La «presa» di Pizzoferrato
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La «presa» di Pizzoferrato

La «presa» di Pizzoferrato
Gli occhiali volano in aria e il suo sguardo, vispo, sagace, si fa sorpreso, come se una sventagliata di mitra non fosse mai e poi mai prevista nei suoi piani di maggiore dell’Armata britannica. Così, col corpo di Lionel Wigram, cadono anche le nostre speranze di prendere Pizzoferrato.

Ci siamo messi in marcia da Fallo, nel gelo della notte, in forma di quattro plotoni: 2°, 10° e 11° del Gruppo dei Volontari, per circa ottanta uomini, e una trentina d’inglesi, tra cui alcuni ufficiali. Siamo la Wigforce, dicono gli inglesi. Ettore e Domenico Troilo si sono dimostrati dubbiosi nello sferrare un attacco al reparto tedesco senza l’appoggio dei paracadutisti italiani in arrivo dal Sud, ma il loro supporto è stato comunque promesso in giornata, così siamo partiti.
Sotto il diluvio, giungiamo intorno alle 4.30 in un paese desolato. Ci sono solo i tedeschi asserragliati in alcuni edifici sullo sperone più alto. Il maggiore Wigram assegna a ogni plotone un obiettivo preciso: casa Melocchi, l’abitazione dell’arciprete, la batteria di cannoni a nord-ovest del centro abitato e palazzo Casati. Per tutti lo stesso monito di stanare il nemico cercando di fare più prigionieri possibile. Io, che non faccio parte dei plotoni di volontari, mi ritrovo nel gruppo di italiani e inglesi cui spetta l’azione principale, la presa di palazzo Casati. Il piano è questo: disarmare la sentinella, sfondare il portone del palazzo con l’esplosivo e cogliere i tedeschi di sorpresa senza ricorrere a inutili scontri a fuoco.
Il maggiore conduce gli uomini sotto il muraglione alto due metri e mezzo che circonda il palazzo. Con lo sguardo chiama a sé un certo Philip, soldato semplice suo fidato, che scatta in piedi, poi con un cenno della mano indica me. Mi si gela il sangue, saremo noi tre ad aprire l’attacco, ma non faccio in tempo ad aver paura che siamo già in azione, e vedo Wigram stesso infilarsi nel cancello e saltare addosso alla guardia tedesca, seguito da Philip. È un attimo: la sentinella sguscia da sotto il pastrano e parte una mitragliata. Gli inglesi cadono morti, io non capisco dove sono stato colpito. E prima che si scateni l’inferno, qualcuno m’afferra per i piedi e mi tira via.
Gli uomini, rapidi, si spostano per accerchiare il palazzo, appostandosi in diversi punti così da tenere i crucchi sotto fuoco incrociato, ma dalle finestre in pochi secondi cominciano a sputare piombo come demoni. Vedo sopraggiungere altri dei nostri guidati dal tenente Exell. Non capisco cosa dice, ma è chiaro che sta incitando ancora all’attacco. Sento un’esplosione: siamo riusciti a far saltare il portone, dice qualcuno. I tedeschi però non s’arrendono, anzi, sparano ancora più forte.
Vengo accompagnato fino a una piccola chiesa, incastrata tra le rocce come un presepio. Poco dopo arrivano altri feriti. Il pavimento s’imbratta di sangue. Trascorre un tempo che non so contare e portano dentro anche il tenente Exell, pure lui gravemente colpito. Gli inglesi sono nervosi, noi spaventati. Ma il fuoco continua, a ondate, scandito da un silenzio fatto di tuoni, colpi di tosse, grida isolate, smorfie di dolore. Anch’io, fermato il sangue alla coscia, torno a combattere aiutando i soldati inglesi appostati alla finestra. Abbiamo un’ottima visuale, ma siamo anche un bersaglio.

È quasi mezzogiorno. La pioggia è cessata. Ormai stiamo tutti asserragliati nel cortile e dentro la chiesa. Le notizie sono sconfortanti: gli altri plotoni sono in fuga, rinforzi tedeschi stanno arrivando da Gamberale, mentre dei nostri rinforzi nessuna traccia. Non abbiamo alcuna possibilità. Ma se per gli inglesi c’è la speranza d’invocare la Convenzione di Ginevra, a noi guerriglieri non attende che essere fucilati davanti al muraglione di palazzo Casati. Dobbiamo tentare la fuga, ma per scappare la via è una sola: calarsi dallo sperone a strapiombo, senza corde, feriti, stanchi, senza certezza di non incappare in altri nemici.
Il nostro tenente Osvaldo Glieca tratta rapidamente con gli inglesi: chi vuole arrendersi si trincera nella chiesa prendendo tempo con i tedeschi, chi vuole fuggire farà una catena umana, braccio a braccio, e tenterà di calarsi nel vuoto. Un ultimo sguardo ai compagni feriti e ai caduti, Fantini riverso nella neve con un colpo in fronte, Di Luzio seduto sui gradini della chiesa come se dormisse, e andiamo.
La sorte però è dalla nostra. Grazie alla neve accumulata, i passi sono stabili. Nel giro di qualche minuto siamo ai piedi della parete di roccia e ci disperdiamo nella campagna, cercando di riparare veloci nella valle del Parello prima d’incrociare anche il fuoco nemico. A sera, siamo a Fallo, sotto gli sguardi cupi di Ettore Troilo e del maggiore Denis Forman.
Oltre a venticinque uomini fatti prigionieri, di cui tre dei nostri, tredici sono i caduti: dieci guerriglieri, due soldati inglesi e il maggiore Lionel Wigram.

Un sacrificio enorme, ma non è stato vano. Nel pomeriggio del giorno seguente arriva una notizia da Pizzoferrato, la manda Valentino D’Alosio, ex maggiore d’artiglieria e capo della banda locale: i tedeschi si sono ritirati. «Le campane scandiscono l’ora della nostra liberazione» dice il messaggio.

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