Il sequestro del Cavalier Scalzi
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Il sequestro del Cavalier Scalzi

 

Venni informato del mio sequestro una mattina di dicembre. Poche parole dette al telefono. L’uomo, una voce giovanile priva di inflessioni dialettali, aveva parlato in fretta e chiuso la conversazione senza darmi il tempo di replicare che quello che diceva non era possibile, che nessuno aveva sequestrato il Cavalier Scalzi, che il Cavalier Scalzi ero io e mi trovavo dall’altro lato della cornetta, nel soggiorno di casa mia, seduto in poltrona, con le briciole della colazione ancora sparse sulla vestaglia.

Si trattava di uno scherzo, pensai riagganciando. Uno scherzo di pessimo gusto, ma feci lo stesso quei pochi passi che mi separavano dalla vetrata che dava sul giardino della villa e scrutai fuori. Non c’era nulla di anomalo. Le mie automobili erano parcheggiate sul vialetto, il cancello era chiuso, un merlo saltellava sul prato alla ricerca, forse, di cibo.

Controllai l’allarme. Era azionato quindi lo disattivai e lo attivai di nuovo e poi lo disattivai ancora, perché a breve sarei dovuto andare in azienda. Mia moglie dormiva e fui quasi tentato di svegliarla e raccontarle tutto quando fui colto da un terribile dubbio. Forse non era uno scherzo. Forse i rapitori avevano solo confuso i nomi, magari presi dall’agitazione. Forse il Cavalier Scalzi, ovvero io, ero solo il destinatario della chiamata, la persona che avrebbe dovuto pagare il riscatto e non quella sequestrata. La vittima poteva essere mio figlio Paolo o uno dei miei tre nipoti che, dopotutto, sempre Scalzi fanno di cognome. Per quanto improbabile tale scenario, il cuore prese a picchiarmi nel petto. Provai a calmarmi facendo dei profondi respiri e quando mi sembrò di esserci riuscito telefonai a mio figlio. Non volevo allarmarlo, mi bastava sapere che tutto era sotto controllo e quando dopo cinque interminabili squilli rispose, la sua voce, perfettamente normale, ebbe l’effetto di rasserenarmi e io iniziai a parlargli del menù di Natale fingendo che quello fosse lo scopo della chiamata.

Poco dopo mi recai in azienda come faccio tutti i giorni da quasi cinquant’anni. Una volta lì fui assorbito dal lavoro e mi dimenticai di quella storia fino a quando, tre giorni dopo, una busta sulla scrivania catturò la mia attenzione. Qualche impiegato l’aveva impilata tra la mia personale corrispondenza. Si trattava di un plico giallo senza mittente. All’interno, su di un foglio bianco, composta da lettere ritagliate da qualche quotidiano e incollate in maniera grossolana, compariva la scritta

NON

STIAMO

SCHERZANDO

Non c’era altro, non c’era una firma, non c’era una data, non c’era nemmeno un timbro postale, segno che qualcuno doveva aver inserito il plico di persona nella cassetta postale aziendale. La mia prima reazione fu di far sparire il tutto e solo quando stavo per rimettere il foglio nel plico notai che all’interno, schiacciato sul fondo, c’era una bustina di plastica trasparente con un contenuto di colore scuro: erano capelli. Davanti lo specchio del bagno li confrontai con i miei senza però avere il coraggio di estrarli dalla bustina. Stesso colore, stesso spessore, persino la lunghezza era paragonabile a quelli che avevo in testa: quei capelli erano miei oltre ogni ragionevole dubbio. Rimasi a lungo a guardarmi allo specchio, poi tornai in ufficio e occultai il plico con tutto il suo macabro contenuto in un cassetto.

Cosa dovevo fare? Continuare a fare finta di nulla? Con la telefonata era stato facile, ma adesso quella cosa era lì, tangibile, reale. Si trattava di uno scherzo? O era una minaccia vera? Dove avevano preso quei capelli? Era possibile che me li avessero tagliati di nascosto. O forse li avevano recuperati quando ero andato dal parrucchiere, sarebbe bastato confondersi tra i clienti del salone e avvicinare una ciocca con un piede. Ma perché? Che senso aveva tutto questo se io ero lì, che camminavo avanti e indietro nel mio ufficio, libero di vivere la mia vita come meglio credevo?

Quel giorno pranzai alla mensa aziendale. Lo facevo ogni tanto e a dirla tutta lo avrei fatto sempre, ma percepivo che la mia presenza metteva gli operai in soggezione e non mi piaceva l’idea di rovinargli quell’ora di tranquillità. Ad ogni modo quel giorno pranzai lì, feci quattro chiacchiere avvicinandomi a tutti i tavoli, cercando di comportarmi nella maniera più naturale possibile, ma in realtà quello che cercavo era il responsabile di quei messaggi.

Quando tornai in ufficio guardai di nuovo la lettera e quei capelli e mi sentii in colpa per aver sospettato dei miei dipendenti. Come potevano fidarsi di me se io alla prima difficoltà avevo dubitato di loro? Non ripetevo sempre che eravamo una grande famiglia? Che loro erano la vera forza dell’azienda? Provai una grande frustrazione e il desiderio di reagire facendo qualcosa, ma cosa? Chiamare i carabinieri? Il nuovo comandante lo avevo conosciuto durante i preparativi della festa della patrona e mi aveva fatto una buona impressione. Un ragazzo del sud, ma sveglio, rispettoso, che aveva saputo inserirsi con garbo nella nostra comunità. Francesco, o forse Antonio. Non ero sicuro del nome, e ancora meno lo ero di quello che gli avrei detto. Mi avrebbe fatto molte domande, passato in rassegna non solo la mia vita, le mie abitudini, ma anche l’azienda, i libri contabili, i bilanci. Avrebbe indagato tra i miei collaboratori e tra i famigliari alla ricerca di rancori, dissapori, problemi finanziari, avrebbe messo sotto controllo il mio telefono e alla fine, temo, avrebbe finito per dubitare di me. Sì, non c’era altro scenario possibile. In assenza di sospettati non avrebbe potuto non pensare che quella fosse tutta una mia messa in scena per cercare visibilità, o forse il segnale di una mancanza di lucidità. No, non lo avrei contattato, non era prudente, non c’era nessuna vera minaccia che affrontavo, ma c’era invece il rischio concreto che tutta questa vicenda potesse nuocere al nome dell’azienda, minare la fiducia dei clienti o incoraggiare i concorrenti a provare a sottrarmi delle quote di mercato. No, nulla di buono poteva venir fuori da un’indagine, per non parlare del fatto che ad una eventuale comparsa di una richiesta di riscatto avrebbero potuto congelare i miei beni. Lo avevo visto accadere spesso negli sceneggiati polizieschi alla tv ed era uno scenario che non potevo permettermi. Ne avrebbero fatto le spese i dipendenti e i fornitori e io non avrei avuto alcuna motivazione valida per giustificare un ritardo nei pagamenti. Sarebbe stato il tracollo. La fine di un’azienda per la quale avevo sacrificato tutta la vita.

Ma allora, cosa dovevo fare? Sparire davvero? Assecondare quella messa in scena? Avrei potuto prendere la macchina o salire su un treno, rifugiarmi in qualche luogo lontano e attendere altre comunicazioni fino a quando quella situazione si fosse risolta. Ma dove andare? E in che modo restare nell’anonimato? Come avrei fatto ad andare in un hotel o a prenotare un volo senza usare il mio vero nome? E agendo in quel modo non avrei finito per spaventare la famiglia, mettere in difficoltà l’azienda, allarmare le forze dell’ordine? Ma soprattutto, ammesso che fosse possibile, quanto tempo sarei dovuto restare in incognito? Controllavano davvero i miei spostamenti? O si trattava di una mia fantasia? Forse dovevo trovare il modo di avvisare i rapitori che mi accingevo a sparire?

No, stavo vaneggiando. Dovevo restare lucido. Provai a pensare a delle persone che potevano volermi male, ma non mi venne in mente nulla. Pensai di portare ad analizzare i capelli nella bustina in qualche laboratorio. Un test del DNA avrebbe appurato se erano davvero miei. Sarebbe stata una vera prova. Ma ci sarebbero volute settimane per avere i risultati e inoltre, ero sicuro di poter contare sulla riservatezza di questo genere di cliniche? Non sono i luoghi dove ci si rivolge in caso di dubbi sulla paternità e faccende simili?

Finii col non fare proprio nulla. Continuai la mia vita di sempre. L’azienda. La famiglia. La parrocchia la domenica. Scivolai in quella routine collaudata che mi aiutò, ancora, a dimenticarmi di quella storia

Poi arrivò il Natale. A casa siamo soliti aprire i regali alla mezzanotte del 24. Fu in quel frangente, nella confusione che accompagna quel momento, tra la sovreccitazione dei bambini e i brandelli di carta regalo in terra, che mi ritrovai uno strano pacco tra le mani. Era confezionato con gusto e recava con sé un biglietto senza mittente. Fu proprio questo dettaglio a insospettirmi, avendomi ricordato il plico con i capelli. Ma stavolta il contenuto del pacco fu, se possibile, ancora più inquietante. Tra un sottile velo di carta pergamena trovai, tagliata in tanti pezzi, una delle mie cravatte preferite. Approfittai della confusione per andare in camera e controllare nell’armadio. Era proprio come temevo, quella cravatta, che avevo comprato diversi anni prima durante un viaggio di lavoro non c’era più. Ebbi la freddezza di infilare il biglietto all’interno della giacca mentre iniziai a sentirmi male e ricordo poco di quello che accadde fino a quando ripresi conoscenza, disteso su un letto di ospedale.

Molti malori avvengono durante le vacanze di Natale. Nei momenti conviviali, durante i festeggiamenti, spesso con la complicità di pasti sovrabbondanti. Sapevo di questa cosa e quindi ingigantii di molto durante i colloqui con i medici la quantità di alcol e cibo che avevo ingerito. Gli esami ai quali venni sottoposto non evidenziarono comunque nulla di allarmante. La solita pressione alta. L’avevo trascurata. Il sonno. Intermittente e sofferto. Il troppo lavoro. Mi dichiarai colpevole anche di questo e mi fu dunque intimato riposo assoluto e ricovero per tutto il tempo necessario a ristabilirmi.

Mia moglie rimase con me quella notte e fu solo all’alba, mentre lei sonnecchiava su una brandina, che ebbi la possibilità di infilare la mano nella giacca e leggere il biglietto. Si trattava dell’ultimo messaggio dei rapitori e conteneva una richiesta di riscatto. I soldi dovevano essere consegnati alle 8 del mattino del 29 dicembre nel parco a ridosso del cimitero comunale. La somma richiesta era 500 euro. 500 euro. Non potei fare a meno di abbandonarmi a una risata. Non ero uno degli uomini più ricchi del mondo, ma ero pur sempre a capo di un’azienda da oltre trecento milioni di fatturato. Accartocciai dunque il biglietto e lo gettai nel cestino, deciso a chiudere per sempre con quella pagliacciata. Cosa poteva mai succedermi dopotutto? La mia cartella clinica cresceva di ora in ora e tutti quei fogli, tutti quei timbri, tutte quelle parole mediche che a stento comprendevo, non andavano anche indirettamente confermando che ero un uomo libero? Nessuno mi teneva sotto sequestro. Il Cavalieri Scalzi risiedeva al letto 24 del reparto di medicina generale dell’ospedale San Timoteo e chiunque poteva prenderne visione dalle 10 alle 11 e dalle 16 alle 17.

Fu solo al termine del quarto giorno che cominciai a ripensare con sospetto a tutta questa storia. La causa di questo furono alcune gocce che iniziarono a propormi per dormire meglio, l’evasività con la quale il dottore che mi aveva in carico rispondeva alle mie richieste di essere dimesso o quella strana aria di complicità che si era creata tra lui e i membri della mia famiglia. O forse tutte queste cose insieme condite alla mia smania di voler tornare a lavoro, fatto sta che tutti gli esami avevano dato esito negativo ma io restavo lì, in quel letto d’ospedale e quello era, se non un vero sequestro, qualcosa che ci andava molto vicino.

La notte del 28 dicembre non riuscii a prendere sonno. Ripensavo a tutte le cose che erano successe in quell’ultimo mese scarso. Era possibile che quelli del plico non fossero i miei capelli. Era possibile che quella ricevuta a Natale fosse solo una cravatta uguale alla mia e non proprio la mia. Era anche possibile che la mia famiglia non c’entrasse nulla, che il mio prolungato ricovero fosse solo una coincidenza, che quel medico non stesse operando che per il mio bene, ma io non ero più disposto a subire passivamente tutto questo e c’era un solo modo per andare a fondo alla questione.

All’alba approfittai di un’emergenza in reparto per infilare l’uscita sul retro che dava sul parcheggio dell’ospedale. Da lì raggiunsi la strada e salii su un autobus diretto in paese. Ritirai 500 euro al primo bancomat che incontrai e mi incamminai di buona lena verso il luogo indicato dai sequestratori. Era domenica. C’era poca gente in giro e, complice un bel sole alto nel cielo, quella passeggiata ebbe su di me un effetto corroborante dopo i tanti giorni oziosi in ospedale.

Nel vecchio cimitero sono sepolti i miei nonni, i miei genitori, alcuni zii e altri parenti vari. Li ho sistemati tutti in una cappella che porta il nome della famiglia e dove ci sono già predisposti i loculi che accoglieranno me e mia moglie. Gli faccio visita sì e no una volta l’anno e quel mattino, passando davanti al cancello ancora serrato, gettai all’interno uno sguardo un po’ dimesso ripromettendomi che avrei trovato più tempo per loro una volta chiusa quella faccenda.

Aggirai quindi il cimitero con questo proposito e mi infilai nel parco. Non vedevo anima viva da un bel po’ e non mi meravigliai nel trovarlo deserto. C’erano però cartacce ovunque, bottiglie di birra, preservativi usati, segno che di notte quel luogo godeva di maggiore fortuna. Mi sedetti su una delle poche panchine non divelte e aspettai in un silenzio rotto solo dal verso di alcuni uccelli. Quando mancavano pochi minuti all’ora fatidica presi le cinque banconote dal portafogli, le contai più volte e fu solo in quel momento, nell’impaccio di non sapere nemmeno dove metterle, che capii tutto il senso di quella storia. Mi avevano tratto in inganno. Nessuno mi aveva sequestrato perché il vero sequestro sarebbe dovuto avvenire proprio in quel momento. La storia della telefonata, della lettera con i capelli, della cravatta, si trattava solo di un diversivo che serviva a capire che tipo di persona fossi.

Anche la cifra richiesta, che io superbamente avevo deriso, trovava ora tutto il suo tragico senso. Chiunque può ritirare 500 euro da un bancomat mentre una cifra più alta avrebbe dato nell’occhio. Quello che volevano i sequestratori era attirarmi in un posto isolato, assicurarsi che non ci fossero testimoni e poi, solo allora, rapirmi. La storia del riscatto era solo un pretesto e ci ero cascato con tutte le scarpe. Fui tentato di alzarmi, di scappare via, quando un rumore di pneumatici sulla ghiaia mi fece trasalire. Proveniva da una stradina sterrata che si trovava al lato opposto del parco che dalla provinciale tagliando le colline conduce al parco dove mi trovavo. Una strada che poche persone conoscono e che garantiva una via di fuga sicura. Era un piano pressoché perfetto e io ormai non potevo farci nulla. Potevo forse scappare? Ma come? E per andare dove? Mentre valutavo i vari scenari che avevo davanti, il cellulare prese a squillare. Riconobbi subito quella voce, era l’uomo che aveva chiamato la prima volta. Disse di lasciare i soldi sulla panchina dove mi trovavo poi riagganciò.

Così feci, certo che quello forse solo l’ultimo inganno. Misi un sasso sopra il contante per non farlo volare via e mi allontanai. Il cuore mi batteva all’impazzata ed ero coperto di sudore, ma continuai a camminare senza voltarmi perché sapevo che qualcuno mi stava correndo dietro pronto a prendermi, bendarmi o peggio ancora spararmi per uccidermi per poi inscenare il sequestro. Respiravo affannosamente e tenevo gli occhi fissi sulla strada, temendo di svenire come successo a Natale. Ma stavolta non successe. Quando arrivai al cimitero il cancello era ancora chiuso, ma una donna attendeva in piedi con dei fiori in mano. Non mi era accaduto nulla e ora c’era una persona in carne e ossa, una testimone. Le feci un cenno con la testa che ricambiò in maniera distratta. Che non mi avesse riconosciuto? Forse non era semplicemente di zona. Proseguii oltre e mi fermai quando intravidi in cielo, oltre il paese, una colonna di fumo che doveva provenire dalla ciminiera della mia fabbrica. A quell’ora, pensai, gli operai del turno di notte avevano già ceduto il posto a quelli della mattina. In quel momento il telefono squillò di nuovo, ma stavolta non erano i sequestratori, bensì mia moglie che era stata avvisata dall’ospedale della mia fuga. Quando sentii la sua voce iniziai a piangere e la pregai di venirmi a prendere. Mi trovavo di fronte al cimitero, ero finalmente libero.

 

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