Il tempo è un cerchio piatto. Tutto quello che abbiamo
fatto e faremo, lo faremo ancora e ancora e ancora.
Compulsatori di aforismi, citatori seriali, maniaci dei social network, sono tanti quelli in questi anni che devono ringraziare Rust Cohle per aver fornito loro, nei suoi monologhi, una quantità quasi inesauribile di materiale. Di tutte queste, anche a distanza di un decennio la più famosa resta la definizione del tempo come cerchio piatto, una frase enigmatica e paradossale che condensa in sé diverse stratificazioni di significato, rimandando a vari ambiti filosofici e simbolici cruciali per l'intera impalcatura concettuale della serie.
Come è palesemente evidente, l'immagine evocata da Cohle appare intrisa di una potente carica ossimorica, un cerchio che è una forma ciclica e ricorsiva che metaforizza l'eterno ritorno e la dimensione circolare, a cui si contrappone l'aggettivo piatto a connotare invece una prospettiva orizzontale.
Questo contrasto si presta a simboleggiare il paradosso di fondo della concezione atea e nichilista dell'universo abbracciata dal protagonista, una visione in cui allo iato perpetuo tra Essere e Nulla non sembra corrispondere nessuna ulteriorità trascendente o dimensione soteriologica.
Il primo significato a cui rimanda il concetto cohleniano del tempo come cerchio sembra essere quello di un richiamo all'antica nozione ciclica e ricorsiva tipica delle grandi cosmologie delle civiltà antiche, l'idea che la scansione temporale non sia una linea infinita ma un ricorrere perenne di cicli, stagioni, ere, separate da epoche cataclismiche di distruzione e rinnovamento.
Questa rappresentazione circolare del tempo che eternamente ritorna su se stesso dopo aver compiuto una perfetta rivoluzione era uno dei capisaldi delle antiche filosofie orientali, ma ritroviamo concezioni analoghe anche nelle dottrine ermetiche e nelle teorie pitagoriche e stoiche dell'eterno ricominciamento di ogni cosa.
A questa matrice ancestrale dell'eterno ritorno attinge esplicitamente il concetto di circolo vizioso cosmico evocato più volte da Cohle, dove le sue parole sembrano rimandare all'idea che la successione degli eventi non sia lineare e finalisticamente orientata, bensì un mero ciclo perennemente reiterato di nascite, esistenze e morti che ripiombano nuovamente nel nulla infinito da cui sono emersi. Questa sensibilità verso un perpetuo ricominciare di sequenze immutabili richiama per Cohle la natura ultima innaturale e non definitiva dell'universo transitorio, dal cui ciclo è necessario prendere definitivamente congedo con l'oltrepassamento estremo nel nulla.
Se il riferimento al cerchio evoca la concezione ciclica ancestrale, l'aggettivo piatto che gli viene accostato pare invece introdurre una radicale torsione disincantata e deflazionistica in chiave nichilista, dunque ciò che l'immagine del cerchio piatto sembra alludere è la spazializzazione e l'appiattimento della dimensione temporale su un piano orizzontale.
Questa riduzione del tempo da trascendenza verticale a fattore planare, almeno a un primo livello di lettura, parrebbe richiamare la secolarizzazione e lo scetticismo operati dalla modernità sulla concezione stessa del chronos, attraverso il passaggio da una visuale mitico-sacrale del tempo, come epifania di energie sovrannaturali e presenze ultraterrene, a una sua progressiva orizzontalizzazione in un flusso omogeneo, piatto e deterritorializzato, di successioni causali.
In quest'ottica, il cerchio piatto evocherebbe l'essenza bidimensionale e immanente con cui il tempo viene esperito dall'attuale antropocene, ormai ridotto a pura entità numerica, coordinate di uno spazio-tempo unificato. Una demitizzazione radicale che stempera la sacralità del kairós in un susseguirsi di istanti indifferenziati e de-realizzati, proprio il piatto orrore della temporalità serializzata, omologata e meccanicamente ripartita dall'astrazione strumentale e tecnologica contemporanea.
Quindi l'immagine paradossale di un cerchio piatto sembra alludere a una sostanziale messa in crisi della verticalità e della dimensione di trascendenza, ricorrente nella visione nichilista e anti-metafisica del protagonista, la cui concezione del tempo sottintende una radicale negazione di qualsiasi piano sovrasensibile al di là della piatta fattualità fenomenica. In questo modo Cohle sembra negare qualsiasi possibilità di redenzione, rivelazione o compimento di senso ultimo, sottolineando al contrario la dimensione meramente orizzontale, inerte e insuperabile della successione di eventi sulla nuda superficie dei fenomeni.
La visione di Cohle è allora radicalmente scettica, un'idea che sfida la nostra percezione convenzionale del tempo come un flusso lineare e progressivo, proponendo invece un modello ciclico e predeterminato. Dalla nostra limitata prospettiva tridimensionale, gestiamo e sperimentiamo il tempo in maniera lineare, come una freccia che punta costantemente in avanti, tuttavia, suggerisce Rust, se potessimo adottare una prospettiva quadridimensionale, al di fuori dei vincoli del nostro spazio-tempo, vedremmo che il concetto di tempo come lo conosciamo non esiste. In questa visione quadridimensionale ipotetica il nostro intero esistere sarebbe inquadrabile come un'immagine statica in cui passato, presente e futuro coesistono simultaneamente. Nessuna progressione temporale, ma solo un'istantanea eterna che racchiude l'esistenza nella sua interezza.
L'altra analogia dei kart sulla pista, utilizzata dal protagonista in un colloquio con gli investigatori venuti a interrogarlo, dipinge un'immagine vivida di questo concetto: proprio come le macchine che girano incessantemente sullo stesso circuito predefinito, le nostre vite non sarebbero altro che traiettorie ricorrenti all'interno del cerchio piatto dell'esistenza. Percepiamo movimento e cambiamento, ma in realtà stiamo solo ripercorrendo lo stesso ciclo eterno su una pista prestabilita.
Questa prospettiva implica che il libero arbitrio, almeno come lo concepiamo comunemente, potrebbe essere solo un'illusione. Se l'intera esistenza è già determinata all'interno di questo loop senza fine, le nostre scelte e le nostre azioni non sono altro che ripetizioni di un copione già scritto.
Ovviamente, se accettassimo questo concetto, dovremmo ripensare radicalmente il significato delle nostre vite e delle nostre azioni: se tutto è già prestabilito, ogni sforzo, ogni trionfo, ogni tragedia, non sarebbero altro che una ripetizione di un ciclo infinito. Eppure, il richiamo di Rust all'eternità al di fuori della nostra dimensione suggerisce che potrebbe esistere uno stato di essere trascendente al di là dei cicli dello spazio-tempo, dove il suddetto stato di eternità rappresenterebbe una sorta di realtà ultima, statica e immutabile, una condizione di esistenza pura al di fuori del tempo e dello spazio come li intendiamo.
Posizionandoci su questo ordine di idee dovremmo comunque ammettere che la nostra esperienza sensoriale del mondo è solo una frazione limitata di una realtà più vasta e complessa, dove la nostra mente tridimensionale limita la nostra capacità di comprendere pienamente la vera natura dell'esistenza.
In definitiva il concetto del tempo come cerchio piatto sfida le nostre nozioni convenzionali di divenire, libero arbitrio e significato, proponendo un modello ciclico e predeterminato dell'esistenza. Che si sia d'accordo o meno con questa prospettiva, bisogna dar credito a True Detective di stimolare una riflessione filosofica circa le nostre convinzioni più radicate sul tempo e sull'esistenza e, proprio come Cohle, la serie ci sfida a guardare oltre i confini delle percezioni limitate, intendendo il concetto espresso come uno stimolo a sviluppare le concezioni base circa il libero arbitrio e la vita in generale, verso un'idea che sfugga ai confini della semplice narrazione per addentrarsi nei territori inesplorati della metafisica e dell'ontologia, sollecitando anche nello spettatore una profonda analisi.