Il primo bosco
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Il primo bosco

Il primo bosco
Bosco Martese ci ha chiamati come un nonno chiama i nipoti. Ci ha adunati intorno al fuoco e ci ha raccontato una storia. Una storia sull’origine della nostra famiglia, ma che non parla al passato, narra della famiglia e della storia che verrà.
Siamo qui al Ceppo da quattro giorni, venuti via da Teramo e dai paesi attorno per organizzare un’offensiva che scacci l’invasore nazista e i suoi accoliti fascisti dalle nostre case, dalla nostra terra. Non siamo solo teramani, a scaglioni sono arrivati in tanti. C’è il gruppo del rinato esercito italiano con in testa il capitano d’artiglieria Lorenzini, ci sono gli azionisti di Capuani e Fioredonati, i comunisti dell’avvocato Cerulli, il gruppo dei fratelli Rodomonti, e poi nuovi e vecchi antifascisti, liberi cittadini, in particolare studenti, che sono sfuggiti ai rastrellamenti per i lavori forzati. Ma ci sono anche molti soldati stranieri evasi dai campi di concentramento in zona: Tossicia, Notaresco, Nereto e Isola del Gran Sasso. Sono inglesi, neozelandesi, australiani, russi, americani, canadesi, la maggior parte però è slava, che proprio noi agli ordini di Manduccio Ammazzalorso abbiamo aiutato a scappare e a radunarsi qui. Qualcuno dice che siamo più di mille.
Io ho diciannove anni. Sono di Montorio al Vomano. Seguo Ammazzalorso da una ventina di giorni. Il nome intero lo tengo per me, per tutti sono Ughetto.

Siamo talmente tanti che nelle quattro notti precedenti, a gruppi di due dozzine decisi a turno, abbiamo fatto la spola con la periferia di Teramo per portare qui al Bosco armi e soprattutto viveri. Ci aiutano con i camion, e però a ogni spedizione la vita è appesa a un filo: la Wermacht presidia le strade principali. Al mio gruppo è toccato ieri, io non ho avuto mai tanta paura. Oggi invece, 25 settembre, attediamo che altri compagni tornino a sfamarci. Ma è quasi mezzogiorno e tutto tace. Non un ordine a scandire il tempo. Sappiamo solo che dobbiamo presidiare la costa della montagna, da dove si vede, nuda e polverosa, la strada che risale la Valle Castellana.
Siamo divisi in cinque compagnie, a loro volta composte da più squadre. A picco sul burrone, occupiamo una semiluna di circa due chilometri. Ogni compagnia prende ordini dal suo comandante, ma tutti rispondono alla guida del più alto in grado, il capitano dei Carabinieri Ettore Bianco. Io ascolto Manduccio, pronto a scattare al minimo cenno: per lui solo sacrificherei il futuro e i miei sogni.

Un grido ci coglie sospesi tra i pensieri e i morsi della fame: «all’armi!»; e un’eco sferragliante di fucili che s’armano scuote il Bosco. Una lunga colonna di mezzi nazisti muove sulla strada in nostra direzione. La tensione sale come uno stormo d’anatre spaventato da un segugio. La mia squadra attende il comando d’Ammazzalorso. Lui l’ordine di Bianco. Quand’ecco che parte un colpo e tutte le compagnie si mettono sparare. «È troppo presto!» grida Manduccio, ma ormai è fatta, lo scontro inizia, rincalzato dalle mitraglie e dai colpi dei due cannoni posti un centinaio di metri a monte della nostra postazione.
I mezzi in capo alla colonna sono facile bersaglio. I primi tedeschi cadono a terra sotto la pioggia di fuoco, gli altri si riparano come possono dietro i camion che provano a fuggire in retromarcia, ma s’accalcano alle curve più strette, si tamponano, sono nel caos e non riescono a rispondere ai colpi che arrivano dell’alto. Davanti a tanto sbandamento, due delle nostre compagnie sono mandate all’assalto, aggirando il nemico dai fianchi.
Noi di Ammazzalorso restiamo sul posto. Io assisto alla scena come a teatro. Tiro qualche colpo concedendomi tutto il tempo per prendere la mira. È la prima volta che sparo, così già solo se m’avvicino al bersaglio mi sento fiero. Ma in realtà nessuno di noi sa chi o cosa coglie.
L’attacco dura un paio d’ore. Il tempo di circondare i nazisti e costringerli alla resa. Il grosso della colonna, però, è scampato, riparando alla bene e meglio dietro ai tornanti della Teramo-Pescara. Si dice che almeno cinque tra autovetture e camion sono distrutti, che i morti sono cinquanta e forse il doppio i feriti. Ma ciò che conta è che abbiamo vinto. Conta che abbiamo dimostrato ai tedeschi, ma forse per primi a noi stessi, che possiamo liberare la nostra terra.

Ammazzalorso è subito chiamato a rapporto. A noi dà ordine di ripiegare nel Bosco e di raccogliere l’equipaggiamento.
Quando torna, dice che è prevalsa l’opinione degli slavi, e lui concorda. Il maggiore Matiyasevic suggerisce di disperderci in piccoli gruppi sui Monti della Laga, perché la rappresaglia dei nazisti non si farà attendere. Ci saranno tempi migliori per nuovi attacchi. Così, la mia compagnia si mette in marcia dietro a Manduccio. A nessuno è data sapere la destinazione.

Poco più a valle, sulla strada per Paranesi, incrociamo la squadra di Lorenzini che torna dall’assalto al Bosco Martese con un gruppetto di prigionieri tedeschi. Tengono tutti le mani intrecciate sulla testa. Solo uno, graduato, se ne sta in ginocchio, di schiena, con lo sguardo rivolto agli alberi, quand’ecco che un militare italiano si avvicina e lo fredda con un colpo alla nuca.
«Così è fatta giustizia per le vittime di questa mattina: Belloni Guido, De Jacobis Luigi, Lanciaprima Mario, Melozzi Gabriele, Palucci Guido» grida perentorio il capitano Lorenzini.

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