Gli archi del Mandrione sulla sinistra toccati dal sole del pomeriggio si colorano di bronzo.
I tavolini rotondi di plastica sul marciapiede e parte della strada. Le tovaglie di carta bianca con i motivi marinari blu, un’àncora e un portolano quasi del tutto srotolato, coprono i segni del tempo. Quelli ancora non apparecchiati, scoloriti cotti al sole da anni d’intemperie, si poggiano tutti con quattro zampe basculanti sopra il vecchio asfalto sgarrupato. Contro il muro della trattoria in un tavolo libero si sono appena sistemati un uomo e una donna intorno ai sessanta. Lei tiene con cura in mano una gerbera rossa che forse ha ricevuto in dono da lui. Lui sedendosi guarda un palazzetto degli anni venti con il secondo e ultimo piano mezzo diroccato e dà le spalle al bel vialetto alberato che è toccato alla vista di lei, un tratto breve di muro interrotto da graziose casette di un piano e sovrastato da un glicine all’apice della fioritura. Il sole di mezzogiorno si è sciolto tutto, cola sullo slargo e fa scintillare le macchine scassate parcheggiate una dopo l’altra lungo i bordi. La solitudine crudele riempie il cuore di una donna che si appresta a mangiare e intanto sta portando alle labbra il primo sorso da un calice di vino bianco. Un gabbiano ha raccolto le ali e con una postura arrogante si è stabilito sopra un cassone verde della spazzatura. Compie due scatti meccanici, muove il collo e la testa, una sola volta a destra e una sola volta a sinistra. Con gli occhi neri e cattivi punta qualcosa lì vicino poi con il becco si stacca una piuma dal busto candido. Sembra soddisfatto, in attesa, immobile dov’è.
La piazza, immaginata deserta e senza automobili, sarebbe piaciuta a Giorgio De Chirico.
Una Fiat Fiorino bianca vecchia e ammaccata ha parcheggiato subito di fronte i tavoli, tre uomini sono scesi, indossano gli abiti da lavoro e si avviano verso le sedie di plastica bianca. Uno si lamenta platealmente di un dolore, inarca il tronco e emette un lamento gutturale, poi butta le braccia dietro la schiena per stirare la colonna vertebrale e sfidare quelle ernie maledette che lo assillano. Qualche secondo di silenzio. Quello piccolo di statura con gli occhiali neri e le lenti gialle ha chiesto a quello alto e grosso, un omone con la barba lunga curata, quello che si è lamentato del dolore alla schiena, se si fosse fatto il vaccino. Sono seduti e formano un triangolo. Forse riprendono un discorso iniziato in macchina. Il terzo, il più giovane di tutti ascolta silenzioso. La cameriera sbuca all’improvviso, nessuno l’ha chiamata, ha praticamente un tavolo in braccio, se lo è poggiato sul ventre e con le braccia aperte lo sostiene come se fosse un grosso volante. Alla fine lo poggia a terra in mezzo ai tre e senza dire nulla si toglie di mezzo. Il ragazzo con gli occhiali gesticola, mette le mani davanti la faccia dei suoi amici. Sulle dita affusolate, non sembrano le mani di un operaio, dall’indice al mignolo si è fatto tatuare L-O-V-E, una lettera per ogni dito. È sicuro di sé, un ragazzo e poi un uomo borioso, levigato all’abitudine dell’egoismo. È il migliore dei suoi fratelli, almeno così gli hanno fatto credere i genitori. Probabilmente è il più sveglio. Una personalità corroborata negli anni dall’apprezzabile successo nel suo lavoro di piccolo imprenditore e con le donne. Ma con le donne se l’è intesa sempre con quella meno carina, quella che ha poca fiducia in sé stessa e sa mettersi senza fatica nel cono d’ombra della più carina, giusto un passo indietro. In realtà il suo è un successo che si fa vicario del vero successo, circostanza che tuttavia non ha mai indebolito la sua coscienza. Non si interroga, e il suo inconscio non lo reclama. Ora è con i suoi amici in una delle tante quotidiane azione vanagloriose.
L’omone piagnucola. “M’hanno obbligato sti pezzi de merda…”, “non me facevano lavorà”, “ho fatto tre dosi Astrazeneca”. Astrazeneca, un’impennata di orgoglio gli investe i lineamenti del viso da bullo smentendo un po' il tono vittimistico che aveva messo nel racconto poco prima. Ma di nuovo si lamenta, ora con più sobrietà, del dolore alla schiena e torna ancora in cerca di commiserazione. L’uomo con gli occhiali e le mani affusolate che lo aveva ascoltato compenetrato e serio gli dice “mamma mia”, sembra saperla lunga, e mette in una smorfia ruffiana la comprensione e la solidarietà che gli è possibile, poi cambia discorso forse perché pensa che di più non può fare. Parla di una caldaia, l’installazione, le insidie da non sottovalutare e le componenti accessorie da non scordare. Si animano tutti e tre in una gara senza reticenze nello sfoggio delle reciproche competenze. La cameriera è di nuovo davanti a loro con una penna e un pezzo di carta in mano strappato da un blocco notes. Un margine del foglietto a quadretti è strappato malissimo, una sciatteria che può disturbare un osservatore pignolo. I suoi capelli corti in ombra le evidenziano i lineamenti del viso duri, cattivi e le occhiaie brune sotto gli occhi. Lungo entrambi gli avambracci glabri ha una serie di tribali color petrolio. Aspetta tesa le ordinazioni dei suoi clienti.
A un tavolo più defilato, l’unico ad avere in dote un ombrellone bianco, prendono posto due ragazze giovani. Una fuma Iqos, l’altra, con una bella e ampia capigliatura afro, appena possibile si libera di una mazzetta di giornali sopra il tavolo. Si stringono la mano e si baciano sulle labbra. Un piccolo stormo di rondini garrisce in cerchio sopra le loro teste. Dietro gli operai trotterella scodinzolante un bel cane marrone, oltrepassa la piazza passando tra i tavoli, nessuno ci fa caso, si infila nel buco di una rete tra due caseggiati bassi separati da un campetto incolto di erbacce. In un altro tavolo, proprio vicino all’ingresso della trattoria, a qualche metro da un vecchio frigorifero che ronza tutto il giorno con Il Messaggero spaginato sopra, già prima che arrivassero tutti gli altri avventori, ci sono tre uomini che oziano seduti. Un giovane tunisino, un italiano smilzo con il cappuccio della felpa nera calato in testa e un anziano la cui autorevolezza anagrafica è messa in discussione dai frivoli vestiti giovanilistici che indossa. Da un motorino un saluto chiassoso ha ricevuto una risposta vivace. Era un vecchio amico che non si faceva vivo da un bel po’ di tempo. Il tunisino, il più loquace di tutti, informa gli altri due. Entra nel merito, fa presente che era stato parecchio male, in pericolo di vita. Lo hanno messo a dieta severa, niente fumo niente birra, tutti e tre sottolineano quanto ne fosse goloso con qualche aneddoto esagerato. Lo smilzo in felpa, con cinismo lapidario e il vigore di chi ha forse già saputo sfidare un ordine simile impartitogli dai sanitari, sentenzia “che cazzo campi a fa”. Vicino a loro un uomo in camicia di lino blu con i capelli arruffati ha appena finito di mangiare da solo. Scambia un sorriso di approvazione con lo smilzo e il suo freddo commento. Improvvisamente una scintilla sinaptica accende il tunisino e lo costringe con urgenza a rivolgersi all’uomo in camicia blu con tono ossequioso. Ha assunto un tono serio che lo fa sembrare adulto e forse gli vale la somiglianza con il padre. Lo ha appena riconosciuto. Qualche domanda e prende forma un recente incontro. Ha operato la figlia di appendicite. Gli encomi per il medico a favore degli amici hanno un entusiasmo contenuto, meno di quanto vorrebbe. Chiede informazioni che possono tornare utile alla convalescenza della figlia rivolgendogli continuamente il vocativo dottore. L’uomo in camicia blu rassicura il ragazzo sulle domande perlopiù retoriche che riceve. Il tipo in felpa, non è così giovane come sembrava all’inizio, gioca pensieroso con un accendino di plastica, lo fa ruotare tra le dita velocemente, pare nervoso, oppure un uomo privo di sogni. L’anziano interviene per dirsi d’accordo con il medico su una questione strampalata che a un certo punto il ragazzo ha posto, mentre a lui appare ovvia. Sul tavolo dei tre, che nonostante l’ora sembra non abbiano intenzione di mangiare, c’è un mazzo di carte unte e curve e un posacenere triangolare con la pubblicità dell’Asti Cinzano pieno di cicche. Il medico scola l’ultimo sorso di vino bianco e si accende una sigaretta proteggendo dal vento che non soffia la fiamma dell’accendino con le mani. I solchi rugosi intorno agli occhi cambiano direzione proprio mentre inspira la prima voluttuosa tirata. Il tunisino ha appena fatto caso agli occhi tormentati dell’uomo e si intristisce. Sono inquieti, gonfi, con una fitta rete di capillari che zigzagano rossi lungo la sclera, gli pare che possano esplodere da un momento all’altro in zampilli di sangue e imbrattare la sua bella maglietta adidas. La faccia e i grandi occhi chiari paiono esprimere un’attesa, la possibilità che qualcosa avvenga a salvare, poi il terrore e forse la resa. Un pozzo vuoto che gli fa paura e pena. Sente montare dentro un’esplosione di infelicità, un’amarezza che gli invade i polmoni e gli fa mancare l’aria. Poco prima era un ragazzo che aveva cercato protezione per sé e per la figlia, ma ora quell’uomo gli sembra indifeso, solo e fragile. Una speciale sconforto lo agita, l’ammirazione si distanzia e poi sparisce. Ora sono stipati insieme nella stessa scialuppa decrepita e affollata che rolla su un mare sempre gonfio e un cielo sempre nero che promette nulla di buono. L’approdo è incerto per tutti. La cameriera entra in scena come in una commedia. Ha un braccio sollevato e l’altro sul fianco. Esita un po' prima di capire a chi è destinato l’ordine. Dice “questo è il dolce più buono di tutta Roma”. All’uomo anziano brillano gli occhi mentre allunga il braccio, la cameriera sa a chi porgere il piatto. Lo smilzo si desta, il collo insaccato dentro il cappuccio della felpa, fa un movimento con la testa come lo avrebbe fatto un tacchino, e commenta “de Roma è ’na parola grossa”, poi dice “ar massimo de TorPigna”. Si è sbloccato, come se avesse liberato l’ultimo residuo di rancore, non si sa contro chi, e trovato coraggio dalle due battute precedenti. Così aggiunge “a certosa de panna”, e con una risata sguaiata mostra i suoi splendidi denti di resina, che gli stanno troppo bianchi, e contagia tutti.
A poche centinaia di metri formicolano via Casilina e via di Tor Pignattara, con i negozi e il traffico. Palazzetti scrostati i cui interni, piccoli vani, sono ancora con la vecchia carta da parati ingiallita dal tempo e dal fumo delle sigarette. Ora ci abitano i singalesi in gruppi numerosi, oppure qualche famiglia del Maghreb che cerca di codificarsi a quel briciolo di decoro e intimità piccolo borghese che ancora emanano quegli appartamenti. Il resiliente, misero calore domestico cattolico e post fascista degli anni cinquanta, quando la gioia di vivere mediterranea si concentrava tutta sulle coste lasciando le città desolate, che ha conosciuto il frinire delle cicale nelle deserte e silenziose domeniche pomeriggio di agosto lungo via di Tor Pignattara con i platani spogli e immoti.
L’orologio tondo sopra il bancone del bar segna le quindici e il quadrante a sud della città sembra donare speranza a tutti i diseredati di Roma.