Via Paradiso
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Via Paradiso

 

«Muoviti Salvo, corri!».

Arrivo, tu aspettami”.

Le urla di Gregorio si dispersero nella piazza infrangendosi come schegge tra la folla. Il corpo sommerso nella marea umana svanì e Salvo, esitante sul dove andare, arrestò la sua corsa.

Dove sei?”.

A guidarlo rimase l’udito, teso a individuare la voce che lo attraeva.

«Corri, non ti fermare».

Gregorio riapparì, districandosi nel caos della fiera simile a una serpe tra i fili d’erba, e quando fu sul punto di riperderlo Salvo rallentò osservando il corpo in fuga. Lungo i confini delle braccia di lui, immaginava cucite lunghe stoffe di raso rosso, unite ai lembi del proprio corpo, danzanti nella distanza che li separava. Riprese a inseguirlo, lo faceva da anni ovunque decidesse di andare. E se mai l’avesse lasciato andare via la pelle di Salvo si sarebbe strappata dalla carne, trascinata dalle redini di raso, lasciandolo spoglio, solo, senza il suo migliore amico.

Aspettami”.

Attraversarono la fitta processione che proseguiva verso la parrocchia con a capo la statua di San Lorenzo, rientrante in chiesa indifferente alla devozione. Le sue pupille verniciate sul cereo viso parevano restituire lo sguardo solo a quelle cerulee di Salvo, tanto che gli sembrò diventassero vive. Occhi lucidi che si degnavano di abbassarsi a terra per scrutarlo. Occhi trasformati in dita che scavavano dentro di lui, mani nella sabbia in cerca del mare. Occhi che mietevano le menzogne avvoltesi alle ossa: congiunture che permettevano al suo scheletro di stare in piedi, di non accasciarsi. Le mani del santo si chiusero in pugni stretti e la nocca dell’indice si dispiegò giudicante verso Salvo.

Perdonami San Lorenzo se sono un bambino cattivo”.

Rimase inerme, osservando e osservato. Gregorio lo risvegliò, strepitando sulla soglia del campanile. «Sbrigati o ce li perdiamo».

Salvo temeva l’oscurità e la solitudine che questa porta con sé, fin dalle punizioni inflitte da Gualtiero, suo padre. Accanto al suo amico si fece coraggio, percorrendo i sessanta gradini della torre, fino all’ultimo piano dove le due campane di bronzo vegliavano su Lumeca.

Quel giorno di festa, dieci agosto millenovecentocinquantotto, il rione sembrò svegliarsi da un lungo letargo. Riprese a respirare, dopo l’inverno trascorso a trattenere il fiato per stringersi in sé e lasciare spazio ai suoi pochi abitanti: a chi aveva le caviglie avvolte saldamente alle radici di quella terra di mare e a chi, come una rana, non conosceva mondo oltre il suo stagno.

Le bifore del campanile svelarono la pallida luna nuova. Per affacciarsi, Gregorio si arrampicò su una vecchia scala di legno.

«Sali con me».

Ti seguo”.

I loro corpi si accoccolarono all’ultimo piolo. Avvicinarono i volti, sfiorandosi le guance avvampate, per condividere la fessura che si apriva sui tetti. Salvo ascoltò l’affanno di Gregorio intrecciarsi al suo.

Lampi di luce squarciarono il cielo esplodendo in cascate di scintille i cui colori scemavano in un fumo grigio che scese verso il mare spinto dalla brezza fresca della montagna.

Salvo sentì per la prima volta il cuore viandante trovare riparo.

Si vede la nostra casa!”.

Se avesse potuto parlare l’avrebbe chiamata per quello che era: la baracca di via Paradiso, un posto dimenticato da chiunque, persino da sé stesso. Erano loro due a prendersene cura, costruendo negli anni il rifugio dalla cattiveria degli adulti di Lumeca.

«Laggiù si vede via Paradiso» gridò Gregorio sobbalzando e uno degli staggi si spezzò facendoli precipitare ingarbugliati l’uno con l’altro.

Salvo percepì l’odore della pelle di Gregorio scendergli nel petto. Il battito del cuore si inferocì, implorando pietà. Avrebbe voluto dilatare quell’attimo in una vita troppo lontana da quella che viveva.

 

La consegna, piena di grumi, riposava sulla lavagna.

Se fossi un oggetto cosa sarei?”.

Le iridi rimasero in bilico sul davanzale della finestra.

Scrivi, forza”.

Oltre il silenzio di quei trenta ragazzi, chini sui banchi, con le loro nuche rasate per evitare i pidocchi. “Scrivi, non solo per chiedere scusa”.

Lo sguardo di Salvo inciampò nel bianco della carta che per la prima volta gli appariva nemica e lo esortava a mentire.

Scrivi, forza! Anche bugie”.

L’immaginazione zoppicò nel percorrere linee di oggetti che si disintegravano e rimodellavano. L’indice e il pollice sporchi d’inchiostro.

Scrivi, inventa”.

Puntò i gomiti contro il banco e tra le mani strinse la testa, come se questa avesse potuto staccarsi e rotolare via, rifiutando lo sforzo. Inarcò i polpastrelli, scavò tra la peluria, trovò la cute e premette forte come ad aprirla, dividerla in due e rimestarci dentro. Sospettò che all’interno ci fosse solamente terra arida e tanti piccoli semi marci, privi di coraggio per germogliare. Riportò le dita sul quaderno.

Pensa e scrivi. Non riesco”.

Il pennino affogò nel calamaio e le gocce di nero si aggrumarono sulla punta fino a colare sul foglio.

Scrivi, ci riesci. È l’unica cosa che sai fare, che so fare bene”.

Il professore odiava vedere quelle monache nere, per questo lo avrebbe sgridato e punito con un brutto voto. Non sarebbe stato questo a far schioccare la frustra del padre sulle costole di Salvo, ma le macchie sul grembiule. In quella classe di trenta alunni, solo lui poteva indossarlo e sfoggiarlo come una coccarda spillata al petto.

Ventinove polsi si muovevano, uno solo era pietrificato.

Pensa. Che oggetto sono? Cosa sono io realmente?”.

Sapeva di possedere una fisionomia solo perché il riflesso negli occhiali di Gregorio non mentiva.

Scrivi cosa sei, perché non si possono sempre creare poesie che sono labbra che baciano un nome non di carne”.

Riconoscersi in uno specchio era difficile, gli occhi lo sorvolavano senza vedere pelle, carne o sesso ma solo una tela, pallida a puntini marroni, su cui tracciare costellazioni infuocate.

Scrivi: sono una tela”.

Ma la tela sgualcita, già da tempo, aveva ceduto il posto alla carta per permettergli di dipingere la sua via delle stelle attraverso la poesia, salvandolo.

Cancella, scrivi: sono una penna”.

Se gli altri non erano niente senza la loro voce, cos’era lui senza l’inchiostro che calca, cancella, ritma parole sul foglio più della sua lingua contro il palato e i denti?

Sono ciò che di me non funziona?”.

Serrò la bocca e la imprigionò.

Una lingua. Ma è un oggetto una lingua?”.

Affondò gli incisivi contro la punta.

Ti supplico, funziona”.

Morse più forte.

Scrivi: sono una matita”.

Sul muro scrostato di vernice, sull’orizzonte che divideva il verde dal bianco, immaginò di disegnare una porta capace di aprirsi in un luogo lontano. La lingua iniziò a dimenarsi.

Perché qualunque cosa sono, sono chi vuole fuggire”.

Cercò di afferrare l’immagine di un oggetto che potesse vivere nell’illusione di sentirsi libero, qualcosa capace di sollevarsi ma rimanere ancorato al suolo. Sulle papille, simili a pistilli ardenti, comparve il nome dell’oggetto, che riusciva a innalzarsi nel cielo ma privato della possibilità di esplorarne i confini rispondeva solo al filo che ne dominava il movimento.

Prova a dirlo ad alta voce”.

Per Salvo, il filo era il calumo che non gli avrebbe mai permesso di lasciare il suo Mediterraneo. Lo dominava il timore che le sue ali di carta velina finissero macerate tra gli scogli del suo golfo.

Chiudi gli occhi”.

Le palpebre sbarrarono la vista.

Riaprili e guarda giù”.

Una luce fioca contornò gli angoli delle piastrelle di graniglia sotto le suole chiodate. Il legno del banco si sgretolò, svanendo in un cumulo di vapore. Il pavimento sprofondò nell’azzurro. Salvo aprì le braccia e le gambe, disteso prono nelle nuvole. Volava mentre uno spago arrotolato gli cingeva la vita. Dall’altro capo del filo, a terra, la mano di Gregorio lo trainava.

Imita le aquile, vola”.

L’angoscia lasciò spazio al sollievo di sapere che di qualsiasi paura fosse composto sarebbe sempre atterrato nel porto delle braccia di Gregorio.

Che oggetto sono?”.

Le parole rimasero strozzate, aggrappate all’ugola.

Parla”.

Da un conato fuoriuscì il roco suono di un’A. I denti morsero le labbra tremanti per domarle. Scandì una Q e in uno sputo venne fuori Uilone.

«Il muto sa parlare» qualcuno esclamò, mentre tutti gli occhi roteati verso Salvo erano sbigottiti.

 

Nero su bianco, nessun segno di correzione. Eppure, strappò la pagina dal quaderno e passò un pomeriggio nel renderla viva, retrocedendo in un ricordo felice dove le mani paterne insegnavano a fare gli origami.

Salvo si sentì un codardo – anche se corse da Gregorio svelto, senza riprendere fiato o scrollarsi la ghiaia che dentro le scarpe tagliò la pelle – perché la forma di aquilone in cui piegò il tema era per nasconderne le parole, per dargli il tempo di gesticolare di aprirlo dopo, non adesso.

Quando sarai solo”.

E se non avesse capito, intento a drizzarne le pieghe, sarebbe fuggito.

Gli sedette davanti, alle sue spalle via Paradiso.

La nostra casa”.

Sentì la carta bagnarsi sotto i polpastrelli rifugiati dietro la schiena. Percepì il peso delle parole come fossero diventate sassi. Quando l’amico intuì che Salvo nascondeva qualcosa si gettò su di lui e rotolarono nell’erba come due felini.

«È per me?» domandò facendo volare l’origami mentre l’indice di Salvo roteava come un mulino. Gregorio scorgendo l’inchiostro tra le fessure iniziò ad aprirlo.

Ora, fuggi”.

Salvo non si mosse, osservò il suo sguardo srotolare il filo delle frasi. Affossò le dita nel terreno sperando che venisse inghiottito, trascinato giù dalle radici degli alberi.

«Oh! È molto…bello» esclamò.

Le mani di Salvo uscirono dalla terra, ebbe l’impressione che tutto il corpo fosse venuto allo scoperto, emerso dal sottosuolo. Gregorio lo abbracciò e rimasero avvolti l’uno nell’altro. Era diverso dall’ultima volta al campanile. A Salvo sembrò che ora fosse Gregorio a cercarlo, ad ancorarsi alla sua carne assaporandone l’odore per rilasciarlo in fiato caldo che gli fluì dentro il colletto. Salvo bramò i contorni della sua bocca mentre si allungò verso di loro, ma Gregorio abbassò la testa appoggiando il tema sulle cosce di Salvo. Il tempo, prima rallentato, accelerò e Salvo precipitò nella velocità di quei secondi. Tutto divenne offuscato, solo una frase acquisì senso: «Ti voglio tanto bene Salvo» e si ripeté all’infinito come un basso continuo nella sonorità di quelle parole che si ingarbugliavano nella sua mente.

Anch’io ti voglio bene tanto, tantissimo”.

«Tienilo tu, mia madre è una ficcanaso, non posso tenerlo io».

Anch’io ti voglio bene tanto”.

«Fraintenderebbe».

Anch’io ti voglio bene”.

«C’è una ragazza che mi piace».

Anch’io ti voglio”.

«Le ho dato persino una lettera, certo non bella come questa. Le ho scritto che le sue labbra hanno il colore del pettirosso. Ho ripensato alle parole di tua madre, quando cercavamo d’acchiapparli. Ti ricordi?».

“La loro bellezza sta nel desiderare di toccarli“.

Gregorio si sentì sciocco per avergli chiesto di parlare e notando che gli occhi di Salvo sbiadivano dentro una foschia di grigiore, per farlo rinsavire lo afferrò da un braccio.

«Ti prometto che quando avremo diciotto anni andremo via di qua» disse, mentre faceva volare l’origami sopra le loro teste.

«Andremo ad Adelaide, da mio zio, e sarai libero».

Salvo pianse nascosto nell’incavo delle scapole dell’altro.

 

Il cuore di Salvo divenne infermo quando quelle labbra si presentarono nel nome di Maria.

Nei mesi successivi Via Paradiso divenne il luogo in cui Gregorio segretamente le possedeva.

Otto anni dopo il tempo sembrava non averle mai baciate, mantenevano il loro calore che scaldava così tanto il cuore del suo amico da indurlo a scappare insieme a loro, senza di lui.

Rimase il ricordo di una promessa divenuta una lama sospesa sopra la testa di Salvo, pronta a tagliarlo in due ogni qualvolta prendeva coraggio per alzare lo sguardo verso l’alto e guardare in faccia la realtà: Gregorio aveva preferito Maria e lui sarebbe rimasto prigioniero di Lumeca.

Solo di notte gli era concesso fuggire verso le vie sconosciute di Adelaide, che si ergevano lungo i confini dei propri sogni o degli incubi quando l’intera città veniva sommersa e corrosa dal rosso delle labbra di Maria. L’ultima volta che Salvo vide quel rossore non smise di brillare, persino nell’oscurità di Via Paradiso, quando lei lo aspettò per i risparmi promessi a Gregorio, il giorno prima della partenza.

 

Lo avevi promesso”.

Premette il palmo della mano sulla lastra di vetro. Osservò i margini del corpo appannati nel vapore.

A me cosa rimane?”.

Provò a cercarlo nell’interno, perdendosi nel buio delle pupille in attesa di un bagliore, un segno che qualcosa dentro di lui era vivo, si muoveva e voleva uscire. Nulla arrivò, se non il diramarsi di venati torrentelli che bruciavano negli occhi. I tendini del collo si irrigidirono; la rabbia condensava nello stomaco e risaliva fino alla gola, strozzandolo, impedendogli di respirare. La schiena nuda scivolò lungo il muro calloso. Fermò la testa tra le ginocchia e si batté tre colpi sul cranio che risuonarono in un solo rumore all’interno:

Se non puoi ammetterlo almeno nasconditi”.

Avrebbe voluto strappare la propria pelle. Spogliarsi di quell’estraneità. Di quel vestito soffocante eppure largo, troppo per le sue misure; come un bambino che naufraga nelle scarpe paterne. Quel vestito era il corrispondente dell’essere uomo e di ciò che suo padre aveva tentato di inculcargli: mascolinità, virilità, bestialità.

Un oggetto nero sul comodino sembrava attrarlo a sé.

Le sue labbra hanno il colore…”.

Lo svitò e si avvicinò allo specchio e colorò il riflesso delle sue labbra, chiuse gli occhi e lo baciò.

Del pettirosso”.

Le labbra si infiammarono.

Sobbalzò quando il padre aprì la porta. Gualtiero corrugò la fronte e il viso si serrò nella bile per poi aprirsi in una chiassosa risata. Emise un urlo, formato da due suoni, «Lììì», fischiò e come un cane al richiamo comparve la moglie alle sue spalle.

«Hai visto Lisè, le comari avevano proprio ragione».

Strinse il mento di Salvo tra le dita.

«Fino all’ultimo giorno di gravidanza sostenevano che avresti partorito una femmina. Tu eri felice. Ma con le figlie femmine non ci fai nulla. Le fimmine sono buone a diventare solo mogli, suore o puttane. Quando è nato maschio ti ricordi che soddisfazione? Poi, con gli anni ho avuto il sospetto che le maldicenze erano un avvertimento».

Gli afferrò la nuca e gli sussurrò: «Tu sembri masculu ma dintra si na fimmina».

Lo strattonò all’indietro e gli batté la testa contro lo specchio: una, tre, cinque volte. Con la rabbia con cui si scuote un oggetto malfunzionante. Per Gualtiero, Salvo era questo, un qualcosa di difettoso che andava riparato con l’unica maniera che il nonno aveva insegnato al padre e lui voleva imprimere nel figlio.

Lisetta non aveva mai osato imporsi agli uomini, ma si lanciò contro Gualtiero per dare a Salvo la possibilità di liberarsi.

«Vai via» urlò disperata.

Salvo correndo abbandonava a ogni passo pezzi di sé. Arrivò in via Paradiso così frantumato da non riconoscersi più, reso cieco dagli aghi della vergogna.

 

Salvo si dimenò tenendola salda a sé con una voracità che le sembrò di affogare dentro la carne di lui. Più si insinuava e più lei scivolava via, altrove. Non percepì nulla se non il gelo sulla pelle nuda. Maria in via Paradiso sentì entrare l’inferno. Labbra incendiate di rosso si accanivano contro le sue, ormai viola. E quando la lasciò, barcollando all’indietro, non le parve più un ragazzo ma una bestia malnutrita e affamata; adesso china su sé stessa in lacrime, illuminata solo dalle stelle della notte di San Lorenzo.

 

Si sorresse al pomello d’ottone quando vacillò sulla soglia. Chiese timidamente permesso e le suole pulite sembravano fargli cenno di avanzare e confermargli che era nel posto giusto. Nel mezzo delle scarpe nere, indicanti le undici e dieci, scorse la fronte pallida accarezzata da dita strozzate dal rosario. La stanza era piena di busti che si stringevano, mani intrecciate in preghiera, piedi inchiodati intorno al letto. Si rifugiò in balcone. Lì notò gli incavi delle ginocchia premuti contro l’inferriata e le ossute gambe penzolanti. I fogli sui quali si scioglieva la cera dei pastelli nell’afa di agosto. Un pettirosso planò sul poggiamano e le sottili braccia si estesero per catturarlo, ma con gli arti inferiori incastrati la bimba si ribaltò all’indietro e il tonfo fu seguito dal battito d’ali in fuga. I capillari del viso si gonfiarono diramandosi sulle gote pallide e le iridi annegarono traboccanti di tristezza.

«Su piccirilla non piangere, la loro bellezza sta nel desiderare di toccarli non nel possederli» disse chinandosi per aiutarla.

«Se ti va possiamo farne uno di carta».

«Che vola?» domandò la bambina «Che vola in cielo da lui?» e puntò lo sguardo verso l’interno.

Abbozzò un sorriso e annuì, prese la carta e iniziò a piegarne gli angoli.

«Puoi scrivere che gli voglio tanto bene e che mi manca molto?» sussurrò porgendogli un pastello nero.

Lui l’afferrò e iniziò a scandire le lettere stringendole tra i denti.

«Come lo firmiamo?».

«Adelaide».

«Da Adele?».

«No, Adelaide! Mi chiamo come una città magica dove la mamma dice che andremo presto».

Lui finse di correggere e nascose i segni sotto le ali dell’origami, mostrandoli solo agli occhi cerulei e analfabeti come i suoi.

«È bellissimo. Chiamo la mamma per farglielo vedere».

Avvolta dal fresco della stanza emerse una donna, i lunghi fili a spirale della tenda ne delineavano le forme, scendendo su di lei come boccoli d’oro arrugginiti.

«Signora Maria, condoglianze per suo marito Gregorio».

Lei accennò un sorriso mentre Adelaide le tirava i lembi della gonna.

«Non far portare via papà, sveglialo mamma, deve venire con noi nella città magica prima di addormentarsi».

Maria si chinò per aggiustarle il fiocco del vestito.

«Ti aspetto dentro, saluta il signore».

La bambina lo abbracciò e lui si inginocchiò bisbigliando tra i folti ricci «Quando giocherai con il tuo origami usa anche questo».

Estrasse dalla tasca un foglio.

«Così voleranno insieme».

Accarezzò per un'ultima volta la parola aquilone ormai sgualcita e seguendo linee già tracciate compose un altro origami. Adelaide si drizzò sulle punte per dargli un bacio sulla guancia.

Hanno gli stessi occhi”.

Poi, sparì.

Le labbra uguali”.

Gualtiero rimase a osservare Lumeca al crepuscolo, amara come il veleno che scorreva in quelle strade, colma di piedi nudi pronti a soffrire dietro al loro Santo, lo stesso veleno che tentava di estrarsi dal cuore. Quello che aveva ridotto Salvo, suo figlio, in polvere nelle fiamme in via Paradiso.

 

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