La madre dei tuoi figli
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La madre dei tuoi figli

 

Devi scegliere bene la madre dei tuoi figli.

Mi hai lasciato con queste parole alle porte dell’ospedale. Avevi uno sguardo che non ho saputo decifrare e non ti ho risposto niente. Nemmeno quando hai aggiunto: chiama tua madre, e te ne sei andato, il tacco della scarpa che risuonava sul marciapiede, senza voltarti, senza un cenno della testa, una minima scrollata di spalle e la sciarpa che ti è caduta di lato. L’ultima cosa che ricordo di te, mentre mi aggrappavo alla stampella e alla valigia pienissima, è il volo tempestoso che ha fatto la sciarpa a righe blu – la sciarpa che avevi al nostro primo appuntamento cinque anni fa, ricordi? – con una folata di vento, la stessa che mi ha sferzato il volto. Mi si sono ghiacciate lì le lacrime e non sono scese, piccolissimi cristalli di neve incastonati nei miei occhi scuri. Poi mi sono voltata, la tua figura già lontana nel parcheggio, e ho oltrepassato a fatica la muraglia a vetri dell’ospedale. Sono salita in ascensore, ho premuto il tasto per andare al secondo piano, sono arrivata al portone del reparto e, in un attimo, sono stata accompagnata nella mia camera. Mi è stato chiesto se avessi qualcuno. Ho tentennato, non ho saputo come rispondere. Poi, con l’amarezza delle cose evidenti, ho sorriso e mi sono strappata un "sono sola". Non so ancora come chiamarti, ma ho il tuo nome impresso sul petto, nel costato, fra un polmone e il cuore. Mentre tu cammini lontano, io ti inseguo col pensiero.

 

È notte. Le luci del reparto sono accese, ma quelle delle camere le hanno spente tutte. Io sono accanto a un bambino di tre mesi che è stato operato di idrocefalo. Piange, la madre lo difende chiedendo alle infermiere il paracetamolo ogni ora. “Non si può” bisbigliano loro. Io sono sveglissima e sento tutto. Il loro "non si può" lo collego alla mia vita. Non si può avere figli con una donna che sta diventando paraplegica per una siringomielia? Non si può far altro che mettere uno shunt che dal midollo va all’addome e sperare che duri, che il liquor scorra e le fibre nervose respirino di nuovo nello spazio della dura madre?

Chiedo del Lexotan. Ho iniziato a tremare. Anche la prima volta che ho fatto l’amore con te mi tremavano le mani. Tu me le hai prese tra le tue, giganti, e mi hai detto che la disabilità non la vedevi. Non ha importanza, dicevi.

Non si possono dire le bugie.

 

Sono le quattro e quarantasette di mattina. Ho paura? Non lo so, non sento niente. Mi chiedo se morirò. Hanno detto che la mia sopravvivenza non è garantita. L’anestesia. I polmoni che non funzionano. Il cuore tachicardico. Quel dolore sordo al ventre. Ma quello sei stato tu. Sono la prima della mattina perché si aspettano molte complicanze chirurgiche. Sono qui che stringo con un pugno le lenzuola e mi mordo la lingua perché vorrei vedere il tuo volto e parlarti di amore e valicabilità di tutti gli ostacoli, ma anch’io sento questo sapore ridicolo sulla bocca e taccio.

Un carrello dei medicinali passa nel corridoio; volto la testa di scatto. È la mia ora? Ma ancora non ti ho detto niente, non sono giunta alla fine del discorso.

Ti ho dato ragione, sempre. Quando camminavi più veloce e mi prendevi per mano, mi allacciavi con la tua forza e trascinavi il mio incedere claudicante. Sbrigati, facciamo tardi, e quel tuo "sbrigati" mi martellava le tempie perché io ero la colpa personificata in essere umano. Ti ho dato ragione quando mi spronavi a mangiare di più e smettevi di parlarmi se vomitavo. Ti ho dato ragione quando mi dicevi di coprire le cicatrici nelle serate in cui uscivamo con Giulia, Giorgio e i loro bambini. Sono piccoli, non devono vedere queste cose. Ti ho dato ragione quando facevo sesso con il dolore, ma le coppie così si comportano. Sacrificio per sacrificio. Ti ho dato ragione quando ti sussurravo, negli ultimi mesi, "ho paura" e tu mi rispondevi che anche un paraplegico vive nel mondo. È vero, è tutto vero. E tu hai ragione perché sono io l’uccello impuro del malaugurio, con le ali che non volano ma strisciano per terra, tra vermi e formiche.

Vedi, ora il tempo passa, e mi prende lo sconforto. Provo a muovere la gamba offesa, ma non succede niente. Unisco le mani in preghiera, ma non so invocare un dio, perché dio aiuta gli audaci e tu mi hai detto che io non lo sono.

Questa sarà la mia venticinquesima operazione, ma lo devo dire sottovoce. Per fortuna hai il cervello, Ilaria mia, mi ripetevi, baciandomi la fronte. E io sono stata così felice di essere un cervello e non un corpo.

 

La porta della stanza si apre, un’infermiera accende le luci. Mi volto verso la finestra: non ho visto il sole sorgere, ma il brillio è quello dell’alba. Non sono pronta. Non ho finito. Il barelliere viene verso di me. Se morissi, oggi, quale sarebbero le mie ultime parole?

Il portantino toglie il blocco alle ruote, è pronta?

Improvvisamente mi sento in seno un serpente che scivola fra stomaco e intestino e mi arriva alla lingua. Guarda come si diparte in due punte. Guarda il veleno che mi inietta. Affogo in questo liquido vischioso, finché non lo sputo: «Bastardo, bastardo, bastardo!». Mi scaglio contro di lui in uno slancio rabbioso. Lo voglio colpire, uccidere, strappargli quella faccia che ora è diventata la tua. Sono stata in silenzio per troppo tempo.

Una commozione di voci e movimenti: l’infermiera, che mi scosta la vestaglia e l’ago di una puntura, che entra nella mia gamba.

«Bastardo, bastardo, basta…» continuo a urlare finché il nero non mi inghiotte.

 

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