Nella sua vita, Pepi aveva fatto di tutto per andarsene da Altomolino, eppure non c'era mai riuscito. La monotonia della provincia gli era sempre parsa stretta, sognava la città, le altre nazioni, le lingue straniere, il mondo, ma a parte sporadiche e poco appaganti vacanze la sua esistenza restava legata al paese dove era nato e cresciuto.
Sul punto di rassegnarsi all'idea, pensò di trovare una sua dimensione quando gli si presentò l'occasione di rilevare la cartoleria del vecchio Enzo. In quel locale – che nel paese fungeva da cartoleria, edicola, libreria, merceria e finanche deposito postale – Pepi ricordava di aver vissuto da bambino momenti di grande felicità, quando i suoi nonni gli regalavano qualche moneta e lui andava subito a investirle in fumetti, figurine e, se c'era, un giocattolo. Non era così ingenuo da pensare di poter rivivere le lontane sensazioni infantili attraverso il mero possesso di quelle stesse mura, ma in un certo modo credeva che così avrebbe chiuso un cerchio. Inoltre con la sua fidanzata Sonia stavano progettando di andare a vivere insieme, magari il matrimonio, e una attività stabile poteva rappresentare un buon viatico per il futuro. Poi Sonia, andando una volta in città per sbrigare certe noiose faccende burocratiche, conobbe un vivaista e se ne innamorò, ma questa è un'altra storia.
Fatto sta che Pepi rimase solo con la sua cartoleria, edicola, libreria, merceria, saltuario deposito postale. E lì scoprì cosa volesse dire davvero la noia. Le persone passavano sempre nel negozio, anche solo per fare due chiacchiere, e per quanto a lui certo non dispiacesse – in caso contrario le sue giornate sarebbero state davvero disperanti e i suoi affari miserrimi – vedere sempre le medesime facce e fare i medesimi discorsi riguardanti il calcio, il meteo, la politica, i bei tempi andati, tutto questo sembrava ancora più opprimente senza la possibilità di allontanarsi da quella manciata di metri quadri.
Così lo colpì come un'epifania quel muro di cartongesso che, una mattina, si sfaldò nel piccolo scantinato facente funzione di magazzino, scoprendo alla sua vista una vecchia libreria in buone condizioni. Pepi vi trovò decine e decine di volumi – all'incirca due centinaia, dichiarò dopo un conteggio approssimativo – scritti a macchina su carta semplice e rilegati alla meglio. Forse sarebbe stato più giusto chiamarli quaderni, ma non era poi così importante, perché tanto bastò per mettere in moto l'intero paese.
Pepi sfogliò i quaderni: erano scritti in antico dialetto altomolinese, un linguaggio così datato da non essere ormai più compreso nemmeno dai pensionati che giocavano a carte al bar. Dai cognomi dei protagonisti di quelle pagine – cognomi così comuni lì nella valle del Citro, per quanto alcuni fossero citati solo con le iniziali – intuì che vi si raccontava di persone della zona. La domanda era però un'altra: chi aveva scritto tutte quelle storie? Il maggiore indiziato era ovviamente il vecchio Enzo, ma si era trasferito a vivere in Germania da una sua figlia e non rispondeva ai messaggi.
Al contrario del vecchio Enzo, i rimanenti abitanti di Altomolino si mostrarono entusiasti del ritrovamento – la povertà di eventi che contraddistingueva il paese certo ebbe un peso. Giovani e anziani, bambini e sciure, impiegati comunali e perdigiorno, operai e giocatori di scala quaranta, chiunque si complimentava con Pepi, come se farsi crollare addosso un muro potesse essere considerato un merito. Il sindaco gli conferì una targa d'ottone in una cerimonia pubblica, e vennero addirittura organizzati degli incontri dove si leggevano i quaderni, anche se nessuno capiva niente visto che il dialetto antico rimaneva ignoto a tutti.
Fran, la più bella di Altomolino, più bella anche di Sonia, lo stregò con una manciata di sorrisi, e in un moto d'entusiasmo Pepi comunicò alla popolazione che sarebbe stato suo compito tradurre i quaderni in una lingua corrente, che fosse l'italiano o l'inglese o almeno una forma di dialetto più moderno e comprensibile. Un lungo, caloroso e sincero applauso accolse l'annuncio.
Per un paio di giorni a Pepi sembrò di vivere su una nuvola, benvoluto da tutti, al centro delle attenzioni dell'intera comunità, non indifferente alla sensuale Fran. Passata quella sbornia iniziale, arrivarono i problemi. Che poi era essenzialmente un singolo problema, però molto grande: lui di quella lingua arcana dattilografata sui quaderni non comprendeva nulla.
Nemmeno i più anziani poterono aiutarlo: quelle parole erano loro tanto estranee quanto il cinese mandarino, la fisica quantistica o un contratto di telefonia mobile. Alcuni, perlustrando le rispettive cantine, recuperarono certi vecchissimi libri scritti nel medesimo idioma ma, restando anche quelli incomprensibili allo stesso modo, non erano stati d'aiuto. Pepi aveva provato a studiarli, tanto da intuire qualcosa, ad esempio che “sa” significa “lui”, “to” sta per “lei”, e “naler” corrisponde al verbo “andare”, probabilmente – probabilmente, certezze non ve n'erano.
Gli riuscì persino di contattare il vecchio Enzo, che però spiegò che nemmeno lui sapeva niente – né del dialetto né dell'autore dei testi – e negli anni si era limitato a tenere in ordine i quaderni evitando fossero divorati dalle tarme.
Pepi arrivò a maledire il momento in cui aveva ritrovato gli scritti, il momento in cui lo aveva comunicato ai suoi compaesani, e soprattutto il momento in cui si era offerto di tradurli. Adesso tutti aspettavano dei risultati da lui, e non poteva più tirarsi indietro. Le persone che passavano a salutarlo in cartoleria non gli parlavano più infatti del tempo, della politica, di pallone, gli chiedevano solo come andava coi quaderni, che a Castrolivo si stavano rodendo il fegato dall'invidia, che a Sancalliano erano certi che avrebbe fallito ma lui gliel'avrebbe fatta vedere, che a Pegliodoro sostenevano non ci fosse niente di vero – una montatura per attrarre l'attenzione dell'intera valle.
Facendo buon viso a cattivo gioco, Pepi rassicurava tutti: le traduzioni sarebbero arrivate presto. Pensando alla fiducia che gli altomolinesi riponevano in lui, pensando al rosicamento degli abitanti dei paesi vicini, pensando al sorriso dolce e attraente di Fran, profuse nell'impresa il doppio, il triplo delle forze che aveva impiegato per qualsiasi altra cosa nel resto della sua vita. Eppure tutte quelle ore chino sulle pagine non portarono a niente o quasi: poche righe tradotte in una settimana – pur passando da un quaderno all'altro nella remota speranza di trovarne uno comprensibile. In un mese aveva decifrato a malapena una pagina, e sapeva bene peraltro che si trattava di una definizione molto generosa, non avendo prova che la sua versione fosse corretta.
Le righe da lui trascritte si basavano su una traduzione approssimativa e casuale, parole che somigliavano ad altre e, quando la frase appariva abbastanza compiuta, riempimento degli spazi vuoti con la logica e la sintassi. Ma anche a ipotizzare che tutto questo avesse un senso – e non lo aveva – Pepi calcolò che con quel ritmo avrebbe impiegato circa trecento anni per portare a termine il suo compito.
Alla fine, avvinto dalla disperazione, ebbe un'idea, e si sa che spesso è il ritrovarsi a sguazzare nello sprofondo a spingere l'essere umano verso nuovi e insperati traguardi. Come si trattasse di un'illuminazione, capì che doveva cambiare metodo, senza fossilizzarsi sul testo – del resto nessuno conosceva il significato di quelle parole. Avrebbe riscritto lui i quaderni, a seconda di come gli sembrassero più convincenti le storie per quei personaggi. Si ricordò pure di una frase pronunciata dal vecchio Enzo, quando gli aveva chiesto se davvero quelli citati nelle pagine fossero gli abitanti del paese: ragazzo, è poi così importante sapere se una storia è vera o è inventata?