposta «vi mostro il resto. Questa è una stanza matrimoniale», disse mettendosi accanto alla porta.
«Che bell’armadio a specchio!» sorrise la madre mentre scorreva due delle cinque ante. «E profuma di detergente, mica come gli armadiacci dei tuoi parenti», si rivolse al marito, che sollevò entrambe le spalle mantenendo le mani in tasca.
Il figlio entrò zoppicando nella stanza di fronte.
«Figo! Ho anch’io il letto matrimoniale» si lanciò sopra, a pelle d’orso. Ma si rialzò immediatamente.
«Guarda qui» il padre gli mise un braccio attorno alle spalle, «una piccola scrivania, nel caso ti venisse voglia di riprendere a studiare», ghignò.
Il ragazzo si liberò dal braccio del padre, fece qualche passo fino a un’antica specchiera intagliata in noce. Si sistemò i capelli e passò le dita sopra le occhiaie, poi sbuffò.
Mentre s’incamminavano verso la stanza principale, dal fondo della fila, il padre domandò:
«Per caso c’è una panetteria qua vicino?» si stava passando una mano sulla fronte per asciugarsi il sudore.
«Purtroppo no, però appena scesi dalla montagna, nel punto in cui ci siamo trovati, si prosegue dritto per cinque minuti e sulla sinistra c’è un negozietto: hanno anche il pane lì. Lo fanno loro.»
«È molto distante da qui Marina di Campo? Vorrei incontrarmi con un amico e non mi carica googlemaps» domandò il figlio passeggiando per la stanza col braccio che reggeva il cellulare alzato cercando la connessione.
«Meno di mezz’ora» gli sorrise Angelica. Le sue mani unite sul grembo si strofinarono l’una sull’altra. «Eh, purtroppo la casa ha questo piccolo difetto», si morse il labbro.
Il padre faceva avanti e indietro dall’auto con i bagagli, sotto al sole. Il viso tirato. La madre iniziava a sbuffare e portava le valigie nelle varie stanze.
«Eh sì, piccolo difetto» il figlio aggrottò le sopracciglia. «Sembra d’essere nel 1900…».
«Non muori una settimana senza internet in casa: vi metterete d’accordo in spiaggia, no? Aiutaci con le borse, che poi vieni con me in paese» ribatté il padre.
Il figlio alzò gli occhi al cielo e scaraventò il cellulare sul tavolo.
La madre strabuzzò gli occhi.
«Vedi di contenerti! E dai una mano a tuo padre.»
Angelica si fece seria: sembrava non vedesse l’ora di andarsene.
«Un’altra cosa», disse mantenendo un tono calmo e gentile, «Qui attorno potreste vedere degli animali ma non spaventatevi. Non escono mai dal bosco.»
«Lo spero bene!» disse la madre che faticosamente sorrise.
«Avete proprio fatto la scelta giusta. Lontani dalla confusione di Procchio, troverete tutto il relax di cui avete bisogno. Ah: per qualsiasi cosa, vi lascio il numero dei miei genitori sulla lavagnetta. Nel caso in cui vi mancasse qualcosa per la casa, chiamate pure me: il giorno dopo, arrivo. Vedrete che dormite! La notte qui si sta benissimo.»
Per quel giorno non andarono al mare. Erano stanchi del viaggio. Preferirono vuotare le valigie e scaricare gli scatoloni con le provviste. I due uomini, quando la casa era quasi del tutto sistemata, scesero a Procchio per visitare il paese.
La madre appese i vestiti. Anche questa volta era certa di aver portato troppe cose.
Il giorno dopo, appena svegli, decisero di fare colazione sul tavolo all’esterno.
«Buongiorno!» disse loro un uomo anziano col cappello «voi siete i temerari? Io sono il babbo di Angelica, vi piacciono le verdure? La frutta? È mio l’orto che c’è accanto alle vigne: vi posso dare zucchine, fiori di zucca, cipollotti e susine. Ho gli alberi carichi di susine: ne sono cresciute tantissime. Ma le raccolgo sempre subito: mai nessuna cade a terra.»
Gli occhi della madre fissavano la vegetazione del bosco. Ai piedi del noce e del rosmarino prostrato c’erano resti di frutti gialli mangiucchiati.
«E quelle cosa sono?»
L’uomo rise sguaiatamente.
«Ah ma quelle non sono mica cadute. Se le sono tirate giù i signori, gli animalucci che si servono dal mio orto» si voltò e con il dito medio indico il bosco. «Sono furbi, sa? Non si fanno mai beccare. E non si avvicinano a noi. Vado a prendervi qualcosa dal mio orto, così finite di fare colazione.»
Rientrarono dalla spiaggia alle otto di sera, dopo essersi lasciati deliziare dal tramonto. Le piante dell’oleandro, attorno al tavolo esterno, erano di un rosa acceso. Li accolse ancora la signora.
«Allora, com’è andata? Vi piace il mare?»
Teneva un gatto in braccio, altri tre erano dietro di lei, il quinto era nascosto tra i vasi di oleandro.
«Bellissimo. C’è un’acqua stupenda.»
«Eh già. È bellissima l’acqua qui, ma salite un attimo in balcone. Vi mostro il panorama che abbiamo.»
Salirono in fila indiana le scale. La signora aveva un passo energico. I gatti rimasero appollaiati sul poggiolo.
«Che spettacolo!» disse il padre.
«Noi la mattina veniamo qua e ci rilassiamo guardando l’istmo di terra di Capo D’Enfola.»
«L’altro cos’è?» chiese la moglie.
«Portoferrario» sorrise fiera l’anziana. «È il posto ideale, questo, per le vacanze.»
«Io ho fame», reclamò il ragazzo, zoppicando verso la scala.
«Mio marito vi ha lasciato un cesto con la frutta e la verdura. Vi piacciono i fiori di zucchina? Potete farli fritti. Sono buoni.»
«Grazie, siete davvero gentili.»
«Vi lascio alla vostra doccia e tutto il resto» si voltò, senza salutarli. «Forza mici, che vi do la pappa.»
I gatti balzarono giù dal poggiolo e la seguirono.
«Quei mici non miagolano mai.» disse il figlio, tirando fuori l’asciugamano bagnato dallo zaino, per appenderlo sullo stendino.
«Beh, se è per questo anche lei e il marito non fanno alcun rumore. Non senti mai una sedia, un passo, la voce di un televisore» disse la madre, raddrizzando l’asciugamano del figlio.
«Abbiamo scelto la casa ideale: sembra di essere noi tre, da soli», disse il padre, prima di richiudere la portiera per mettere l’auto in garage.
Al ritorno dalla spiaggia, salendo la montagna, avevano intravisto nel bosco una piccola volpe, il musetto di una martora. Ogni tanto si udiva il ronzio delle mosche, oppure quello dei calabroni accanto alle vigne. Gli oleandri erano pieni di farfalle nere e gialle. La sera, sotto il cielo stellato, si udivano le cicale.
Il ragazzo pensò che era un posto talmente bello che gli sarebbe piaciuto morire lì.
Peccato che sullo zerbino di casa trovassero sempre tanti peli neri grigi e marroni. Dovevano per forza appartenere ai gatti e, probabilmente, quando loro erano in spiaggia, la signora che sembrava essere una di quelle cui manca qualche venerdì, scendeva con loro e li lasciava accucciare sullo zerbino.
Ne parlarono il giorno dopo, in spiaggia, con il vicino di ombrellone.
«Davvero abitate alla “casa nel bosco”?» chiese la donna lisciando l’asciugamano sul lettino.
«Sì, abitiamo proprio lì», rispose il marito, cercando lo sguardo dell’uomo.
«E come vi trovate?» gli domandò, piegando il quotidiano.
«Molto bene! È pulita, luminosa, moderna e i proprietari sono veramente gentili» rispose orgogliosa la moglie, per attaccar bottone con l’altra donna.
«Hanno avuto fortuna a trovarvi.»
«O forse l’abbiamo avuta noi», insistette il marito.
«Nostra figlia era in classe con Angelica. A volte era stata in quella casa, per fare i compiti. Ma non è mai rimasta a dormire. La notte in quella casa non si può vivere.» L’uomo aveva riposto nella borsa della spiaggia il giornale.
«Ci abbiamo passato la nostra prima notte! È silenziosissima, e molto fresca», continuò la moglie.
«Aspettate che gli animali vengano a trovarvi», rise aprendo una birra, l’uomo.
«Guardi, se è per quello, ci siamo già accorti che i gatti lasciano matasse di pelo sullo zerbino» rispose il marito, fissando la bottiglia.
«Ma io parlavo degli animali del bosco: le volpi, le martore, i cinghiali» proseguì prima di dare una sorsata.
«E smettila caro!» s’intromise la donna. «È fissato con la caccia ai cinghiali: li vede ovunque. Se potesse andrebbe in giro con un fucile.»
«Che buona polenta e cinghiale!» scherzò l’uomo.
Il padre rise, mentre la madre lanciò uno sguardo accigliato.
Il figlio non aveva sentito nulla. Aveva chiamato l’amico appena arrivato in spiaggia, si era fermato nel tratto che precede i lettini ed era ancora là, in piedi. Lo sguardo a terra mentre con un piede spostava la sabbia: stavano organizzando la serata.
Rientrarono ancora alle otto, dopo aver assaporato la luce del tramonto che si immergeva nel mare. Quando guardarono le file ordinate di vigneti, si accorsero che, per terra, era pieno di susine. Lasciarono l’auto appena fuori da casa, accanto ai vasi con fiori di oleandro: erano di un rosa pallido, quasi spento. Su di loro, svolazzavano alcune falene.
Prima di entrare in casa, sbatterono il tappeto per pulirlo dai lunghi peli grigi e marroni.
«Dannati gatti!» si lasciò scappare la madre, sbuffando, mentre si toglieva una ciocca di capelli dal viso «magari potresti dire qualcosa al tuo amico con l’orto.»
«Per favore, cara. Siamo in vacanza. Cerchiamo di rilassarci.»
Il figlio entrò con il viso arrossato chino sullo smartphone.
«Ah cazzo. È vero che qui non prende.»
Il padre appena entrato in casa accese la tv, poi si diresse verso il frigo, prese una birra, l’aprì sul lavandino e si mise a sedere sul divano.
«Sentite anche voi quest’odore?» chiese l’unica donna di casa.
Ancora, pensò il marito. Si erano promessi tutti e tre di non portarsi le angosce in vacanza. In realtà anche lui sentiva un odoraccio, ma forse era qualcosa che arrivava da fuori. Erano lì solo da due giorni eppure la moglie aveva già iniziato a stressare.
Il figlio si precipitò sotto la doccia e lei sbuffò. Invidiava il padre: aveva imparato a disconnettersi da tutto. Esserci fisicamente mantenendo il pensiero altrove. Si preparò in dieci minuti, avvicinò il braccio alle narici, l’odore sgradevole non c’entrava nulla con lui.
Quando uscì, un merlo chioccolava alternandosi al chiacchiericcio della capinera. Prese l’auto dei genitori e passò lentamente accanto alle viti: le susine a terra si erano moltiplicate. Sembravano palline di plastica morbida su cui potersi addormentare. Scese due tornanti e notò nella vegetazione del bosco qualcosa che si muoveva. Rallentò e socchiuse un po’ gli occhi per mettere a fuoco. Si accorse che non era solo in quel punto. In diverse parti del bosco le foglie dei bassi arbusti di cisto, erika e ginestre vibravano; sembravano dei corpi molli che ondeggiano; onde verdigialle formate da tante foglioline frusciavano con i fiori della ginestra, all’unisono, mormorando tra loro qualcosa di segreto; i rami più in alto delle enormi sughere si muovevano come braccia. Ebbe per un attimo la sensazione che si allungassero, si stessero estendendo verso di lui.
È tutto nella mia testa, pensò. Era solamente il vento che si stava alzando.
Raggiunse l’amico, che lo attendeva seduto su un muretto, lasciandosi il cielo incendiato di lingue e il mare alle spalle.
Nella casa del bosco l’odore rancido si fece sempre più nauseabondo. Non si riusciva a capire da dove provenisse.
La donna dubitò delle susine. Si avvicinò alla fruttiera traforata in acciaio che le conteneva: erano gialle come tanti piccoli soli estivi; le tastò: erano sode. Non potevano essere loro la causa di quell’odore atroce, putrefatto, fetido. vagamente ammoniacale.
Le ricordava l’odore del pesce lasciato a marcire nei secchi di plastica al porto dal padre pescatore quando era bambina. Con le carni mangiate dai gabbiani che lasciavano intravedere le interiora. Un conato le salì in gola.
Spalancò tutte le finestre per provare a cambiare aria.
«Volevo far uscire il vapore, ma c’è una puzza da fuori!» disse il padre, uscendo dal bagno. Si stava frizionando i capelli con l’asciugamano quando raggiunse la donna in cucina. L’odore era intensissimo. Era ovunque.
Non era serata. Le ragazze che avevano conosciuto non erano interessate a loro e, quando fu l’ora, accompagnò l’amico all’imbarco: aveva terminato le vacanze e lui tornò verso la casa nel bosco.
Arrivato al cartello “Marciana Marina” girò nella prima strada a sinistra. Una pecora uscì dal bosco senza far rumore. Vide l’albero con l’incisione, quello del primo tornante. Si sentiva sfinito. Forse per il troppo sole o il troppo alcool. Adesso aveva quelle dannate curve da fare, prima di raggiungere la casa. Non sentiva alcun rumore.
Gli alberi del bosco avevano le foglie lucide, bagnate di rugiada. A quell’ora nessun insetto svolazzava tra loro e la falce di luna irradiava un’insolita luce solare.
Mentre all’andata aveva impiegato trenta minuti a percorrere la strada, il ritorno sembrò molto più lungo. Guidava piano, con prudenza ma ogni volta che saliva un tornante, si ritrovava di fronte al tronco d’albero con l’incisione. Era certo che solo il primo l’avesse. Eppure continuava a rivederlo accanto a lui. I simboli all’interno della spirale sembravano però diversi: ora più geometrici. Nell’orecchio gli giunsero soffusi i cori di “Carol of the Bells”. Pensò a uno scherzo dell’amico. Schiacciò il tasto di espulsione del cd ma si accorse che non c’era nulla all’interno. Lo stereo era spento. E la musica si stava alzando. Gli entrava ossessiva nel cervello.
Iniziava a sudare. Brividi gelidi sulla schiena nonostante il caldo. Le mani umide sul volante.
Vedeva le foglie degli alberi del bosco ondeggiare. Il vento si era placato. Qualcosa ci stava camminando attraverso. Aumentò per un attimo la velocità, e poco dopo frenò di colpo. Il busto si piegò in avanti.
Le cosce gli saltarono come percorse da aghi elettrificati. Il cuore gli batteva forte nel petto. Così veloce da non sentirlo. Riprese a guidare senza più guardare il tronco degli alberi: lo aveva capito. Più avrebbe guardato a destra cercando rassicurazioni e più avrebbe persistito nel vedere l’incisione.
La musica gli scoppiava nelle orecchie, nella testa.
Dal bosco uscì un grido. Lui gridò. Qualcosa emise un grido più forte. Lui gridò più forte e spinse sull’acceleratore. E poi fu silenzio.
Quando si fermò di fronte a casa sembrava che nulla fosse accaduto sui tornanti.
Scese dall’auto e si sedette al tavolo in giardino. Aveva bisogno di una sigaretta. Le braccia e le mani gli tremavano; le sorresse l’una con l’altra, per accenderla. C’era anche all’esterno l’odore che aveva sentito in casa, prima di uscire, ma molto più intenso.
Guardò il bosco di fronte a lui. Le foglie, che al primo tornante erano illuminate di rugiada, adesso erano marrone. Rinsecchite.
Sentì miagolare forte. Vide i gatti sulla scala, uno in fila all’altro, le code tese dritte verso il cielo viola stellato. Non gli parve possibile. Era lo stesso bosco, gli stessi alberi. Guardò con più attenzione e si accorse che tanti piccoli occhietti neri e lucidi lo stavano osservando. Ritornò a tremare.
Lanciò la sigaretta a terra. Le gambe erano legnose, pietrificate e raggiunse a fatica la porta. I brividi percorsero tutto il corpo. Le chiavi di casa gli scivolarono tra le mani sudate. Anche la schiena stava sudando. Infilò la chiave nella serratura un attimo prima di sentire dei rumori di narici che respirano. Sentì di nuovo un grido. Poi un altro, che sembrava di un neonato.
Richiuse la porta e fissò la parete del muro. C’era un buchino da cui usciva una fila lunghissima di formiche.
Qualcosa si stava lamentando là fuori e stava battendo contro la porta. Ed erano in tanti.
Sentiva scalciare forte. Vicinissimo a lui.
Tutto il corpo tremò, cosparso ovunque di sudore.
Corse verso la stanza dei genitori. Il pavimento ocra era ricoperto di formichine nere. Il loro letto era disfatto, non c’era nessuno lì.
Ritornò in cucina, i graffi sulla porta e i lamenti erano aumentati. Digitò il numero scritto sulla lavagnetta, ma lo sbagliò alla terza cifra. Poi di nuovo. Poi fece più lentamente e si concentrò. Il telefono dei due anziani continuò a suonare. Nessuno rispose. Provò anche a comporre il numero di Angelica. Era staccato.
Sapeva di non poter uscire. L’odore rancido impregnava tutte le pareti della casa.