Cara figlia
non so com’è che ho il coraggio di scriverti, credo perché è venuta la mia vicina Giulia, che ha la tua età, e ti ho pensata, cioè ho pensato com’era bello se invece della Giulia veniva qui a portarmi da mangiare mia figlia Delia, perché oggi la Giulia mi ha portato un bel pezzo di stracotto col purè. Una carne tenera che non ti dico, e abbiamo fatto quattro chiacchiere. E dopo mi è venuta tanta voglia di te, che non ho resistito. Lei vive da sola, ma è fortunata che ha sempre della gente che va e viene da casa sua. Lo sento dai rumori del pianerottolo. Io delle volte mi siedo dietro la porta e ascolta la vita che c’è di là. Giulia mi sembra che ti somiglia e ti ho pensato. Io ho tanto tempo da pensare, perché sono sempre sola con la tivù. La tivù parla e io l’ascolto. Delle volte parlo con la tivù che sembro una che non ha più la testa. Ma non è vero, la mia testa è buona. Sono le gambe che non sono più buone e le mie amiche qualcuna non ha la testa, qualcuna non ha le gambe. Così sono sempre sola. Per fortuna che c’è la Giulia. La domenica delle volte viene mio figlio Augusto a farmi vedere le bambine, che sono belle e crescono in fretta. Anche lui mi porta da mangiare delle cose che le compra in rosticceria, ma dice che me le manda sua moglie. Non è vero, perché sua moglie non mi viene mai a trovare e non cucina per me. Anzi, non credo che cucina, perché lavora nell’assicurazione e ha sempre tante cose da fare. Così la domenica mangio bene, perché i pasti degli altri giorni sono quelli che mi porta il comune, che non sono come quelli che facevo io. Io non ho più la forza di cucinare, perché bisogna stare in piedi e poi Augusto ha paura che dimentico il fuoco acceso. Non vuole che cucino. Io adesso ho solo lui, perché cinque anni fa mio marito è morto di cancro, che fumava dalla mattina alla sera.
Tu Augusto l’hai visto il giorno della tua comunione, che lo tenevo in braccio, quando sono venuta alla tua festa, che il tuo babbo e la Luciana erano nervosi, per via di cosa dice la gente. Ma io volevo che una volta vi vedevate. Forse non lo ricordi. Neanche lui ti ricorda. Sa che ci sei, ma non dice niente, perché è uno che parla poco. Gliel’ho detto dopo che è morto mio marito. A mio marito non gliel’ho mai detto. Le volte che sono venuta a vederti dicevo che andavo a trovare dei parenti, che poi era la verità. A lui non gli piaceva muoversi da Torino, al massimo facevamo una passeggiata al parco o a Rivoli. Lui gli piaceva guardare la partita al bar con i suoi amici. Ma non mi posso lamentare, era un buon uomo e ha lavorato tanto, come me. Così Augusto l’abbiamo fatto studiare e ora ha un buon lavoro alla Regione. Forse glielo dovevo dire a mio marito. Ma non trovavo mai come dirlo. Io sono una che non ci sa fare con le parole, e neanche con la penna. Ma spero che tu mi capisci. Anche a te ti volevo sempre parlare, ma non ce la facevo. Poi pensavo che era meglio che non ti dicevo niente, così non sai e stai meglio e non mi pensi male. E poi lavoravo sempre e non avevo tempo di pensare e ora ho tanto tempo che posso anche scriverti. È meglio che ti scrivo, così ascolti, senza dirmi subito delle cose cattive. E può darsi che alla fine capisci. Ma bisogna che ti spiego da prima.
Io ti ho dato due cose, anzi tre. La mia carne, la vita, il nome che porti. Nell’orfanotrofio dove sono rimasta fino a dodici anni avevo un’amica che si chiamava Delia. Rideva sempre. La minestra puzzava di marcio e rideva. Puliva il dormitorio che non finiva mai e rideva. Si pigliava la punizione di un’altra e rideva. Io una così allegra, non l’ho mai più vista nella mia vita. E mi voleva bene. Coraggio mi diceva, quando mi vedeva triste, che noi orfane siamo figlie di principesse. Lei era figlia di una prostituta, che la veniva a trovare una volta al mese. Io ci stavo male, perché la mia principessa non si era mai fatta viva, e non la conoscevo, e non sapevo chi era.
Allora quando sono stata incinta, che non sapevo come fare, avrei sbattuto la testa nel muro, ma di abortire no, non ci ho proprio pensato, perché mi sembra che vivere è meglio che niente.
Allora ho deciso due cose: che te non ci finivi all’orfanotrofio e che se eri femmina ti chiamavo Delia.
Antonio ti voleva chiamare Adelina come sua madre, ma sua madre era stata una donna disgraziata e io non volevo che tutta quella disgrazia passava addosso a te. Io gli ho detto accetto tutto quello che vuoi, che mio figlio non è mio figlio, ma se nasce femmina si deve chiamare Delia. Non ha detto più niente. Quando sei arrivata lui filava già la Luciana, e non stava bene che si sposava una serva, perché io ero stata presa in casa da sua mamma come serva, e in più si beccava le quattro lire dell’assistenza. Se lasciava la tabaccaia per sposarsi la serva la gente parlava male e rideva di lui e si perdeva i clienti, che aveva cominciato a fare l’avvocato. Ci voleva una moglie adatta. Ma era con me che a Antonio gli veniva bello fare l’amore. Eravamo cresciuti insieme e ogni tanto anche a me mi veniva di fargli un po’ di compagnia. Ti sembrerà strano ma a me mi faceva anche pena perché era un uomo che era sempre solo che non si fidava di nessuno. Lui diceva che la gente è fuori solo per fregarti e che tutti i signoroni del paese non gli perdonavano che era il figlio di una lavandaia, che si poteva confidare solo con me. Però, se devo essere sincera, era un altro che mi piaceva sul serio. Dopo ti devo dire una cosa di quell’altro. Ma ora ti spiego di Antonio. Lui non voleva che sua figlia diventava una disgraziata e non lo volevo neanche io. Così si è sposato subito e la Luciana è stata d’accordo di fare finta che era tua mamma, basta che io sparivo. È stato bravo a sistemare tutto. Con la scusa che aveva una zia vecchia a Milano, la zia Lina, sono stati fuori un po’ di mesi. Io ho partorito in casa sua e dopo registrarti con un'altra mamma non c’è voluto niente. Antonio ha sistemato anche me. Mi ha dato un po’ di soldi e mi ha aiutata a trovare un lavoro a Torino in una fabbrica di liquori, perché i padroni li conoscevano certi industriali del paese che Antonio li aveva come clienti. In fabbrica ho conosciuto mio marito Giuseppe, che è stato un buon marito. Come vedi la mia vita è andata bene e anche la tua, perché Antonio mi aveva fatto sapere che ti sei laureata, che hai un bel lavoro, che hai avuto un bambino, che è la felicità di Antonio. Allora, quando muoio, io muoio contenta. Ma non devi pensare che io ti ho lasciato ad Antonio per i soldi, perché non è la verità. La verità è che se ti tenevo con me, diventava che io non ti potevo dare una vita tranquilla. Quando ero giovane io una ragazza madre e la figlia di una ragazza madre erano qualcosa che la gente ci chiacchierava sopra e gli dava il tormento. Non era come oggi che puoi fare quello che vuoi e va sempre bene.
Io le sapevo queste cose. A me in paese tutti mi chiamavano la bastarda e sono cresciuta che non valevo niente e mi vergognavo e dovevo tenere la testa bassa con tutti. Avevo la colpa che non avevo i genitori e avevo paura che questa maledizione arrivava anche a te. Solo la mamma di Antonio e Antonio mi chiamavano Pasqualina e quando qualcuno mi diceva bastarda loro dicevano si chiama Pasqua, perché è nata il giorno di Pasqua. In realtà non lo so quando sono nata, ma mi hanno messo alla ruota il giorno di Pasqua e così mi hanno dato quel nome e il 12 aprile come data di nascita, che quell’anno la Pasqua cadeva il 12 aprile. L’Adelina, la poveretta, non era cattiva, anche se mi dava dei tocchi in testa quando il bucato non era come voleva lei, perché lavorava per i signori, che il bucato lo volevano perfetto. Aveva delle mani secche che sembravano fatte nel legno e piene di geloni, con la pelle che era una grattugia. I suoi tozzoni mi lasciavano intontita, ma non era cattiva. Era morta di fatica e di disgrazie: quattro figli li aveva persi in guerra. Diceva sempre che era una fortuna che Antonio era troppo piccolo per andarci anche lui, e poi era bravo a scuola, così con la pensione che le hanno dato per i figli morti e i miei quattro soldi dell’orfanotrofio, l’ha fatto studiare. Antonio l’ha sempre saputo che se era diventato avvocato era anche per la mia fatica e il mio sussidio, così quando ho avuto bisogno io lui mi ha sempre aiutata. Anche la povera zia Lina, l’aveva aiutato. Perché in casa era solo l’Adelina che portava i soldi.
Suo marito era buono soltanto a bere ed era come se non c’era, che quando è morto non se n’è accorto nessuno, se non in meglio. Perché quando beveva era buono solo di fare a botte con chi capitava, e allora lo andavamo a prendere dall’osteria, che ci venivano a chiamare. Ma quand’era in casa ci picchiava noi, perché l’avevamo portato via dall’osteria. Solo Antonio non aveva il coraggio di toccarlo, perché allora l’Adelina si ribellava. Si metteva in mezzo come una tigre ed era capace di prendere in mano il coltello.
Tu non puoi immaginare che vita ho fatto, che quando sono morti i vecchi e Antonio mi ha presa con sé, che ormai lavorava e aveva cominciato a guadagnare, mi è sembrato di stare in paradiso. E se non succedeva che restavo incinta, io rimanevo tutta la vita a fare la serva di Antonio e crescevo i suoi figli. Forse è stato meglio così, perché mi sono fatta la mia vita e ho avuto tante soddisfazioni. La vita è quella cosa che delle volte ti fa piangere, ma delle volte ti prende bene. Io con te credo che sono stata brava.
C’è ancora una cosa che ti voglio dire, cara figlia. Perché le cose o si dicono tutte o piuttosto stai zitto. Ma dopo che te la dico, non so se ho il coraggio di spedirti questa lettera. Intanto la dico.
Quando abitavo con Antonio mi piaceva un altro. Le cose erano andate così. Ormai Antonio stava tutto il giorno nello studio e io badavo alla casa, lo tenevo pulito, preparavo da mangiare. Lui voleva sempre che mangiavo con lui, perché mangiare da solo gli metteva tristezza. Ma stava zitto, che era pieno di pensieri. Io avevo tanto tempo che non avevo niente da fare e andavo a fare la spesa, qualche volta mi infilavo al cinema. Andavo anche a pulire la chiesa di San Luca, gratis. Lo facevo per l’anima dell’Adelina, che si meritava il paradiso, anche se l’avevo sentita bestemmiare. Antonio non voleva che andavo in giro vestita male. Diceva mi screditi, che gli facevo fare la figura del tirchio, che gli facevo perdere i clienti. Mi aveva dato dei soldi per farmi qualche vestito. Allora andavo nel negozio di Zorzi, quello in centro, e al banco ci stava sempre il figlio Giovanni, che era proprio un bel giovanotto. Così gentile e sorridente e allegro che mi ricordava la Delia. Gli piaceva scherzare e mi faceva vedere le stoffe belle che quasi non avevo il coraggio di toccarle. A lui non gli importava chi ero e mi faceva sentire come le altre. E così, parla un giorno, ridi l’altro, un pomeriggio siamo andati al cinema. Non mi ricordo la storia, ma ricordo che era un film pieno di canzoni d’amore con lui e lei che si baciavano sempre. Ed erano giovani e belli, e anche io mi sono sentita così, anche se bella non lo sono mai stata. Ma nel mio vestito nuovo, col colletto di pizzo e i tacchi, facevo la mia figura. Così abbiamo iniziato a baciarci anche noi. Aveva delle labbra belle e dure, che era un piacere sentirle in bocca. Al cinema allora non ci si andava per il film. Ci si andava per la sala buia, che al buio si potevano fare quelle cose senza che nessuno vedeva. Con quel Giovanni mi sono vista qualche volta finché non sono rimasta incinta. Io glielo volevo dire cosa era successo, ma proprio il pomeriggio che mi decido e entro in negozio, lui mi viene incontro tutto allegro, con una ragazza per mano e mi dice Pasqualina, vieni, ti presento la mia fidanzata. Ci sposiamo in autunno. Tu hai tanto gusto, aiutala a scegliere il corredo.
Io sono tornata a casa col cuore nei piedi. Mica potevo sperare che uno così bello e così allegro si sposava la bastarda. Però sarebbe stato bello. Avevo il cuore nei piedi e mi chiedevo adesso come faccio? E se il bambino che aspettavo non era di Giovanni ma di Antonio? Avevo il dubbio. Ho pensato che Antonio aveva una coscienza e non mi lasciava nei guai, che trovava una soluzione. Una sera sono scoppiata a piangere, perché veramente non ci dormivo più e avevo smesso di mangiare, che Antonio mi chiedeva sempre ma che hai? Ti stai ammalando? Quella sera sono scoppiata a piangere e gli ho detto Antonio, sono incinta e lui prima è sbiancato come uno straccio, poi si è messo a passeggiare per la stanza, poi mi ha guardata con quegli occhi piccoli piccoli che faceva quando aveva la preoccupazione, e ha detto troveremo una soluzione, non ti lascio nei guai. Antonio era buono, era uno che se c’era bisogno non si tirava indietro, e mi è dispiaciuto tanto quando ho saputo che era morto. Io ero sicura che con lui eri al sicuro. Lui ti ha voluto bene, e anche Luciana ti ha voluto bene, che ce l’aveva con me per paura che ti volevo indietro.
Ma quando ti ho vista a quattro anni, che sgambettavi come una lepre, coi capelli fini come la seta e la bocca arricciolata in su, ho capito subito che avevo capito bene.
Non so figlia cara, se dopo quello che ti ho raccontato avrò ancora il coraggio di spedirti questa lettera. È meglio che sai la verità o che continui a vivere la tua vita così? È una verità bella o brutta, quella che ti racconto? A me sembra bella, ma tu?
Per ora metto questa lettera nel cassetto del mobile in cucina. Quando mi decido, la allungo alla mia vicina o ad Augusto e la faccio imbucare.
Sai Delia, c’è un’altra cosa che voglio dirti. Io tante volte ho pensato che sarebbe bello che un giorno tu vieni qui e ci possiamo guardare, e tu non sei arrabbiata e siamo come due amiche, ma più che amiche. Che non c’è bisogno di parlare, però siamo vicine e vedi le mie cose e io vedo le tue. Che tu lo capisci che io ho fatto proprio come andava fatto e che ti ho dato la vita migliore che potevo. E ci sentiamo contente. Io lo capisco che non è possibile. Ma quando uno è vecchio come me vorrebbe che tutta la sua vita si mette a posto, che ogni cosa ha il suo posto e sta in pace. Ma la vita non vuole. Delle volte la vita sbaglia.
Tua madre Pasqua.