Max Ernst - Una settimana di bontà
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Max Ernst - Una settimana di bontà

Diciamo che il mio incontro con Max Ernst è stato questo.

Eravamo in una foresta. Non è esagerato chiamare quell’intrigo di vegetazione in questo modo. C’era questa elettricità liquida. E una certa idea di fatica e paura. Ovviamente, per sciogliere la tensione, mi sarebbe piaciuto parlare. Di argomenti ce ne erano tanti.
Bosh, per esempio. Anche quelli di Bosch sono collage, direttamente prelevati dalla realtà. E poi le illustrazioni di Botticelli alla Commedia. Anche le illustrazioni di Botticelli sembrano collage, ma forse questo è dovuto al fatto che è la Commedia a essere un collage che unisce il divino al terreno. Anche questo sarebbe stato un buon argomento, e parlarne mi avrebbe aiutato ad allentare la tensione. Avrei potuto parlare anche di Omero? Anche l’Iliade e l’Odissea sono un collage, in fondo. Per non dire poi dell’Hypnerotomachia Poliphili, anche se qui, piuttosto che le parti di un collage, abbiamo i pezzi di un gioco enigmistico da risolvere. Insomma, gli argomenti non sarebbero mancati, ma Ernst, prima che io aprissi bocca, mi fece cenno di tacere. Fu un’importante lezione di poesia, perché, questo è il punto, la poesia non ha bisogno di parole e nemmeno di argomenti. La poesia mira direttamente al cuore della realtà. Ernst indicò qualcosa con il mento. Vidi il cervo. Poi Ernst fece un’espressione severa ma divertita. Capii che dovevo sparare.


La poesia non ha bisogno di parole e argomenti, e nemmeno di arte. È ovvio: la poesia può usare miliardi di parole, e dispiegare infinti argomenti, e usare un’arte raffinatissima. Però, non ne ha bisogno. È il minimo dire che la poesia non coincide con le parole e gli argomenti che la compongono, e nemmeno con l’arte per mezzo della quale dispone le parole e gli argomenti che la compongono. In questo ricorda la vita, che non coincide mai con la somma delle parole che la compongono. Forse, però, la poesia ricorda la vita, perché la vita e la poesia, in effetti, coincidono.
Ci sono epoche, particolarmente infelici, in cui è difficile afferrare la coincidenza fra vita e poesia. Sarà perché in epoche come queste si reputa invece credibile quella fra poesia e arte? Molto probabilmente la spiegazione è questa. De Sanctis nota qualcosa del genere lì dove, per dare conto di quel processo degenerativo per il quale la letteratura italiana, appena dopo gli esordi danteschi, è precipitata fatalmente in Petrarca, e, peggio ancora, nel petrarchismo, afferma che l’Italia ha avuto con Dante il suo poeta e con Petrarca il suo artista. Che cosa intendeva dire De Sanctis distinguendo in maniera così felicemente schematica fra poesia e arte? Quello che intendeva dire anche Ungaretti nelle sue lezioni su Leopardi: ovvero che il poeta cerca di raggiungere la cosa (o la Cosa, direbbe qualcuno; o un cervo, direbbe il mio Ernst), mentre l’artista cerca di sostituire la cosa con le parole.
Tiriamolo fuori dai denti: c’è un infinito attuale che la poesia tende a raggiungere, o che tenta di raggiungere, e che fa il suono di un abbacinante silenzio. Un poeta può essere ridondante e sensuale come un ragazzo verde pisello alle prime prese con l’amore, oppure più avaro di parole e sibillino di uno che non ha la minima idea di quello che sta dicendo, ma, in entrambi i casi, il risultato della sua poesia, se è poesia, è questa tensione, o questo tentativo di dire quello che tanto non si può dire.
Non si può dire perché non puoi fare a meno di vederlo, sentirlo, provarlo, in una parola di viverlo? In effetti, i greci, per istruirsi alla vita, si recavano ogni anno a Eleusi, dove, con quella giusta mescolanza di patema tragico e oscena comicità, i sacerdoti mostravano chiaramente a tutti quanti qualcosa che, però, non poteva mai essere pronunciato e che doveva essere reputato indicibile.


I greci, con ogni evidenza, alla teologia e alla morale preferivano la poesia. Del resto, poesia è parola loro. Una parola che ha un significato specifico, niente affatto elusivo. La parola poesia significa: produzione. Produzione di cosa? Di realtà. La poesia produce la realtà. La poesia, per mezzo di parole o immagini o suoni o numeri o gesti o di qualsiasi altra cosa, produce la realtà. La evoca. Le dà forma effettiva. La rivela quale effettivamente è. La poesia tende alla rivelazione della vita. Tenta la coincidenza con essa quale effettivamente è. Chiaro, quindi, che con quel tipo di produzione che chiamiamo poesia, e che coincide con la vita quale effettivamente è, siamo agli antipodi di quel tipo di produzione che cerca, per mezzo dell’efficienza, con grandi dispiegamenti artistici e tecnologici, certamente non di rivelare la vita, ma piuttosto di sopraffarla. Parlo di quel tipo di produzione che non si interessa, anzi nega vigorosamente, il disvelamento della vita; che non si interessa alla realtà, ma soltanto al suo meticoloso inscatolamento. Massima utilizzazione al minimo costo. Produzione di ideologie, religioni, romanzi vari, cibo in scatola, armi di distruzione di massa: tutte queste cose che tengono in ordine, ben organizzato e contabilizzato, sanità e beni di consumo incluso, il mondo. Il nostro mondo, quello in cui viviamo cercando ognuno di trovare il senso unico e speciale del nostro destino, coscienti che Dio ci ama ognuno senza saltare nessuno.


Non è un caso che lo gnosticismo abbia imposto questo Dio così pignolo nell’amore combattendo prima di tutto contro la poesia greca, e, quindi, la poesia in genere. La poesia è affare per gente che spreca quasi tutto il giorno a parlare di nulla al mercato. Questo erano i greci, gente che usava perfino il mercato per cercare di dire quello che non si può dire, e che fa il suono del nulla. Gente, è il caso di dirlo, senza né arte né parte. Quanto all’amore, poi, questi greci, piuttosto che cercare di farsi amare dai loro dèi, preferivano invece amare proprio come facevano loro. Goderne, perfino.
Detta così sembra una cosa bella, ma, in realtà, parliamo di amore vero. Parliamo di desiderio che strazia. Parliamo di quell’essenza innominabile dell’amore e del desiderio, della vita, che può essere espresso solo attraverso il sacrificio umano o la poesia. Come fa Max Ernst, per esempio. Penso soprattutto ai suoi romanzi. La donna cento teste, Sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo e Una settimana di bontà o I sette elementi capitali, raccolti nell’edizione adelphiana curata da Giuseppe Montesano. Max Ernst fa questo, cercare di toccare la vita per mezzo della poesia, o del sacrificio umano, senza tentennamenti, in maniera costante, diffusamente puntuale, ridondante e ossessiva. Per farlo, sceglie di usare il romanzo. Per la precisione, sceglie di usarlo nello stesso modo di Dostoevskij, non a caso il suo autore preferito. Il romanzo è un congegno artistico che trova fioritura in epoche, come l’alessandrina o l’attuale post-illuminista, dove le libertà umane decisamente non brillano, e in cui appare almeno latitante un esteso e completo senso e orgoglio dell’umano. Il romanzo è un tipico prodotto di queste epoche, o, forse, queste epoche sono un tipico prodotto del romanzo. Meccanismi narrativi che fanno muovere personaggi prestabiliti secondo sentimenti imperniati su questa o quella retorica, il realismo se non il fantastico, il simbolico oppure l’astrattismo, e via dicendo: non diversamente può essere descritta l’esistenza dell’uomo in epoche come le nostre. Data una premessa qualsiasi (non so: per mangiare è necessario lavorare) ecco che le nostre esistenze si dipanano attraverso un meccanismo ferreo (alzarsi, lavorare, guadagnare, consumare, vincere, avere successo, espandersi, crescere, produrre, riprodursi) recitando dialoghi coerenti con il meccanismo avviato dalla premessa (la vita è dura, dice uno seguendo la retorica del realismo; l’etica del lavoro, risponde l’altro secondo i dettami dell’astrattismo; il negro mi ruba il lavoro, dicono i personaggi onirici; chi non lavora non fa l’amore, sospirano tutti secondo la moda fantastica). Se Dostoevskij decide di usare il romanzo, ovviamente, è perché è pienamente cosciente che è un meccanismo: un meccanismo di parole che sopprimono e si sostituiscono alla realtà della vita. Anzi, il romanzo è un giocattolo, e Dostoevskij è un bambino che trova una gioia intensa e sanguinosa nel romperlo. I suoi romanzi sono un’immensa estensione di parole e pensieri, ritagliati e riuniti minuziosamente insieme (ma raramente con coerenza), che si perdono lungo un labile filo rosso che fiaccamente imita una narrazione. Quel labile filo rosso, in realtà, è la voce di un sonnambulo che sa la verità sul mondo, e, ridendo di nascosto, la dice con esasperante lentezza finché non si perde in un incomprensibile sospiro. Chiaro, come osserva Brodskij, che a Dostoevskij non possa bastare la sintassi: è un poeta, e la sua frase si spinge sempre oltre se stessa, precipitando nel nulla, ovvero nel punto in cui la cosa che cerchiamo ci sfugge per farsi inseguire ancora da noi. Ernst non usa diversamente il romanzo, ed è un particolare di poco conto che, lui, per spezzare la coercizione del meccanismo narrativo, anziché usare le parole, impieghi unicamente immagini, appena complicate da brevi didascalie. Diciamo che se Dostoevskij è un bambino che rompe un giocattolo, Ernst è un sacerdote eleusino che fa vedere qualcosa che non si può e, soprattutto, non deve essere detto a parole. In fondo, penso, nella nostrale fantasia cristiana un greco e un bambino si sovrappongono: sono qualcosa di primitivo che va battezzato e convertito il prima possibile. Meglio se prima che parli, e possa scrivere una poesia.


Incendi, prelibatezze sadiane, sottintesi deliziosamente torbidi che si scambiano mute le cose fra loro, complotti surrettizi dell’essente, stupri, incesti, cabale e camarille fra incubi e succubi, amori criminosi fra uccelli e donne, con cento o nessuna testa: la proteiforme e poliversa perversione dell’anima umana ancora non battezzata. In effetti, Ernst, mostrandoci tutto questo, non fa altro che restaurare al loro posto, con ostinazione selvaggia (o pagana; o infantile) i nostri dèi lì dove stanno.
Ma dove stanno i nostri dèi? Questo, comunque, nessuno lo può dire. In realtà, fuggono da sempre. È stata davvero una vana vittoria quella su questi imprendibili fuggitivi. Eccoli, che sono sempre lì, nel punto in cui fuggono da sempre. In questo desiderio che strazia. Nell’essenza innominabile dell’amore e del desiderio, della vita, che può essere espresso solo attraverso il sacrificio umano o la poesia. Che poi sono la stessa cosa, come dice immediatamente Ernst, fin dalla prima pagina de “La donna cento teste”. Abbiamo questa immagine: un uomo, o il suo simulacro divino, in una notte di vento (o in un giorno sconvolto dal buio) è elevato e dilaniato insieme da intangibili, eppure visibili forze umane. La didascalia suggerisce che siamo davanti a un delitto o un miracolo che, comunque sia, porterà all’uomo completo. Ritroviamo, dopo centinaia di pagine di concottura erotica e omicida, la stessa immagine a chiusura del libro. Fine e seguito, recita però la didascalia. Non diversamente ci si sarebbe espressi a Eleusi. Si può diventare un uomo completo solo dopo il processo che chiamiamo iniziazione ma che i greci chiamavano piuttosto: compimento, esito, fine.
Ne La donna cento teste Ernst si prende il gusto di rivendicare il senso e l’orgoglio dell’umano, con conseguenti libertà di diritto e di fatto, ostentando quel processo erotico e omicida, scevro da qualsiasi meccanismo sentimentale, che fra orrori e facezie (direbbe più o meno Aristofane) da sempre favorisce nell’uomo ciò che è indifferente chiamare umano o divino: la vita quale è, dico. In Sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo troviamo, invece, un tono più polemico e didascalico. Più polemico, però, che didascalico. I motivi sono anche personali. Cerco di essere breve. Cresciuto in una famiglia molto cristiana, Ernst da bambino fugge di casa nel cuore della notte. Indossa una sottana, e per strada viene scambiato per Gesù Bambino. Torna a casa, e, prima che il padre possa sgridarlo e punirlo, annuncia di essere Gesù Bambino. Ovviamente, il padre (non ho capito se perché molto religioso o temendo che il figlio fosse pazzo) lo perdona immediatamente. Ad ogni modo, da quel momento in poi, Ernst si sente investito di una certa autorità religiosa, e, così, a trentotto anni, si innamora di una minorenne e la sottrae al convento religioso dove era educata. Dopo qualche anno, però, dichiarando di sentirsi insozzata, la minorenne (che però non era più una minorenne, e ora era la donna di Ernst) lo lascia per tornare alla vecchia religione. Questi i fatti, in breve. I fatti che, chiaramente, hanno scatenato la polemica che vediamo agire in Sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo, che può essere descritto come un’agile contrapposizione fra la poesia e la religione. Con la poesia, ci mostra in queste pagine Ernst, si tocca quel qualcosa che fugge sempre, e che per questo fa il suono del nulla: la vita. Con la religione, come mostra tutto il congegno mistico della salita al Carmelo, si ottiene quel certo nulla dei Dionigi Areopagiti, Maister Eckart, Giovanni della Croce: nulla nel senso di nulla. La morte.
Infine, opera cosmogonica completissima e lavoro raffinato di teologia applicata, Una settimana di bontà o I sette elementi capitali offre al lettore insieme una summa del pensiero di Ernst e l’occasione di un’esercitazione pratica. Inutile dilungarsi troppo su una materia che necessita, piuttosto che esegesi, di un’esplorazione paziente e immediata. Diremo solo che troviamo qui finalmente restaurata in maniera completa e filologicamente appagante quella più che soltanto utile meditazione alchemica sulle sette pecche fondamentali vive nella natura divina della materia che tanto tempo fa ci è stata sottratta da quella prassi lì di polizia sociale, la contrizione e attrizione causa sette peccati capitali. Solo un suggerimento: fate molta attenzione al settimo elemento. Ernst lo chiama: l’ignoto. In effetti, fugge sempre, e per questo, erotico e delittuoso, fa il suono del nulla.


Ernst era un sacerdote eleusino. Forse, però, era anche un bambino. Gesù bambino. Ma non importa. I bambini e i greci conoscono entrambi i segreti delle numerazioni e delle enumerazioni esatte: greci e bambini sono selvaggi che fanno la guardia alle stelle, di cui sanno calcolare sempre la posizione reale. Forse questi selvaggi sono cacciatori. Forse, Ernst era un cacciatore. Ecco perché ho detto che il mio incontro con Max Ernst è stato questo. Eravamo in una foresta. Non è esagerato chiamare quell’intrigo di vegetazione in questo modo. C’era questa elettricità liquida. E una certa idea di fatica e paura. Poi è venuto il cervo. Spara, mi disse quindi Ernst. E qui non importa davvero sapere come finisce la storia. Forse, poi, il cervo è morto. Forse è fuggito. Io so solo che un’immagine, che a parole risulterebbe fin troppo evanescente, ora si staglia, non so dire se fuori o dentro di me, con una chiarità e una fissità che abbaglia. Tornammo a casa, parlando d’amore.

 

Max Ernst TN

Max Erns, figurazione di Veronica Leffe (tecnica mista su carta)


Max Ernst, Una settimana di bontà. Tre romanzi per immagini, a cura di Giuseppe Montesano, Adelphi Edizioni, 2007. 

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