Due settimane prima
Nonna Eugenia, la mamma di Simona, era molto preoccupata per la nipotina. Ormai a Simona pensava poco, le aveva dato tutto ciò che poteva e anche di più, nessuno avrebbe potuto accusarla di non aver fatto tutto il necessario. Era stata una brava bambina, a scuola faceva quel che poteva, aveva difficoltà a ricordare le cose ma disegnava molto bene. Era obbediente, calma, aveva le sue amichette con le quali uscire il pomeriggio e andare a spasso per le viuzze del paesino che era così piccolo che forse la parola “paesino” era solo un compromesso per indicare due strade e una manciata di case, un supermarket e un agglomerato di tavolacci di plastica posati su ciò che sembrava essere una piazza.
Aveva una maestra di sostegno perché a scuola era pigra, un po’ assente, ma era buona, tanto buona, povera creatura. Eugenia lavorava in fabbrica, il marito se l’era preso il Cielo quando Simona ancora non camminava. Ma la bambina aveva cominciato tardi, a due anni ancora non correva in giro per casa come gli altri bambini, comunque era brava, tanto brava. Perché preoccuparsi di quando inizia a fare questo e quello? In fin dei conti ogni bambino impara con i suoi tempi e quelli di Simona erano sempre particolari, come quel suo strano modo di bloccarsi e fissare le persone senza parlare e chissà quali profondi pensieri passano dietro gli occhietti di quella creatura, profondi (vuoti come gallerie sotto le montagne), fissi in un punto che vedeva solo lei. A volte Eugenia la chiamava, sollecitava la sua attenzione, ma lei era lì che elaborava qualcosa, come se gli ingranaggi del suo pensiero stessero lavorando per ritrovare la quadra, e poi tornava.
Simona era stata una bimbetta affettuosa e piena d’amore nei confronti della mamma, avrebbe dormito nel lettone con lei per tutta la vita se verso gli undici anni Eugenia non l’avesse costretta a usare la sua stanzetta, fino ad allora adibita solo a ricovero per le bambole. Non che prima non avesse provato a farla dormire nel proprio lettino ma forse con poca convinzione, del resto Eugenia aveva solo lei e in quella testolina profumata di dolcetti che annusava sotto le coperte, trovava conforto e ristoro. La rimproverava aspramente, schiaffoni sul pannolino che la ragazzina portò fino a tarda età, parole brutte, mi hai scocciato, vattene nel tuo letto, domani qua non entri più, e la piccola piangeva con un tono basso, gutturale, un gracchio, un raglio sommesso prima di esplodere in acuti strazianti. La portava di peso in camera sua e chiudeva la porta, ogni sera convinta che sarebbe stata capace di tenere il punto e quella piccola tiranna non desisteva mai, con quel verso cavernoso che faceva prima per svuotare tutta l’aria nei polmoni che certe volte sembrava che affogasse, poi riempiva nuovamente i polmoni e riprendeva con quell’acuto continuo e poi ondulato, come se mimasse un singhiozzo. Era la rappresentazione sonora di un incubo. Eugenia ogni volta sprofondava nella rabbia perché non riusciva a domare quella creatura e ogni giorno sfondava il muro della decenza urlandole qualcosa di più cattivo, dandole un ceffone più forte, nella speranza di bloccare quella reazione, di prenderne il controllo e aiutare quella figlia a uscire dal suo delirio. Ma ogni volta la piccola era più caparbia e quel capriccio era il manifesto enorme e brutale dell’inadeguatezza e della ferocia gratuita della mamma che puntualmente, dopo minuti o ore non resisteva al dolore e alla sensazione di sporco, di umiliazione che quelle urla le facevano esplodere dentro e andava a riprenderla. La bambina si lasciava coccolare strisciandole tra le braccia, sudata e profumata come una pianta carnivora che attira gli insetti con la promessa olfattiva di un pasto sontuoso e poi li imprigiona per sempre. La mamma sprofondava sempre di più nel senso di colpa, cosa le ho detto, cosa le ho fatto, e la piccola sempre pronta a trovare pace e sollievo tra le braccia del carnefice, perché così si sentiva Eugenia, una sporca, perfida aguzzina che tortura sua figlia, una creaturella che ha paura a dormire da sola. I singhiozzi pian piano rallentavano nel lettone della mamma, ogni tanto una scossa di assestamento faceva tremare le lenzuola e le infliggeva un’ulteriore sferzata di vergogna e dolore, alla fine entrambe si addormentavano sfinite.
Verso i dodici anni Simona cominciò a prendere le distanze dalla mamma, in maniera subdola, quasi impercettibile. Piccole bugie, marachelle, risposte ruvide, addirittura maleducate. Eugenia pensò che a quell’età potesse essere normale, pur soffrendo intimamente del distacco della figlia e fingeva di non accorgersi dei piccoli inganni, della malafede, della disubbidienza alle regole di casa. È piccola, crescerà e cominceremo a capirci. Ma più cresceva, più gli intrighi della ragazzina diventavano insidiosi e complicati, seppur sempre facilmente individuabili. Si allontanava sempre di più dalla mamma (o non le era mai stata davvero attaccata?), si allontanava dichiarando di stare insieme a un’amica e invece non si sapeva realmente cosa facesse, ma la mamma preferiva chiudere gli occhi e sperare che fosse una fase e del resto se i figli cerchi di bloccarli poi quelli fanno il contrario, ma lo vedeva che le altre ragazzine erano diverse da sua figlia, carine, birichine magari ma affettuose e rispettose dei genitori. Con immenso dolore Eugenia si sentiva sempre più inadeguata, un fallimento, perché se un figlio non ti ama, non prova quei sentimenti che per natura legano genitori e figli senza alcun merito, allora devi veramente essere un umano scadente, uno scarto del quale Dio si vergogna.
Simona non mostrava un particolare attaccamento per nessuno, neanche per i nonni o gli zii, semplicemente si limitava ad accogliere regali e piccole attenzioni come un vagabondo che accetta volentieri un panino regalato da un passante. Era indifferente a qualunque sentimento o esigenza da parte di chiunque altro non fosse lei, nessuna amica era mai riuscita a diventare una presenza speciale nella sua vita perché Simona era sempre pronta a cambiare alleanze e preferenze a seconda di chi soddisfaceva le sue esigenze perché lei conosceva un solo partito e una sola causa: la sua.
Verso i quindici anni era ormai impossibile guidare la ragazza e darle delle semplici regole di convivenza, anche se la mamma si illudeva che quella fosse una lunga, lunghissima e penosa fase adolescenziale e prima o poi quella creatura l’avrebbe amata di nuovo. Simona faceva i capricci di una bambina di cinque anni e voleva essere trattata da adulta, che nella sua mente si traduceva nella possibilità di soddisfare qualunque ghiribizzo senza il peso della responsabilità delle proprie azioni. Si rivolgeva sempre più spesso in maniera sprezzante contro la madre, le regole, non capisco, lasciami in pace, ti detesto e pure Eugenia reagiva con dolorosa acredine, forse non sei normale, non mi hai portato che rogne, ho fatto di tutto per te e tu non vuoi crescere, se avessi saputo che diventavi così… Cosa? Rifletteva poi la madre nel silenzio della sua disperazione, cosa avrei fatto? Mai e poi mai avrei abortito questa figlia, non mi sfiorerebbe mai l’idea neanche se mi puntasse un coltello, però non riesco più a provare quei sentimenti materni, quell’attaccamento che dovrei sentire. Lei non mi ama e io forse non riesco più, che madre sono? Che maledizione è questa?
A diciotto anni la ragazza cominciò ad assentarsi per giorni, era ormai irriconoscibile, non c’era più traccia di quella ragazzina bellissima e tutta per la mamma che era stata, si era evoluta in qualcosa di orrendamente altro, di incomprensibile, totalmente privo di empatia, affetto, tenerezza. All’improvviso se ne andò con un ragazzotto sui venticinque anni raccattato non si è mai capito dove, uno scansafatiche legnosetto e nerboruto, con un sorriso infido e gli occhi sottili come asole. Si sposarono e dopo pochi mesi nacque Morena, abbandonata dal padre prima ancora di avere la possibilità di elaborare i primi sensi di colpa.
La bambina era di una bellezza straziante, affettuosa, sorridente e sempre pronta a tuffarsi nelle braccia della nonna che si era trasferita da Simona proprio per aiutarla a crescere la creatura ma cominciarono subito liti furibonde tra le due donne perché a Eugenia sembrava proprio che la figlia non avesse messo a fuoco il fatto che la bimba fosse un essere umano in carne e ossa e anteponeva le proprie esigenze e i propri orari alle necessità della piccola. Morena strillava affamata ma lei stava facendo un video da postare su Instagram perché c’era gente che aspettava di vederla col vestito nuovo, c’era il pannolino da cambiare, ma poteva farlo dopo, intanto doveva finire una telefonata con un tizio raccattato sui social. C’erano tante cose da fare e altre da procrastinare e l’ordine d’importanza era stabilito in maniera caotica e imprevedibile. Quando Simona era euforica per aver raggiunto un certo numero di like o commenti positivi, oppure per un bel ragazzo che l’aveva contattata, allora diventava una mamma simpatica, faceva giocare la bimba, la coinvolgeva nelle sue foto e le raccontava le sue puerili fantasie da piccerella. A volte si bloccava, come faceva da piccola e non sapevi mai quando sarebbe riemersa da quel reset, dimenticava di portare la bambina dal pediatra o si confondeva, si perdeva, sprofondava dentro quel buco nero che in sostanza essa era nel profondo di sé.
Dopo pochi mesi Eugenia si arrese di nuovo, perché questo è quello che faceva sempre: si arrendeva, si girava e fingeva di non vedere. Tornò a casa sua e prese l’abitudine di telefonare più volte al giorno alla figlia per accertarsi che non si dimenticasse delle esigenze della nipotina.
Due settimane prima di entrare in TBB Simona stava preparando una valigia per passare un paio di giorni, forse tre, vediamo, con un nuovo fidanzato che magari, che bello, l’avrebbe sposata e sarebbe stato la sua personale rivincita nei confronti del mondo. Lo avrebbe ostentato sui suoi social a favore delle bambine presuntuose che l’avevano trattata male da piccola, le ragazzine presuntuose che l’avevano trattata come spazzatura, la madre che non le voleva riconoscere lo status di adulta e indipendente.
Avrebbe passato dei giorni spensierati, pregustando la vittoria finale.
Senza Morena.
Terza settimana
Gli ascolti non erano esaltanti ma il programma proseguiva con sgualcita lentezza, mentre gli autori tentavano disperatamente di elaborare qualche amorazzo da far poi confluire in una torbida gelosia o una lite appassionata che provocasse una sorta di attesa, di preoccupazione per le sorti della coppia artificiale. Giò Fraschetta sarebbe stato ottimo nel ruolo del bel ragazzo conteso ma era già uscito, del resto era il pedone più sacrificabile a causa della sua totale incapacità di relazionarsi con gli altri in maniera televisiva, ovvero inscenando qualche piccolo diverbio su argomenti irrilevanti.
Orianaunpòditutto era fuori da ogni tentazione, non perché fosse una brutta ragazza ma perché la sua propensione naturale a espellere gas sulfurei dalla bocca dopo ogni pasto, provocando il frastuono di un motorino senza marmitta, era una dote poco apprezzata in un contesto sentimentale. Forse, più avanti, avrebbero tentato di imbastire una disperata relazione tra Lumas e Lisciarelli, benchè l’uomo sembrasse più interessato alla giovane interprete del porno, la quale però aveva imposto da contratto l’esenzione da ogni tipo di fidanzamento televisivo per non rischiare di danneggiare la propria carriera.
Il Duo Teste di Cazzo era continuamente impegnato in lunghe partite a carte con Lumas, Erminio Cede e lo chef Bernardino. Le carte erano state create utilizzando il cartoncino delle confezioni di cereali sponsor del programma, opportunamente ritagliato a misura e dopo un lungo simposio erano giunti a un accordo sul significato di ogni figura. Il divertimento stava nell’imitazione dell’anziano giocatore da bar e del suo proverbiale linguaggio colorito a base di bestemmie rielaborate e vecchi tormentoni come “porco dito” e sbam! Preso il settebello, “orco zio” e giù la carta buona, camalow e la primiera è mia… aspettate, camalow? É una vecchia chicca realmente esistita all’interno di un vero reality italiano per nascondere l’accenno a una bestemmia, opportunamente mascherata e mai sanzionata. Immaginiamo che i nostri personaggi, realmente esistenti in una dimensione parallela, la conoscessero.
Il vero scopo del gioco era stuzzicare, provocare e infastidire gli autori con un turpiloquio molto eloquente seppur mascherato da parole apparentemente senza significato. L’idea era venuta al Duo Teste di Cazzo dopo la notte in cui avevano svelato a Mary di aver introdotto nel programma la penna all’henné e lei li aveva apostrofati con quelle parole cretine che svelavano il senso dell’insulto, senza tuttavia essere sanzionabili.
Simona li guardava con aria assente, costretta dentro l’ennesimo abito strizzaciccia fornito dalla produzione al fine di renderla almeno ridicola e inguardabile, affinché i social potessero sbranarla regalando interazione all’hashtag del programma. La donna non serviva ad altro dal momento che passava le giornate vegetando in uno stato catatonico, senza alcun interesse per gli altri concorrenti, le liti e gli amori da copione. Gli autori tentarono di farla fuori alla prima occasione indicando agli altri coinquilini di votare affinché andasse al televoto durante le finte riunioni con lo psicologo a microfoni chiusi, ma il pubblico provò pena per la concorrente e decise che poteva fare a meno del ballerino da talent, rispedito immediatamente nel suo triste anonimato. Non si riebbe più da quel fallimento televisivo.
Le riunioni del trio della Carboneria (Mary, Nicola “Terrone” e Gerardo “Mestizia”) si tenevano a notte fonda, nonostante il senso di ribrezzo che Mary continuava a provare per quei due deficienti. Eppure, in qualche modo era confortante sapere di far parte di qualcosa, che c’erano due persone che sebbene fossero totalmente inette, inadeguate in ogni contesto e inclini a creare situazioni potenzialmente letali, ti coprivano le spalle e ti consideravano parte del clan. E infatti, arrivò il giorno in cui gli autori decisero che Mary doveva uscire e imposero a Gerardo e Nicola di votarla. I due inoltre captarono un riferimento sfuggito a Oriana mentre discuteva con lo chef sulla sua “incapacità di esprimere una motivazione realistica per inchiappettare una che la faceva ridere sempre”, dunque la decisione era chiara perché funzionava così: veniva permesso a una piccola parte di concorrenti di decidere chi votare, al fine di creare qualche situazione spontanea potenzialmente divertente ma si imponevano agli altri i nomi dei personaggi che si sarebbero realmente contesi la permanenza nel gioco.
Perché, si chiedeva Mary? Non era un peso morto, anzi, si industriava a piazzare spesso battute banali che il pubblico di quel tipo di programma potesse capire e apprezzare, si prestava a rispondere agli umilianti quiz per scimpanzé da laboratorio, obbediva a tutte le indicazioni che riceveva in segreto, si era persino piegata all’orrenda pratica di chiamare “Umby” il presentatore del programma Umberto Bricconcelli.
Umby. Come cazzo si fa a chiamare Umby un essere umano? Che poi neanche un cane sarebbe felice di essere chiamato così, probabilmente ve lo fareste nemico ricevendo in cambio un’abbondante pisciata di protesta ogni giorno in un punto diverso della casa. Ma era un modo per manifestare simpatia e affetto (nonché una sonora leccaculata) nei confronti del damerino scelto dalla rete per condurre quella pessima farsa che con la realtà non era imparentata neanche alla lontana. Umby buonasera, ci sei mancato! Hai visto che bel vestito stasera Umby? Umby dai non mi prendere in giro… e gran risate... un divertimento furibondo, tanto che durante ogni diretta serale l’aspirante scrittrice immaginava di essere a cena con la famiglia di “Non aprire quella porta” e si sentiva più a suo agio.
I concorrenti erano stati divisi in due stanzoni con sette letti ciascuno, più una branda in una specie di loculo per il concorrente “peggiore” della settimana, votato dal pubblico. Il Duo Teste di Cazzo aveva organizzato un complicato giochino che prevedeva una ridisposizione dei concorrenti nelle camere da letto, in modo tale da riuscire a piazzarsi nei letti accanto a Mary e poter scivolare sotto la sua coperta per complottare non appena la telecamera si fosse girata per fare una panoramica notturna. Qualcuno pensò che quell’evidente stratagemma servisse a creare una dinamica amorosa tra uno degli influenzatori e la battutista, altri immaginarono che il Duo volesse solo prendere le distanze da Oriana e le sue occasionali strombazzate di sedere, Lumas favoleggiò su un ménage à trois che gli regalava dei sogni meravigliosi. Erminio Cede non si rese conto neanche di essere stato coinvolto in un gioco o lo dimenticò dopo pochi istanti.
Ogni notte il trio della Carboneria si incontrava sotto le coperte per scambiarsi informazioni mute sulle indicazioni di voto fornite di nascosto dagli autori e studiare strategie, avvalendosi della penna magica introdotta di straforo. Per due giorni i tre elaborarono piani per difendersi dal televoto. In ultima analisi sarebbe stato il pubblico a decidere chi sarebbe uscito, ma se altri concorrenti avessero ricevuto l’ordine di mandare al televoto e contrapporre a Mary un concorrente molto amato come Lumas, ad esempio, l’uscita dell'influenzatrice sarebbe stata sicura.
Era troppo presto per essere eliminata dal gioco, lei aveva totalizzato solo poche centinaia di euro per quella partecipazione, inutili per il suo progetto letterario e assolutamente inadeguati come ricompensa per quel soggiorno in mezzo a gente noiosa, sporca e irritante. Lei non avrebbe mollato così facilmente e il Duo Teste di Cazzo non era intenzionato a perdere un pezzo di quel prezioso club segreto, anche perché i ragazzi non si fidavano di nessun altro dentro il programma. Gli altri concorrenti si dividevano tra organismi unicellulari che sembravano autenticamente divertiti dal gioco televisivo e bestie a sangue gelato che avrebbero ceduto un parente per una settimana di permanenza in più.
Solo Simona restava indecifrabile, con quello sguardo vuoto e quei tunnel infiniti al posto degli occhi.
Perché io? Perché io? Perché io?
Mary non si dava pace ma continuava ad animare la catapecchia con battute banali e finto divertimento, recitando esattamente il ruolo che quel tipo di pubblico avrebbe potuto apprezzare. Ma un pensiero cominciò a distrarla dalle preoccupazioni di quei giorni: Simona la incuriosiva davvero. Non era una semplice svanita, una venditrice di infusi puzzolenti da social, una che si è fidanzata con un vecchio cabarettista conosciuto durante le riprese di qualche orrendo programmaccio televisivo misogino, una ragazza nota per essere figlia di una vecchia gloria televisiva che fece il suo tempo ballando davanti alle telecamere dopo essere uscita da scuola. Quella strana creatura apparteneva a un universo parallelo, dove magari poteva essere protagonista di un fatto di cronaca nera talmente grave da diventare l’ossessione di contenitori tv basati sulla morbosità del pubblico.
Ci voleva la fantasia degenerata di una scrittrice per immaginare una televisione che inzozza i pensieri e le coscienze delle persone, proponendo loro la narrazione romanzata di atti criminosi violenti, indugiando sui volti dei presunti artefici e facendoli diventare persone quasi di famiglia, facce rassicuranti alle quali affezionarsi in un modo perverso, attraverso meccanismi che sfuggono alla coscienza. “Oggi torniamo a parlare dell’assassinio della povera signora Daniela uccisa dal cognato PierValerio a causa, forse, si sospetta, di una torbida relazione tra i due, ma siamo cauti e pure garantisti”. Segue servizio con PierValerio che esce da casa e chiede ai cameramen di non riprenderlo, oggi ha i capelli rasati, ma perché li ha accorciati così? Era più fantasticamente maniacale con la criniera lunga e arruffata. PierValerio frequentava una collega, filmato sulla collega che esce dall’ufficio coprendosi la faccia col cappuccio della felpa, che cazzo volete da me? Chi lo conosce quello? Era solo un collega, due scrivanie dietro la mia. PierValerio amava le auto di lusso e seguiva una serie su Netflix, quella che guardo anche io, poi ha la passione per i Sandwich, gruppo punk rock uscito da un talent, a me quella roba là sembra da pervertiti. Mamme e nonne discutono di PierValerio durante lunghe telefonate, poi con i figli, le battute a tavola sui vari cognati, le chiacchierate di rito con l’edicolante. PierValerio è uno di famiglia, ne conosciamo gusti e abitudini, vorremmo consigliargli un outfit più adatto, un parrucchiere migliore, comunque è un bel ragazzo mannaggia! Ma oggi c’è PierValerio? Che fanno? Non ne parlano più?
Mary sapeva scrivere e osservare, la sua mente da novellista poteva a stento concepire quel mondo distopico e un po’ si vergognava di riuscire a immaginare un tale decadimento dell’essere umano.
L’aspirante scrittrice tentò un approccio con Simona.
«Bello questo tubino, ci prepariamo per una prima cinematografica stasera?», mentiva spudoratamente davanti a un orrendo sacco sintetico adattato alle forme di una donna aliena con sacche di grasso posizionate a caso.
«Bello sì, un bò shtretto sul cluteo però è bello becchè è segsi» si scherniva quella strana creatura che amava osservarsi riflessa su ogni superficie della casa e sembrava che la sua immagine le fosse sufficiente per sopravvivere a una vita difficile.
Mary si stava ossessionando ogni giorno di più, si chiedeva di cosa vivesse una creatura del genere, che lavoro potesse mai fare, quale anima aliena potesse mai condividere la sua vita con lei. Aveva sicuramente una figlia perché aveva fatto un accenno a Dallaspesa durante i primi giorni e la presentatrice lo aveva riferito agli altri concorrenti affinché sapessero come rapportarsi con quella esotica creatura, però Simona non ne aveva più parlato con nessuno, anzi, lei non parlava proprio, mai, non aveva argomenti e non era interessata a nulla. Questo la rendeva interessante, un curioso oggetto di studio per uno scrittore, un buco nero che nel suo vuoto assoluto risucchia tutto il mondo intorno.
La battutista cercava di capire se fosse una grande attrice, monumentale, inarrivabile o quel mostruoso negativo di essere umano che sembrava.
«Quando usciamo da qua ci facciamo una bella diretta insieme su Instagram e vediamo quante visualizzazioni facciamo, ti immagini?»
«mmm» (grugnito disinteressato)
«e poi vedo pure tuo figlio, le posti le sue foto o preferisci non mostrarlo al pubblico?»
Un attimo, una scintilla, la parvenza di un fotogramma di consapevolezza, quasi di presenza.
«No, è bambina, è piccolina proprio, non gammina, non la faccio vede’, no, non posso, poi il padre pure, non mi va, non si deve fa’ i fatti miei, no», scuoteva la testa come una bambina che rifiuta di prendere lo sciroppo, si stava agitando, era la prima reazione che aveva visto in quella povera creatura senz’anima.
«Brava, non mostrarla, io pure non lo farei se avessi un figlio. Divorziata quindi?»
Mary pensava di aver trovato una falla nel sistema di difesa, un pezzo di muro rattoppato col tufo da abbattere a picconate e cominciò a martellare, ma la strana creatura aveva un modo tutto suo di aggirare gli ostacoli della coscienza e tornare nel giaciglio della sua eterna assenza.
«No, non g’è, non so dove shta, ho lasciato un veshdido bello sul letto, quello me lo volevo portare, era sul letto, avevo preparato il latte, era pulita…»
Confusione, nervosismo, pugni chiusi, gli occhi che roteavano, Mary ebbe paura che la povera donna stesse per avere un attacco epilettico.
«Ma no, Simo, tranquilla, se ti serve un vestito te lo puoi far portare da un parente, la redazione te lo fa avere in camera, puoi chiedere.»
Odiava l’idea di avere un contatto fisico con quella creatura che sotto due dita di fondotinta sembrava piuttosto sporca e trasandata ma allo stesso tempo fu azzannata da una sorta di senso di colpa, temette che le stesse procurando un infarto e le massaggiò la schiena come un’infermiera che accudisce un anziano.
All’improvviso la strana donna smise di contorcersi e fissò la sua interlocutrice «è il mal di testa cattivo, se mi viene è un guaio, shdo male, succedono cose brutte»
«eeeeh Madonna! Dai Simo, se ti senti male ti aiuto io, vuoi che chiediamo un analgesico?»
«Non mi ricordo, shdava sul letto,» si strofinava la mano sulla fronte come se l’aiutasse a ritrovare briciole di memoria spalmate sulla sua faccia, «shdava il veshdido, il latte, era pulita, l’ho saludada? Sì. Era il veshdido buono, le bottiglie, dieci mi pare»
Sembrava contasse qualcosa con le dita.
«Uè tel chi (ecco) la sciura Maria! Sempre in compagnia di grandi menti! Scherzo stelina» si inserì l’orrendo Frazzoli scoccando un viscido sorriso che colò sulla faccia di Simona. «Alura, l’avete acceso il cervello stamattina o c’era troppa nebbia?»
Risata compiaciuta.
«Dai, su, di che si parla oggi? La fisica quantistica del minestrone?», sempre più eccitato e compiaciuto di sé, «dimmi sciura Maria, fammi divertire».
Occhiata di sfida.
La malignità, l’ostilità e la ferocia che quell’orrido figuro sapeva emanare si attaccava addosso a Mary come una miscela tossica e appiccicosa. Detestava che la chiamasse “sciura Maria” ma naturalmente evitava di renderlo felice con una reazione stizzita.
«Uè ciula!» (minchione) rispose Mary con un gran sorriso.
Un lampo di odio, un fuoco d’artificio di maledizioni esplosero per un secondo negli occhi del radiofonico imbruttito, «oddio Franco, in realtà non so cosa ho detto, lo sai che non conosco il milanese ma tu lo rendi così simpatico che ogni tanto dico una parola sentita o letta chissà dove, tutto mi suona bene». Espressione ingenua come quella di un gatto che ha appena buttato giù un vaso e si strofina alle gambe del padrone.
«E se non sai una cosa perché la dici? Schiva l’oliva (attenta a non finire nei guai), sciura Maria» rispose l'Orrendo.
«Ecco vedi? Non capisco, accidenti, devi proprio insegnarmi», Mary lo guardava con teatrale dolcezza e intanto fingeva di prendere appunti scrivendo sul palmo della mano «schi-va l’o…».
Frazzoli aveva lanciato l’avvertimento e sapeva di essere stato chiaro, quindi continuò la sua passerella attraverso le telecamere e si diresse verso la cucina.
«Te set on magazzin de frecass! (essere inutile)» sussurrò lei in modo che quelle parole lo raggiungessero. Lui ebbe una leggera insicurezza, un passo in fallo quasi, una vibrazione. Aveva udito.