«E adesso che fa, ci segue?» fu Franco a lasciarsi scappare questa domanda, giunto vicino alla finestra. A stento Teresa soffocò una risata; si voltò dall’altra parte e, per non far dispetto agli ospiti, con le mani mascherò la bocca. Mario: «Visto?» e richiuse l’anta che cigolò e strusciò a terra, spinse la finestra e girò la maniglia, «Che vi avevo detto?». Con Franco riattraversarono la sala e tornarono a sedere. Teresa aveva ancora le guance chiazzate per l’imbarazzo, Carmela pareva estraniata, si scambiò giusto uno sguardo con Mario mentre questi riprendeva il suo posto, uno sguardo complice certo, ma vuoto: chi meglio di lei conosceva la situazione? condividevano l’appartamento da quasi due anni. Gianni tamburellava con le dita sul tavolo, fissando di sbieco la parete che gli stava di fronte.
«Prego, prego scusate ancora un attimo ragazzi» disse Mario una volta seduto. Levò un braccio sul tavolo, scrutò uno a uno gli invitati negli occhi, dando a intendere che voleva la loro attenzione. In silenzio, ciascuno a modo suo lo stava assecondando. Quindi con la mano alzata Mario iniziò a contare. Al “tre” – un sollevamento lento e controllato del dito medio – si udì un botto dal pavimento: ma non era caduto nulla, né dal tavolo né dalle altre parti della sala, per cui gli amici si guardarono sbigottiti.
«Ma…» esitò Teresa, con il pollice verso, «veniva da sotto?»
«Sempre da sotto» annuì Carmela, e non disse altro.
Mario si strinse nelle spalle, accennando vagamente al fondo della sala: doveva aver fatto rumore la finestra. Poi indicò vistosamente in basso, tra le gambe del tavolo, cosa a cui Gianni obbedì controvoglia, perché la faccenda iniziava a irritarlo. Franco era già lì con lo sguardo: sempre in silenzio, con l’aiuto dei piedi si stava cavando le scarpe, mentre una mano faceva “Aspettate, aspettate”: ormai scalzo, Mario si alzò e cominciò a camminare. Bilanciandosi con le braccia, pareva essersi calato in un mondo fatto di funi ben tese, dove sia buona norma muoversi sulle punte, con estrema prudenza: erano passi leggerissimi i suoi, da funambolo. Al contrario, i colpi sul pavimento sarebbero stati duri e decisi e avrebbero accompagnato, man mano, tutto il suo impercettibile avanzamento.
Teresa rise, uno squittio scattoso e isterico. L’equilibrista si fermò poco oltre, con le braccia aperte. Poi voltò la testa, quanto bastava per sincerarsi che, dal tavolo, gli altri lo stessero osservando. Per primo vide Franco che scuoteva la testa. Poi fu la volta di Carmela, stretta in un trattenuto riserbo; gesticolava appena all’indirizzo di Gianni, i cui occhi sgranati parlavano chiaro. Allora Mario tornò sulle piante, si girò per intero e segnalò la libreria, quell’insieme di scaffali a vetrina i quali, partendo dall’angolo, cingevano su due lati il tavolo da pranzo. Più nessun colpo proveniva dal pavimento. Dopo aver indicato il mobile, Mario allungò un braccio e ne aprì uno sportello. Lo tenne così per qualche secondo, come se volesse far prendere aria ai libri, poi senza alcun motivo apparente lo richiuse, un gesto tipico dell’uso domestico. Con una variante: nel ritirare il braccio, anziché distenderlo e adagiarlo lungo il corpo lo tenne sospeso, quindi lo abbatté in verticale, una sorta di giudice sportivo che, da un momento all’altro, stia a sancire l’inizio… ma di cosa? Un boato, uno schianto sconcertante seguì subito appresso, con tempismo perfetto. Mario stesso dovette fare una smorfia, perché aveva scherzato e non si aspettava tanto. Doveva dipendere da qualche grosso scaffale che fosse stato scaraventato, sempre al piano di sotto. Il perché e il come restavano un mistero.
«Se vado di sotto…» ringhiò Gianni stringendo le labbra e allontanandosi la libreria dalla vista. Ora il pavimento, da quel viluppo di funi tese e sospese a strapiombo, dava l’impressione di essersi trasformato in una pelle di tamburo, capace di restituire i suoni più disparati, soprattutto insulti e grida.
«Ma… è pazzo?» proruppe Teresa, per pentirsene immediatamente: nessuno poteva darlo per certo, ma qualcosa dei commenti sbraitati di sotto poteva avere a che fare proprio con quell’esternazione imprudente. Fu guardata con aria compassionevole da Carmela: «Non sale» la rassicurò la donna con fare distante, «non sale, se è questo che pensi».
«E tu digli di salire!» urlò Gianni con rabbia, a bella posta. Ma poi abbassò la testa e guardò con terrore, balzò in piedi e si precipitò dal tavolo: «Ma che cazzo…?» nella foga colpì la sedia, la fece cadere e carambolare a terra – Franco lo guardò preoccupato. «Batte qui sotto!» protestò per difendersi. Teresa svicolò e finì per rifugiarsi dietro la porta aperta della sala. Franco non si mosse, era l’unico a sedere a tavola insieme a Carmela, i cui occhi assomigliavano sempre più alle valvole di una pentola a pressione.
“Ehi” fece allora Mario spalancando le braccia, era ancora in prossimità della libreria e dovette impegnarsi non poco per riuscire nell’intento: “Ehi, recuperate la calma e state a guardare”, espirando rumorosamente dal naso incoraggiò gli amici ad abbassare i toni, a fare altrettanto – sì, Gianni stringeva forte la sedia, ma stava facendo del suo meglio per recuperare il controllo e scongiurare un altro cedimento. Così Mario propose ancora qualcosa al gruppo: portò di nuovo l’attenzione sul braccio, fece notare come roteando il polso, acquisita una certa velocità, con vigore, quasi naturalmente si attivava anche il gomito, da dove il movimento rotatorio, poi, come l’onda di una frequenza finiva a estendersi alla spalla e a quel punto coinvolgeva tutto il corpo: voleva caricare un pugno, si vedeva, un pugno enfatico, d’effetto, che richiedeva un pubblico e un’attesa in crescendo. Non a caso Teresa si staccò dalla porta dov’era nascosta e si sporse in avanti, curiosa. Di nuovo Gianni ebbe un accesso di collera fomentato dal gesto, lo denunciò un rigurgito negli occhi incendiati. Carmela zitta, immobile. «No…!» uscì detto dalle labbra di Franco…
Mario agì come se avesse dovuto schiacciare un corpo estraneo che si fosse messo a spuntare qui e là sulla superficie del pavimento; una testa malevola certamente, una pustola venefica che avrebbe portato solo discordia e insidie. Ma quel braccio scagliato a tutta forza si fermò a un niente dal colpire le piastrelle: una finta, ancora un atto simulato, ma così violento da poter provocare un’ondata d’aria.
«…iih!» Ecco cosa si udì di rimando: una specie di fischio sottilissimo e acuto, tagliente, tale da ricordare in sala il richiamo dei delfini.
Passò in rassegna le facce Mario, ne verificò le reazioni spaesate. Si inginocchiò a terra; non lontano c’era Gianni, che, visti gli sviluppi, non aveva mollato la sedia e onestamente non sapeva che fare. Forse, se prima di doppiare il colpo Mario gli restituì un’occhiata, era per suggerirgli che un modo c’era, ma andava trovato col tempo e aveva ben poco a che fare con una reazione d’istinto, con un’azione concreta. Ora gliel’avrebbe mostrata lui la via, perché purtroppo poteva vantare una lunga esperienza in materia.
E infatti: «iih!» il secondo grido fu anche peggio, e oltre ogni dubbio proveniva da sotto, dal cuore o dal diaframma del suo disperato autore – per poco non rischiava di provocare un effetto avverso, un’apoteosi di rumore infrangendo i vetri. Mario colpì ancora e ancora finché anche l’eleganza e la pulizia del gesto vennero meno, il solo fatto che restava indiscusso era che all’ultimo, proprio quando sarebbe stato ovvio impattare contro il pavimento, col pugno si limitava a sfiorarne la superficie. Ormai, da inginocchiato, roteava un continuo mulinello. Coerentemente, il fischio si era fatto sempre più sgraziato e ininterrotto: se c’era un uomo lì sotto, quell’uomo stava soffrendo di brutto.
«Basta!» esplose Teresa scoppiando a piangere. «Fallo smettere, ti prego! Sei pazzo, sei pazzo!».
Franco era tornato a starsene in piedi, vicino alla finestra. Gianni stringeva ancora la sedia, ma aveva reclinato la testa. Carmela teneva gli occhi puntati su Teresa, che stava singhiozzando.
Quel grido non accennava a smettere.