The Big Borderline #4
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The Big Borderline #4

 

 

Il nemico è dentro

 

Mancava un giorno alla diretta durante la quale i concorrenti avrebbero scelto i nomi delle persone che si sarebbero sfidate durante il televoto da casa: il più votato sarebbe uscito immediatamente e gli autori avevano imposto i nomi di Mary e Simona. Il secondo nome era stato comunicato attraverso un complicato roteare d’occhi dal prestante Polonio, il quale sembrava essere d’accordo sul fatto di far uscire la goffa musona, buona solo a finire le scorte di biscotti proteici messi a disposizione dello sponsor.

L’aspirante scrittrice stava perdendo interesse verso le motivazioni di quella decisione da parte degli autori, si era già risposta che forse veniva considerata un nome forte che poteva spingere il pubblico a superare la pena provata nei confronti della donna triste. Sicuramente gli sponsor esprimevano delle preferenze, qualcuno avrà esaminato i commenti social e in qualche conclave di autori e presidentissimi di rete sarà stata valutata quella linea per eliminare un peso morto e abbastanza deprimente. Sicuramente non c’era nulla da temere, Mary si stava convincendo di aver recitato bene la parte della persona banale che fa umorismo leggero con l’effetto di conquistare una buona fetta di pubblico e risultare una concorrente forte. A questo punto avrebbe potuto sperare di uscire dopo diversi mesi conquistando un montepremi decente, ma se il suo personaggio fosse rimasto poi incatramato in quell’istantanea di lei che fa le boccacce a un Polonio o si lascia prendere in braccio da Chef Bernardino? Che credibilità letteraria avrebbe potuto avere? Scrivere un libro come “l’umorista che aveva sputato l’acqua addosso a Cannone Antonella per un eccesso di risate (finte)”? Problemi che avrebbe dovuto affrontare successivamente, dopo aver agguantato una cifra sufficiente a realizzare il suo sogno di scrittrice, certo, magari considerando una pausa da telecamere e web che le permettesse un ragionevole ed equilibrato oblio da parte del grande pubblico.

In quelle ore però pensava sempre di più alla triste, povera, ributtante Simona e alle sue frasi sconclusionate. Dall’inizio del programma si comportava così, aveva quello strano modo di parlare che rendeva difficile la comprensione dei suoi sconclusionati pensieri, ma quei riferimenti alla figlia, la confusione dalla quale cercava di uscire, quella conta ossessiva di qualcosa su quel letto.

Mary immaginava che non si trattasse solo dei vestiti che aveva dimenticato di mettere in valigia, sembrava afflitta da preoccupazioni più gravi. Contava spesso, lo faceva in silenzio o bofonchiando qualcosa. Contava sulla punta delle dita e non si dava pace. Poi il mal di testa, perché? Era malata e quei porci degli autori non avevano comunicato la cosa? Sarebbe stato un bel mazzo di cazzi se dentro quell’ambiente chiuso e maleodorante fosse stata introdotta una persona malata e magari contagiosa. L’aveva toccata, le aveva respirato vicino. Mary aveva cercato più volte di indagare discretamente facendole qualche domanda ma Simona non era in grado di rispondere a domande più complicate di cosa volesse mangiare a pranzo, non riusciva a concentrarsi e ricominciava a contare.

 

Intanto gli altri concorrenti studiavano un look adatto alla prima serata del giorno dopo, misuravano gli abiti, si domandavano reciprocamente consigli. La pornosocial Paolina Pappi era bravissima ad armeggiare con asciugacapelli e piastre, non vogliamo sapere come abbia affinato tali abilità manuali, e si occupava di sistemare le acconciature di tutti gli altri. Un gran via vai tra gabinetto e l’apposita sala trucchi, uno stanzino ricavato accanto alle camere da letto con grandi specchi illuminati da lampadine poste intorno alla cornice, che facevano molto avanspettacolo o sala trucco per spogliarelliste di strip club. Sotto ogni specchio erano posti in bella vista gli espositori del make-up offerto dagli sponsor e una vistosissima gioielleria in stile lampadario Reggia di Caserta, a disposizione delle varie concorrenti.

Emilio Cede era adagiato da ore su una poltrona da regista e si sottoponeva a una lunghissima sessione di cura del poro offerta da Carla Lisciarelli in vestaglia da camera stile orientale e asciugamano stretto a turbante sulla testa, totalmente immersa nella parte “sono una straordinaria artista ma resto umile, sono una come voi”.

Nicola-Terrone si trovava in bagno alla ricerca della giusta tranquillità per espletare le sue incombenze intestinali quotidiane. I servizi igienici si trovavano all’interno dell’unica area nella quale le telecamere trasmettevano le immagini solo alla regia e inquadravano solo l’ingresso che conteneva un lavandino per lavarsi le mani e dava accesso a quattro bugigattoli all’interno dei quali ci si poteva accomodare su un water, chiudendo la porta con un gancetto che però poteva essere sollevato dall’esterno tramite chiave universale, utilizzabile dagli addetti alla sicurezza in caso di emergenza. I microfoni naturalmente restavano accesi solo a favore di regia, affinché nessun concorrente cercasse di comunicare agli altri informazioni importanti, come i complotti degli autori per far fuori uno di loro.

Piccoli rumori, passi, avanti e indietro, indecisi, probabilmente qualcuno aveva bisogno di usare il gabinetto e cercava di capire se ci fosse già un loculo occupato.

Un suono metallico, come quello di una serratura che scatta. Impossibile. Di nuovo passi. Toc toc.

«Hai beccato l’unico cesso occupato. Cinque minuti, dai!» Nicola era appena riuscito a trovare una frazione di tempo in cui tutti erano impegnati a provare l’outfit per la diretta e sperava di poter godere di quel raro momento di solitudine per almeno dieci minuti.

«Renditi decente, deficiente» ringhiò Frazzoli.

«E la Madonna! Franco! Dammi un cinque minuti, mi sono appena seduto!»

«Non era facoltativo.»

Ancora quel rumore metallico. La porta si spalancò, l’orrendo radiofonico brandiva un oggetto strano, un piccolo cilindro attaccato a una catenella. Dopo qualche secondo l’influenzatore fu investito dall’improvvisa consapevolezza di ciò che stava guardando: Frazzoli aveva la chiave universale, aveva chiuso la porta principale e aperto quella del bugigattolo dove sedeva inerme.

Sorpreso e spaventato, Nicola si alzò di scatto e si alzò i pantaloni senza avere la prontezza di spirito di abbottonarli. Se ne stava in piedi, con la patta tra le mani, gli occhi stralunati, in attesa di captare un indizio che gli facesse comprendere che scherzo stava per consumarsi ai suoi danni. Succedeva spesso che si creassero situazioni stravaganti di gioco e reciproche prese in giro, architettate soprattutto dagli autori al fine di creare qualche diversivo per rompere la monotonia di quella convivenza ma mai in bagno, fuori dal raggio d’azione delle telecamere della diretta.

Frazzoli gli mostrava il suo miglior ghigno da predatore «chiuditi quei cazzo di pantaloni davanti a me, son mica culatone come voi due deficienti.»

Nicola era paralizzato, totalmente incapace di elaborare un pensiero razionale.

L’orrendo predatore non mollava la presa «e allora, adesso non ti viene più nessuna di quelle belle paroline che ti sei inventato insieme all’altro imbesüì (rimbecillito)» cominciò a scandire facendo le vocine acute che si usano per far ridere i bambini «Orco diiiitooo, mannajaaaa, zio gatoooo!!! Che ridere, eh? Ma sai che qualcuno sta cominciando a rompersi il… come diresti tu? Il mazzo? Eh caro scemotto del villaggio globale, io invece mi sto proprio, decisamente, irrimediabilmente, rompendo questo gran cazzo e sai cosa succede se mi rompo il cazzo io? Che sono cazzi tuoi» puntandogli l’indice sul petto, spingendo forte da fargli male, da spingerlo due passi indietro e spingendolo verso il water.

«Oi Franco, cazzo fai?» Nicola cercava di divincolarsi ma non c’era spazio, non poteva sottrarsi alla morsa dell’orrendo radiofonico che incombeva, quasi aumentava di statura, sembrava crescere e toccare il soffitto, con quell’artiglio puntato sul petto della preda.

«Le risatine, le facce da idioti, le paroline imbecilli, l’amichetta furbetta che forse si salva, ma solo se esce domani o chissà, magari c’è ancora tempo per farmi girare i coglioni ancora un po’, eh? Che dici tu, Gneùcch (idiota), ci volete provare? Perché vedi, quando decido che una moschetta mi infastidisce troppo, con le sue zampette di merda addosso, io l’acchiappo…» con un rapido movimento della mano libera afferrò la mano con la quale Nicola ancora teneva sollevati i pantaloni e la piegò indietro con uno strattone. La preda spaventata urlò di dolore ma la sua bocca era stata schiantata contro la parete del bugigattolo nel quale Frazzoli lo aveva ricacciato, aveva fatto mezzo giro con la schiena che fece un sinistro craaack, le gambe erano rimaste immobili ai lati del water, il braccio agguantato dal predatore era stretto dietro la schiena «… e magari le spezzo le ali, giusto per divertirmi un po’. Sei d’accordo con me?» Nicola gemeva, incapace di divincolarsi, in preda al dolore e paralizzato dallo stupore, quasi drogato da quel miscuglio di terrore che sapeva di sudore acido e incapacità di dare un senso a quella situazione.

«Facciamo così, voi due pirlotti vi date una calmata e forse lo zio Franco si dimenticherà che esistete, altrimenti…» la stretta sul braccio aumentava, in seguito Nicola avrebbe dovuto indossare solo camicie a maniche lunghe per coprire le ecchimosi, «… e naturalmente non voglio vedere neanche un’occhiatina rivolta alla sciura Maria, che con lei me la vedo dopo, se resta. Non facciamo i super eroi che neanche le braghette addosso riesci a tenerti». I pantaloni erano a terra ma era l’ultimo problema per l’influenzatore con la schiena al limite della torsione e un polso girato al contrario.

Frazzoli mollò la presa e fece il segno di scrollarsi la polvere dalla camicia da fighetto. Giocherellando con la chiave si allontanò con il solito ghigno cattivo sulla faccia di tolla che lo faceva sembrare Joker e un passo lento, morbido, la Lana Turner dei cessi televisivi, roba da impazzire dal ridere se non hai qualche osso rotto.

Quale super potere aveva l’orrido raccomandato?

Terrone alzò gli occhi verso la telecamera di sicurezza, sapeva di essere osservato, udiva i piccoli meccanismi di quell’aggeggio ruotare e sibilare leggermente, qualcuno in regia si stava godendo lo spettacolo. Lo avevano mandato loro. Avevano scoperto il giochetto della penna all’Henné? Avevano intuito che in qualche modo i tre della carboneria comunicavano e si scambiavano informazioni di nascosto? O semplicemente Frazzoli aveva carta bianca e si era solo vendicato per le piccole provocazioni del duo?

Nicola si girò a fatica, con la schiena dolorante, il braccio svenuto su un fianco e i pantaloni ancora abbassati.

Alzò il braccio sano verso la telecamera e comunicò con un veloce gesto della mano che la regia si sarebbe dovuta infilare il suo dito medio tutto su per il culo.

 

 

Succedono cose brutte

 

Dal giorno in cui Mary le aveva fatto quelle domande sul vestito, Simona sapeva che sarebbe arrivato il mal di testa. Lo sentiva nelle guance, in quel calore che pulsava dalla base del collo fino al viso, avanti e indietro, lo sentiva spingere come se cercasse la strada per arrivare alla testa ed esplodere. Continuava a esaurirsi in una sensazione di rossore, come un’espressione di imbarazzo, ma lei lo sapeva, cominciava sempre così e poi alla fine si ritrovava in situazioni antipatiche, “quando arriva il mal di testa succedono cose brutte” ripeteva alla figlioletta e Morena se lo ricordava bene. La bambina capiva perfettamente quando il mal di testa cattivo stava per arrivare, lo leggevo nel rossore della pelle della mamma e nel suo modo di brandire il ventaglio rosa che si portava sempre dietro e sventolava vicino alla faccia a una velocità folle. Quando mamma sventolava, di lì a poco sarebbe arrivato il mal di testa.

Simona stava andando letteralmente a fuoco, il calore partiva ormai dalla schiena e si faceva largo a ondate sfondando la diga della fronte per cercare nuove strade ed esplodere sotto l’attaccatura molto bassa dei capelli. I pensieri si facevano nitidi, vedeva la sua stanza e poteva contare: uno, due, tre, quattro, cinque biberon, ma non voglio sapere quanti erano, erano abbastanza e questo è tutto, però erano cinque, ormai lo so, concentrati, erano uno, due, tre, quattro, cinque… Simona contava convulsamente agitando le dita, quel gesto che continuava a ripetere da qualche giorno preoccupando gli altri concorrenti, molto a disagio difronte a quella strana pratica compulsiva. C’erano i vestiti sul letto, non aveva fatto a tempo a metterli in valigia, era stata distratta, da cosa? Perché quel mal di testa voleva che lei ricordasse? Era tutto a posto, lei finalmente stava facendo qualcosa che la potesse emancipare dalla madre, quella perenne fonte di rabbia e frustrazione che non faceva che giudicarla e lanciarle frecciatine su quanto avesse bisogno di essere controllata e guidata. I consigli erano in realtà ordini perché Simona non capiva, non sapeva cosa era bene per lei e la sua bambina eppure non si affidava alla mamma, non seguiva le sue indicazioni e quindi era stupida, stupida, stupida. E lei invece conosceva come funzionano le cose oggi, come si fanno i soldi quando si ha la stoffa dell’artista e il pubblico ti ama. Si comincia con un account social, si propongono contenuti interessanti e ci si dedica notte e giorno a quel progetto perché se arrivano i followers poi arrivano gli sponsor e i soldi. La mamma era incapace di capire quel percorso, a malapena sapeva fare una telefonata con lo smartphone e pretendeva di sentenziare sugli affari della figlia. Bisogna crederci e dedicarsi completamente al lavoro sui social, anche se all’inizio non si guadagna un bel niente.

Lei aveva capito che tutto ciò che poteva offrire era la sua fisicità, l’intraprendenza e la simpatia. E infatti il pubblico lo aveva, tutti volevano sapere quale vestito avrebbe indossato ogni mattina, dove avrebbe pranzato, come si sarebbe truccata e lei era persino generosa con chi la seguiva su Instagram, filmando ogni momento della sua giornata e facendo dirette per ringraziare tutti quelli che la seguivano e commentavano i suoi cambi di look. Presto i vestiti sarebbero arrivati dagli sponsor e anche i primi soldini e lei avrebbe lavorato giorno e notte per servire i brand, anche piccoli all’inizio, che importa, disposti a darle fiducia. Ogni giorno le capitava di imbambolarsi e immaginare con quanta rabbia sua madre avrebbe dovuto ammettere che sì, aveva sempre avuto ragione Simona e forse, no, sicuramente, le sarebbe stato concesso di fare un giro sulla sua limousine. L’influenzatrice era ossessionata dal concetto stesso di limousine, dal valore simbolico del mezzo, dal senso di potere che emanava, se viaggi su quei carrozzoni sei arrivata in cima alla catena alimentare, sei tu che mangi tutti. La limousine era il punto di arrivo, l’acme della gloria, la testimonianza definitiva e inequivocabile del fatto che aveva sempre avuto ragione lei. Non era stupida come la madre voleva farle credere e non aveva bisogno che qualcuno le dicesse come crescere la figlia.

Ormai ce l’aveva quasi fatta, aveva superato il provino per partecipare a TBB e questo era già un riconoscimento importante. Ormai tutt’Italia la conosceva e le arrivavano vestiti da indossare durante i collegamenti con il serale del lunedì, in diretta sulla rete più importante del mondo.

Tutto doveva continuare ad andare bene e se non fosse stata lei stessa a crearsi dei problemi, questi non l’avrebbero mai raggiunta.

Quei mal di testa le facevano sempre un effetto disastroso, era come se le sbloccassero dei circuiti che normalmente non usava, le attivassero dei ricordi, come dei fantasmi che ti spaventano perché vorrebbero dirti qualcosa ma tu fuggi da essi perché non vuoi spaventarti, non vuoi che ti parlino, non vuoi che ti mostrino cose orribili.

Uno, due, tre, quattro, mi pare, e il vestito, stavo per sistemare le ultime cose, perché ho dimenticato il vestito?

Non voglio saperlo perché sono a TBB e va tutto bene finché non ci penso.

Una vampata più intensa, fin sotto il cuoio capelluto e un caldo asfissiante, le guance a fuoco, il ventaglio, nessun ventaglio, il ventaglio vicino al vestito sul letto, e non l’ho preso, perché?

La porta, avevano suonato, era Enzo.

 

 

La sera prima dell'inizio

 

«Ah che bella Simonuccia mia! Stai pronta? Tutto bello organizzato per domani? Dimmi a Enzo tuo.» Lei lo guardava con aria assente, aveva difficoltà a gestire più di una situazione per volta e quando veniva interrotta mentre faceva qualcosa, faticava moltissimo a riprendere il filo.

«Sì, bene, tutto bene, finishco due cosette, più o meno…»

«Oh brava a Simonuccia mia, allora sei a posto, puoi goderti la serata. Ho un amico mio che ti vorrebbe proprio salutare. Hai cenato tesoro di Enzo?», il vicino aveva aspettato l’ultimo momento per presentarsi da lei per essere certo che la nonna avesse già preso con sé Morena, lasciando libera la donna di uscire e fare le ore piccole.

«No, non ho finito angora, la valigia non è pronta, non ho fatto la diretta per salutare i fansi, non ho mangiato proprio», stava andando in confusione, non aveva pensato minimamente alla cena, era troppo indaffarata con le valige e tutto il resto, era sopraffatta, era troppo per lei. Ma c’era Enzo che sapeva organizzare tutto al posto suo, l’aiutava, le suggeriva con quale ordine fare le cose così che lei non rischiasse di dimenticare nulla.

«Ma allora c’è Enzo tuo che ti aiuta, lascia stare le valigie, le chiudi stasera, adesso c’è un amico mio che vuole essere anche amico tuo, uno bravo bravo che ti aspetta già sotto in macchina, prendi il cappottino che fa freddo e vai, veloce, su!»

La donna era sempre più confusa, stava sistemando una cosa che le pareva importante ma all’improvviso era diventata nebulosa, una cosa che andava contata e con calma pianificata, una cosa che richiedeva ogni briciolo della sua concentrazione ballerina.

Maledetta concentrazione. Anche a scuola era così. Non è che non capisse la lezione, ma non riusciva a resistere più di qualche minuto, benché ci provasse e si imponesse di mantenere la testa su un compito o un esercizio non le era fisicamente possibile restare concentrata, aveva una batteria difettosa nel cervello che le garantiva un’autonomia di pochi secondi, dopo di che si ritrovava nel buio, a caricare altri pensieri. Le avevano accostato un’insegnante di sostegno che la esortava a non essere pigra, a dedicarsi allo studio, prendere appunti, fare gli esercizi, ma Simona vagava disperatamente nella sua testa cercando di far uscire un lamento, di farle capire che non mancava di buona volontà ma proprio non riusciva. Nessuno voleva aiutarla a domare i pensieri, a costringere il suo cervello a fermarsi un attimo su un compito per volta, a nessuno importava di lei.

E adesso era ancora allo stesso punto, cosa diavolo stava facendo pochi minuti fa? Teneva il conto di qualcosa, era importante. Enzo le metteva fretta, aveva già agguantato una giacca dall’appendiabiti all’ingresso e gliela stava infilando, alzando le braccia che le pendevano a peso morto sui fianchi gonfi che strabordavano da una cintina di plastica glitterata che agguantava crudelmente un vestito esanime.

«Dai bellina mia, su che l’amico nostro ti aspetta, ti porta in un bel posto a festeggiare. Tu sii gentile che quel signore è bravo assai e ti vuole tanto bene. Vai, forza, su…» spingendola bruscamente.

Era una cosa importante, uno, due, tre…

 

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