Perché?
Non lo so.
Voleva lasciarti?
Non che io sappia.
Allora, perché?
Basta, sono stanco.
Ti tradiva?
Non credo.
Allora perché?
Perché sono nato? Perché mia madre è mia madre? Perché fra le infinite possibilità sono sbucato al mondo il 24 marzo 1981? Perché a trent’anni ho perso i capelli?
Se potessi rispondere a tutti i perché, sarei un uomo felice, invece d’immaginarla solo la felicità.
Io la felicità me l’immaginavo come un giglio che spuntava dal battiscopa della cucina. Chissà perché un giglio, invece di una rosa, o di un tulipano. Un bel giglio bianco, come in certi vecchi arazzi. L’avrei annaffiato ogni giorno, e lui sarebbe cresciuto un po’ alla volta, fino a riempire tutta la stanza.
Ora alla felicità non ci penso più. Neanche al giglio, né a niente. Se mi tocco, non sento, se mi penso, la testa si svuota. Che sia questa la felicità?
L’ho fatto perché l’amavo, vi basta?
L’ho fatto perché non ne potevo più di vederla scontenta.
L’ho fatto perché mi ha guardato.
L’ho fatto perché…
L’ho fatto e basta.
Ripartiamo da capo.
Sono stanco.
Forza, riprenda da quando è rientrato.
Ve l’ho detto, sono rientrato alla solita ora.
A che ora?
Alle due.
Ed era di cattivo umore, è così?
Sì, mi giravano le palle. Sei ore allo sportello. Pratiche, reclami, spedizioni che non si trovano, il computer che s’inceppa, quello che protesta, un altro ha sbagliato un modulo e blocca la fila. Poi ci sono quelli che non sanno l’italiano e non capiscono mai. E intanto dietro si scalpita. E il capufficio si avvicina e ti squadra perché non rispetti i parametri, cioè quante pratiche evase, quanti clienti soddisfatti, quanti contratti siglati. Sì, le palle mi giravano assai. Ti senti che non vali niente e quel sentimento ti si appiccica addosso. Fai finta che va tutto bene, siamo tutti amici in ufficio, sicuro, implementare l’azienda è la nostra mission, cioè la nostra missione, ma non siamo missionari, né santi, né niente.
In una giornata così, dico io, sarebbe bello rientrare a casa e trovare un sorriso, una parola dolce, una stretta di mano, una carezza. Un piccolo giglio da innaffiare, cazzo.
Invece niente sorriso, niente carezza, nessuno che ti dice ah, che bello rivederti, sei andato via di corsa stamattina, neanche un bacio. Mi è mancato tanto quel bacio.
Le piacciono i baci, commissario…
Ispettore, solo ispettore.
Vabbè, ispettore, quello che è. A me piacciono i baci. La sua lingua che gioca con la tua e la bocca sa di velluto e il cuore e il corpo ballano insieme. È troppo, signor ispettore, aspirare a un po’ di tenerezza?
Io ne avevo tanta di tenerezza da dare. Volevo darla a lei. Se me lo avesse permesso, sarei stato il suo cagnolino, il suo lacchè, il suo respiro. È bello essere il respiro della persona che ami, perché sai che, quando non ci sei, soffoca.
Lei soffocava solo quando c’ero.
Entro in casa, appendo la giacca, appoggio a terra la mia borsa, vado in bagno, potrò pisciare, no? Mi lavo le mani, per bene, con cura, perché voglio accarezzarla. Le strofino a lungo, infine lo spazzolino sotto le unghie, che non resti traccia di sporco né altro. Sono sempre stato attento a queste cose. L’ho sempre toccata con le mani pulite, perché la pulizia è importante. Anche il rispetto è importante, è una questione di rispetto.
Mi affaccio alla cucina, saluto. Lei sputa un ciao senza voltarsi, la faccia ai fornelli. Mi dica lei ispettore, valgo meno di una pastasciutta, di una scaloppina?
E guardi che io non le chiedo niente. Non ho mai preteso che cucinasse o robe simili, che a me va sempre bene e se vuole cucino io, ma lei non vuole, dice che quello che cucino non sa di niente. Le sembra una cosa bella da dire? È come se dicesse che io non so di niente. Ma io non protesto, va bene, va bene anche così.
Insomma, non mi guarda, ma decido di non badarci. Sono uno tranquillo io, sono un brav’uomo, io. Chieda ai vicini, mai un urlo, mai uno screzio. Io l’ho sempre rispettata. Anche quando il desiderio mi spaccava la testa e nei pantaloni si accendeva una fontana.
Mi sono avvicinato, le ho messo le braccia attorno alla vita, lei niente. Le accarezzavo i fianchi e col coso le ho dato due colpetti sulle natiche, giusto per farle sentire quanto la desideravo.
Io la desidero sempre, tanto, signor ispettore, solo lei. La desidero anche adesso. Il suo odore mi è rimasto nel naso, la sua pelle è nelle mie dita. Lei è tutta nella mia carne, ma non io nella sua. Mi concedeva svelta un po’ d’amore, come si sfama un cane per non vederselo intorno. Montava un ansimare da maratoneta e degli scatti da epilettica per fingere un orgasmo e farla finita. Ma non è un bel mangiare così, che resti sempre affamato.
Quel giorno mi stringo a lei, dico quel giorno lì, da dietro, e le bacio i capelli. Aveva dei capelli lucidi come il marmo e un odore tutto suo che non saprei assomigliare a niente. Le faccio scivolare le mani sul seno e attraverso la camicetta cerco di afferrarle i capezzoli.
Spegni tutto, le sussurro, mangiamo dopo. Quello era il suo giorno di riposo, avevamo tutto il tempo. Invece allarga le braccia per divincolarsi, spinge indietro il sedere per allontanare il mio coso. E tace. So cosa vorrebbe dirmi: ritira le mani, allontana da me il tuo batacchio, mi fai noia, vai al tuo posto, cuccia, cuccia, cosa c’entri tu qui?
Io non c’entravo nulla con la sua vita. Eppure, è stata lei a scegliermi, io l’ho accolta come un miracolo. La parola ‘moglie’ mi rotolava in bocca come un cioccolatino. Perché ha voluto proprio me, mi chiedevo, e mi sentivo un principe.
L’ha mai provata, ispettore, quella sensazione, che prima sei niente e poi sei bello, più bello di tutti, la tua carne è viva e ogni cosa è piena di luce? Che finalmente anche tu avrai il tuo giglio.
Quel giorno continuavo a stringerla. Lasciami respirare, ha sbuffato. Io mica le volevo togliere l’aria, al contrario, avrei voluto regalarle tutta l’aria del mondo e farci capriole con lei. Aria, aria…
Ho obbedito, mi sono seduto a tavola, lei allora si è girata. Ha sorriso, ed era un sorriso vero. Era contenta che mi fossi messo a tavola, al mio posto, quello fra il muro e il tavolo. Davanti a me il piatto col bordo rosso, il bicchiere, la forchetta, il coltello, il tovagliolo di carta.
Non mancava nulla. Mi ha messo la pasta nel piatto, lasagne ai funghi. Faccio io, le ho detto. Ma lei no, mi ha fatto il piatto. Non vuole che io tocchi niente, come se sporcassi le cose.
Al centro del tavolo il tegame con le scaloppine, e si è seduta.
Ha acceso la tivù, perché il telegiornale ingoiasse il nostro niente.
Sono stato sul punto di spegnerlo, ma non ho avuto il coraggio, perché allora avrei dovuto parlare e parlare è difficile, signor Ispettore. Ero contento anch’io che ci fosse il telegiornale, che qualche parola sui fatti del mondo potevamo anche dirla.
Zelensky non potrà mai vincere, coi pochi uomini che ha… la ministra dovrebbe dimettersi. A noi ci rompono l’anima se un cliente gli gira di chiudere il conto, e quella lì può far quel che vuole.
Discorsi così vanno sempre bene, è come stare zitti, ma toglie il brutto del silenzio.
E intanto ci si riempie la bocca e si mastica. Anche senza fame. Avevo fame di amore, avevo voglia di stenderci nel nostro letto e mescolarci. Il nostro letto. A pensarci, il nostro letto… mi sembra che non sia successo niente e che possa uscire di qui, e ritrovarla, lei che cuoce le scaloppine e le lasagne.
No, no, le ripeto. Non aveva mai portato altri nel nostro letto. Non è una questione di corna. Voialtri pensate sempre a quello, ma c’è qualcosa di più importante.
A un certo punto è partito un servizio sui cani.
Che carino, guarda che carino, e m’indica un cucciolo di San Bernardo. Come mi piacerebbe un cane, un cane non ti delude mai, ha detto.
Ha capito, signor ispettore? Lei vuole dire che io l’ho delusa. E mi chiedo quando è successo, come, perché. Vorrei chiederglielo, ma non ci riesco.
Butto lì una cazzata, giusto per non dire la cosa che ho in testa.
E se ti piscia sul tappeto?
Lei mi guarda e io abbasso gli occhi.
Non vale la pena pensarci, la casa è troppo piccola, dice.
E io so che è un rimprovero per me, che guadagno poco e non faccio carriera.
Se ci tieni, un cagnolino si può prendere, magari non un San Bernardo.
Lei intanto sparecchia, infila le cose nella lavastoviglie, va a stendersi a letto, chiude la porta della stanza.
So che non dorme, le piace stendersi, con un libro in mano. Le piacciono quelle terribili storie di Stephen King, che non c’è più verso di strapparle un minuto. Potrei morire, quando ha uno di quei libri in mano, che s’impressiona per tutti quei morti, e io potrei schiattare lì, che non gliene importa, se non per la noia di chiamare il becchino. Ha ragione lei, è anche una questione di corna. Mi tradiva con Stephen King.
Busso alla porta, piano, caso mai dormisse, non voglio svegliarla.
Silenzio. Metto dentro il naso. Lei è lì, incollata al libro. Solo la mano si muove, per girare la pagina.
Mi accuccio vicino a lei. Ho un peso addosso, un peso che non so cosa sia. Le metto una mano sul petto. È cominciato tutto lì, signor commissario… oh, scusi, signor ispettore.
Il cuore mi è sceso dove può immaginare, e pompa desiderio, desiderio in tutto il corpo. Mi sembra che quel desiderio sia lì da sempre, che il mio corpo non ce la faccia più a contenerlo, quel desiderio devo consegnarlo a lei, oppure esploderà, schizzerà le pareti, le tende, la bella lampada di murano sul suo comodino, e anche su quel cazzo di libro e se la prenderà da matti. Altro che pipì sul tappeto.
Lo riprendi dopo, dico, cercando di tirare via il libro.
Lei lo trattiene.
Dai, per favore.
Lasciami in pace.
E batte la mano sul letto, come a dire, mettiti lì, a cuccia.
Mi ci sarei messo in quel cantuccio, nonostante il cuore, nonostante il peso, nonostante l’uragano che montava laggiù. Mi sarei accucciato e avrei aspettato, aspettato e aspettato che le pagine trascorressero una dopo l’altra, come i clienti allo sportello.
Invece mi ha guardato negli occhi. Lei lo sa vero, che un cane non bisogna fissarlo negli occhi, soprattutto quando si accorge della paura nei tuoi.
Perché lei ha avuto paura. Ha visto qualcosa che non aveva mai visto. Io non so come fosse la mia faccia, so che la cosa che mi correva in corpo bruciava. Era un dolore di sangue, e quel sangue mi entrava dappertutto, e il libro non c’era più, e le stavo addosso.
Lei urlava e mi graffiava la faccia, mi calciava coi piedi. Ma il dolore straripava dalla pelle. Sotto la pelle c’erano schiuma, c’erano alghe, c’erano scaglie di ferro.
L’ha uccisa quella tempesta. La schiuma le ha intasato la gola, urlava, urlava mentre la mia tempesta la sommergeva. Non sono stato io a strangolarla, è stata la tempesta, signor ispettore. Io non avrei mai potuto farle del male.