Beppe e i suoi amici escono dalla jeep a suon di sbadigli, in ritardo di un’ora. Vito li osserva stritolando il volante; l’alba è in agguato, bisogna darsi una mossa.
Discendono il pendio verdeggiante, in fila. Vito guida il gruppo in divisa da cacciatore, come Beppe che si raschia il sedere di continuo a causa delle emorroidi. Loro cacciano da anni in questa zona, sempre soli. L’abbigliamento degli altri invece è inadeguato, non sembrano parte di una squadra, e hanno il piglio di chi fa una scampagnata, iniziano perfino a sghignazzare.
«Smettetela, questo è uno sport serio» li riprende Beppe, che ha il compito di assicurarsi che i suoi compagni di bevute non creino problemi; Vito gliel’ha fatto ripetere tre volte prima di accettare la presenza di sconosciuti.
«Sport? Abbiamo dei fucili, questa è una guerra» gli risponde quello dietro di lui, il più giovane della compagnia.
«Infatti, siamo dei soldati» insiste l’ultimo.
«State zitti, altrimenti non beccheremo niente» ribadisce Beppe, anche se gli è già chiaro che rimproverarli è fiato sprecato, avrebbe dovuto lasciarli marcire nel tedio domenicale di cui si lagnano sempre.
Ma ormai non si può tornare indietro, non gli resta che limitare le loro idiozie per evitare che irritino troppo Vito. Quando lui si arrabbia fa paura.
«Ok, però non ho capito una cosa. Perché si chiama battuta di caccia se non si può scherzare?» domanda il ragazzo. E l’altro si mette a ridere.
Vito si volta di scatto e considera seriamente di sparare a quegli stronzi.
Più avanti, appena la boscaglia s’infittisce, tutti tacciono su ordine di Vito, avanzando tra scricchiolii di foglie secche e sparuti cinguettii. Il tempo trascorre senza avvistamenti di animali da cacciare.
Finora è stata un'arida stagione venatoria, al terreno manca la pioggia, ne risente anche il profumo nell’aria. Vito sa che la fauna dev’essere assetata, perciò conduce il gruppo verso un ruscello, dove finalmente scorge una femmina di cervo intenta ad abbeverarsi. Fa segno agli altri di spostarsi su un fianco, lui va su quello opposto.
Quella preda è un bersaglio troppo facile per soddisfarlo, preferisce che sia Beppe ad abbatterla, per metterlo alla prova; non gli riesce da mesi.
Punta sull’animale, prende la mira, trattiene il respiro, poggia il dito sul grilletto e immagina di perforarle il torace. Poi spara sulla quercia alla sua sinistra e quella guizza verso un’area in cui non ci sono alberi a proteggerla. Beppe e quei due fanno fuoco a ripetizione, esplodendo una raffica di colpi, ma il cervo galoppa illeso fino a scomparire.
Mi sa che la vista di Beppe è peggiorata, si convince Vito, forse dovrebbe fare un’altra visita oculistica, di certo così non è in grado di cacciare. Quegli idioti invece non avrebbero colpito un elefante in un recinto. Alla prossima occasione sparerà per uccidere.
Proseguono con le corde vocali annodate dall’imbarazzo.
Le ombre dei tronchi e dei rami intrecciati, del fogliame e delle rocce, dei frutti e dei nidi disegnano sul territorio grovigli di silenzio, che sono il linguaggio del bosco. Ma bisogna sapere ascoltare.
Vito non intende essere disturbato. Ordina di sparpagliarsi per restare solo.
Si mimetizza nell’isolamento boschivo. Origlia suoni selvatici, fiuta fragranze naturali, tasta il muschio sui massi, scruta chiazze di rugiada e di resina sulle cortecce, alla ricerca di tracce utili. È un superpredatore con artigli d’acciaio, in cima alla catena alimentare del proprio habitat.
Il sole è alto. Beve dalla borraccia e decide di scendere a valle, dove scova delle impronte. Le segue senza fare rumore, aggirando un fossato, e si ritrova davanti a un cervo maschio di circa due quintali che sta brucando l’erba. Vito si piega, accostandosi a un castagno, poggia il gomito sul ginocchio e imbraccia l’arma. Dito sul grilletto e respiro trattenuto, con il mirino che centra la testa della bestia, in mezzo agli imponenti palchi. Il cervo si raddrizza con occhi allarmati, forse sente qualcosa fremere nella vegetazione, mentre lui ne segue il movimento con la volata della carabina, pronto ad affrettare il colpo, finché uno sparo lontano infrange il momento e il cervo fugge via. Subito dopo echeggiano delle urla umane.
Abbassa la sua Horizon Wood calibro 308 Winchester e digrigna i denti. Poi balza in piedi per dirigersi verso quel frastuono che ha messo in salvo la preda, schiaffeggiando tutto ciò che incontra. Si fa largo tra le piante, oltrepassa cespugli, calpesta funghi; quelle urla sono sempre più vicine. S’inerpica su una gobba di terra ed ecco Beppe che si dimena al suolo con le mani sul volto, strillando come se andasse a fuoco. Più in là il ragazzo gli sta ancora puntando il fucile contro, a bocca spalancata.
«Che cazzo hai fatto?» sbraita Vito.
«Quel coso è sbucato fuori all’improvviso» dice a stento, come se qualcuno lo stesse strozzando.
Vito si accorge del fagiano senza una zampa che prova ad allontanarsi.
«Beppe non l’ho visto, non sapevo che era lì» aggiunge allo stesso modo.
«Non sei riuscito neanche a ucciderlo» replica lui che finisce il pennuto con una fucilata, facendo trasalire il ragazzo.
Tenta di esaminare la ferita di Beppe, ma quello non sta fermo e grida più forte di un’aquila. Chiede al ragazzo di bloccargli le braccia, deve ripeterlo con veemenza per farlo agire. Quando scoprono quel viso straziato, il colpevole rischia di vomitargli addosso: una guancia è lacerata, il naso è dimezzato, un labbro penzola e gronda sangue anche dalla fronte e da un orecchio. I pallini di piombo gli hanno strappato mezza faccia.
«Beppe, so che fa male, ma non morirai. Sei stato colpito di striscio» gli dice, sperando di spronarlo a resistere.
Quello riesce a dire che gli brucia tutto il viso, sputando le parole come può.
Rapidamente sciacquano parte degli squarci, lo fasciano con la camicia del ragazzo fatta a brandelli, lo sollevano dalle braccia e s’incamminano verso le macchine, più in fretta che possono, mentre il ferito guaisce e chiede aiuto. Incappano nel quarto predatore lungo un tragitto che pare infinito.
«Guarirai, sopporta il dolore, puoi farcela» lo incoraggia Vito, mentre quello gli sporca la tappezzeria dell’auto con il volto maciullato.
Potrebbe accompagnare Beppe in ospedale e raccontare che stavano cacciando, non è lui ad avere sparato. Ma i suoi amici non hanno la licenza di caccia, lo sapeva fin dall’inizio. Ci sarebbero conseguenze legali per tutti, oltre al ritiro della sua.
Non è in fin di vita, riflette, non c’è motivo di farsi prendere dal panico.
Intima a quei due di riportare la jeep a casa di Beppe, senza farsi notare, di lasciare le chiavi nella buca delle lettere e non dire a nessuno dove sono stati, né cosa è successo. Si occuperà lui di farlo curare da una persona fidata. E per fugare ogni dubbio fa afflosciare il ragazzo colpendolo al ventre con il calcio della carabina.
«Vi giuro che se uno di voi parla di questa faccenda con qualcuno gambizzo entrambi».
I loro sguardi atterriti dicono di avere capito quanto fa sul serio.
Torna dallo sfigurato. Gli toglie i bendaggi e lo guarda meglio. La pelle è dilaniata e mancano parti di carne; gli occorrerà la chirurgia plastica. Non gli importa, se l’è meritato, non doveva portarsi dietro quegli impediti, gli hanno rovinato la giornata.
Mentre gli ricopre la faccia Beppe prova a dire qualcosa, ma non riesce più a esprimersi, emette solo sbuffi sofferenti.
«Non capisco quello che dici. Resisti, te la caverai».
Quello è ostinato, vuole parlare. Forse c’è una O, e una E, e una T, oppure una D, e un’altra E. Vito scuote la testa con espressione enigmatica.
«Sta dicendo ospedale. Vuole essere portato là» suggerisce quello che non ha sparato.
«Che cazzo ci fate ancora qua? Levatevi dalle palle all’istante».
La strigliata li fa correre alla jeep e partire, sollevando una nuvola di polvere. In un attimo sono già spariti.
«Beppe, pensavo di dirtelo domani, ma a questo punto... la tua mira ormai fa schifo, con la caccia hai chiuso. Comprerò un cane, mi farà lui da spalla» e gira la chiave dell’accensione, senza esito.
La batteria è scarica, ha dimenticato di spegnere le luci di posizione. Prende a pugni il volante, il parabrezza, il cruscotto.
«È colpa tua, mi hai distratto con il tuo merdoso ritardo. Dammi il telefono, quei due devono ritornare a prenderci».
Beppe però non riesce a staccare le mani dalla faccia, sono incastonate nell’agonia. Così Vito gli fruga nelle tasche del giaccone e dei pantaloni, ma non lo trova.
«Perdio, l’hai perso chissà dove e io non ho i loro numeri. Adesso che facciamo?»
L’amico inizia a frignare, sforzandosi per ripetere la parola di prima.
«Piantala, non ti porto in ospedale, fai l’uomo» gli dice disgustato, ragionando poi sulla mancanza di opzioni: non può contattarli sui social, non ne conosce i nomi per intero e Beppe non è in grado di pronunciarli; dei suoi conoscenti nessuno si scomoderebbe per aiutarlo; da queste parti passa solo la forestale.
I fonemi storpi dello sfigurato imperversano su Vito che si sente in trappola, non sa cosa fare. E un corvo atterra sul cofano, lo fissa negli occhi e gracchia. Dietro quell’uccello più nero della mezzanotte il cielo è talmente limpido che dà fastidio. Una brezza leggera accarezza le chiome degli alberi. Non fa nemmeno freddo.