Sognare è tutt'altro che facile.
Quando nel 1908 Freud dà vita alla Società̀ Psicoanalitica di Vienna, Kubin scrive L'altra parte. Un romanzo fantastico (Die andere Seite. Ein phantastischer Roman). Un viaggio a Perla, capitale del Traumreich, il regno del sogno. Già illustratore, dichiara di scrivere questo suo primo romanzo per curarsi dal dolore della morte del padre e, più ancora, da un blocco creativo. La scrittura in prima persona, i tratti autobiografici, tutti palesi, rendono il viaggio a Perla il rovesciamento sistematico dell'esperienza del viaggio di formazione di metà ottocento. In opposizione alla tradizione tedesca e mitteleuropea del viaggio come itinerario carnale e spirituale verso le origini del mito e del sapere, Perla si staglia come un accatastamento di antichità̀ e archeologie. Ben oltre la decadenza, briganti, bari e risse popolano le vie. Perfino il disegno della pianta di Perla, la allontana dalle geometrie astratte, simmetriche e concentriche di tutte le altre città ideali.
Alfred Kubin ha scritto convinto che l'ispirazione fosse un demone alieno all'uomo. Non importava da dove venisse: la parola rendeva veloce l'esecuzione e lo scrittore poteva essere il medium che rendeva manifesto creatore e creato, demiurgo e materia. Per la fermezza con cui ha protetto e raccontato il suo demone, anche fuori dalla coscienza e dal controllo, Kubin scelse di non cedere alla tentazione di essere passivo di fronte all’ispirazione. Preferì moltiplicarne la potenza e si trovò a far giocare il daimon coi demoni.
Perla non è un luogo sicuro. È terra di conquista. Dopo aver rovesciato luoghi, funzioni e significati dell'egemonia culturale della vecchia Europa, l'unica fine possibile sembra combattere e soccombere alle proteiformi colonizzazioni intentate dal più subdolo e capillare potere finanziario.
Sono gli incubi ricorrenti di una Europa che si sta preparando alla prima grande guerra e Kubin non offre rassicurazioni ma collasso: il sogno raccontato divora la possibilità̀ che si tratti di una finzione. Le cinquantadue illustrazioni che accompagnano il testo sono già̀ costruite secondo il protocollo e le leggi degli incubi e scavalcano qualunque rielaborazione del preconscio. Nelle tavole così come anche nel testo, inventato ma verosimile, si inseguono il legame tra elementi che nella veglia sarebbero scollegati e gli spostamenti di senso e funzioni. Il tutto provoca un disorientamento che è il vero motore che dà vita alla città di Perla e quel che ne viene fuori è una meravigliosa, lugubre, cupa manifestazione di paure collettive.
Mostri di cui ciascuno ha paura o potrebbe temere. Travestimenti che rendono vivi i demoni. Ombre senza cuore, ventri che non lasciano spazi, occhi che puniscono.
Kubin non combatte contro i demoni, non li scaccia. Li fa vivere nella veglia quotidiana e ne trae nutrimento.
Ha aspettato ventitré anni per capire di dover disegnare. L’anno è il 1900, due anni dopo il suo arrivo a Monaco, nonché́ l’anno di pubblicazione voluto per L’interpretazione dei sogni. Freud s’è accorto di niente; Kubin invece, dal canto suo, sfrutta gli entusiasmi raccolti attorno alla invenzione della psicoanalisi e si accredita nuotando nel suo Stige. Lavora trascrivendo sogni, stravolgendoli. Scava senza pietà e coglie gli abissi di tutti. Produce immagini stravolte dalle nevrosi che non smettono di attingere all’iconografia della tradizione.
Sarà Jung, solo qualche anno dopo, a valorizzare il carattere archetipico della rappresentazione delle paure e degli incubi, riconoscendone un valore universale.
Sarà Kubin stesso a spiegarlo nell’autobiografia pubblicata postuma Demoni e visioni notturne.
I testi e i disegni sono disseminati di trappole. Il riferimento al sogno anche nel titolo paradossalmente è il primo credito, e l’atto della sua trascrizione sembra già da solo poter garantire la veridicità̀ delle rappresentazioni degli eventi. Se il sogno era materiale di una attività̀ celebrale ed emotiva non riferibile al piano della coscienza, allora i contenuti manifesti e latenti del sogno potevano restituire verità più̀ profonde di quanto avvenisse in un soggetto cosciente. Qui la finzione si spaccia per vero. Ma con metodo per esorcizzare tutte le assenze e le morti che hanno costellato anche la sua biografia.
Al racconto di Kubin si può solo aggiungere che è entrato nel suo castello a ventinove anni e ci ha vissuto fino alla morte, a ottantadue anni, nel 1959. Nel frattempo, è diventato membro del Blaue Reiter e ha saputo curare, anche a distanza, relazioni artistiche e professionali che lo hanno portato a illustrare le opere di Poe, Hauptmann, Dostoevskij, Hofmann, Bürger.
La sua attività̀ principale per cinquantatré anni sarà la disciplina. Esercizio, lavoro, tavole. Passeggiate mattutine. Lettere. Neanche la guerra lo tocca perché i suoi incubi erano già più profondi. Capisce il potenziale salvifico della campagna contro l’urbanizzazione densa delle città devastate dagli eserciti. Il suo castello ha nulla di gotico, piuttosto ha le comodità̀ della periferia dell’impero austro-ungarico. Guarda dalla finestra le truppe tedesche mentre occupano l’Austria e attraversano il confine. Ma ha pazienza e vive a lungo.
Da sempre, a colpirlo non è l’orrore della morte. A renderlo inquieto e guardingo è la prolificità della morte. Ne conosce la potenza, ne ha saggiato la forza. È inutile rifiutarne la presenza. E, dunque, la accoglie in modo intenzionale, tanto da renderla oggetto e strumento della produzione artistica.
Un paradosso continuo in cui anche la ricerca stilistica e i blocchi creativi contribuiscono alla narrazione. Vivere, guardarsi vivere. A colpire, soprattutto, è la meticolosità̀ con la quale si applica per raccontare se stesso: conosce l’origine dei suoi traumi, la documenta attraverso i cenni autobiografici e ne esibisce i sintomi attraverso testi e immagini. Non gli interessa curare le paure, piuttosto disegnarle. Di certo non rimuoverle. Kubin riesce a guardare alla vita o alla morte, alla realtà̀ o ai sogni, con la stessa sensibilità con la quale avrebbe letto un romanzo. Ed è appunto trascrivendo se stesso che smette di produrre domande sull’origine delle nevrosi e trova la via per placare le ansie.
Kubin sa che l’analisi non è l’unica via per la conoscenza e sa che l’autoanalisi non è l’unica forma di consapevolezza. C’è la fantasia e c’è la filosofia.
La rappresentazione non serve a svelare il rimosso, quanto a stimolare altra creatività, quella del suo spettatore. Non chiede pubblico ma risorse cognitive, emotive o psichiche diverse dalle sue. Sollecita la produzione di significati potenzialmente infiniti da parte di chi lo guarda. È questo il legame che giustifica l’intreccio continuo tra opera e vita. Ed è su questa base che i personaggi e lui stesso (autore e personaggio) vanno ben oltre il simbolo e l’allegoria. Ben oltre anche il tempo, viene da dire, pensando che, nel 1965, L’altra parte ha dato il via alla collana Libri Unici di Adelphi, come scelta editoriale che accompagna la testimonianza di una esperienza unica, mai scritta prima e difficilmente riproducibile dopo.