«Maaario! Oooh Mario! Nell’Alto dei Cieli…! Nell’Altissimo! Maaario! Mario!»
Che schifo di risveglio, una vergogna.
Ritrovarsi invischiato nei tripudi di un coro che, a quanto pare, si sia incaponito sul mio nome. Coro d’angeli s’intende. C’è di più? Be’, a voler completare il quadro ero in cielo, me ne stavo sospeso, tutto accerchiato di voci. Gioia a palate, euforia a volerne. Strano a dirsi, mi sentivo leggermente osservato…
Mentre il cerchio girava – il cielo girava – cantando e inneggiando alla bontà del Padre, indovinate? avevo il mal di mare, cominciavo a sentirmi a disagio, con un discreto senso di nausea… Il gruppo scandì bene il mio nome – “Ma-rio! Ma-rio!” – cosa che, pur resistendo all’impressione del tifo da stadio, non favoriva certo la concentrazione – cosa ci facevo là, da dove venivo? erano davvero angeli quelli e soprattutto perché diavolo dovevo crepare? queste e altre domande – mi rassegnai ben presto a una fredda ma pacata constatazione: chiunque fosse il morto, se morte era, lo si trattava allo stesso identico modo. Non ce l’avevano con me, questo il punto – sospetto che poteva nascere dall’ostentata gaiezza per il mio doloroso destino – semplicemente era il loro modo di fare gli angeli, il loro ruolo: più alto era il giubilo, lo sappiamo, migliore sarebbe stata la trasfigurazione, ragion per cui non mi restava altro da fare che stare a guardare, per quanto possibile evitando di formulare giudizi iniqui nei loro confronti: avevano orecchie ovunque, anche questo è noto, e dovevo stare accorto. Insomma: era il loro momento di gloria, una buona occasione per magnificare il Signore, perciò occorreva lasciarli fare e, infatti, nulla di personale da parte mia, anzi. Se il turbine mi avesse abbracciato, avvitandosi fino a torcersi e sbudellarmi, giuro che avrei esultato – ammesso che me ne fosse rimasto il fiato. Forse il traguardo era vicino, e stavamo per raggiungere l’apice.
Occhi accecanti adesso, occhi inguardabili e vuoti, era la fine. E quanto più si avvicinava l’Altissimo, tanto più il mio nome ascendeva sublime e ubiquo. Di nuovo: senza incolpare niente e nessuno perché, a maggior ragione, mancavano loro ciò che propriamente diremmo “occhi”, “bocca” e “orecchie” – ripeto: non sono cattivi, tecnicamente non scrutavano né cantavano né tantomeno disponevano della possibilità di origliare: funziona così, è il sistema. A riprova porto l’angelo che, pur sconvolto e obnubilato dal canto, avrebbe allargato le braccia in un sommesso ma caritatevole: “mi dispiace amico, è la regola”, mentre dondolava la testa. E poi, dopo la luce – brutto colpo per chi preghi ancora in un finale diverso – dopo la luce c’è stata la violenza del fiume da cui sono stato travolto, un capovolgimento di fronte spiazzante, drammatico, un tuffo improvviso all’inferno, dal bianco candore dei cieli inebrianti fino al viscido nero salmastro delle acque, con qualcuno che, oltretutto, sputando nel fiume avrebbe rischiato perfino di cecarmi un occhio, c’erano urla e schiamazzi e bestemmie e nessuno cantava più allora – “Mario! Mario!” erano le grida dalla banchina, sapevo di aver fatto del male a qualcuno e null’altro – e grazie a dio a quel punto mi sono svegliato, in preda al panico sì, terrorizzato, di soprassalto, ma non ero davvero nel fiume no, non stavo affogando, e intanto loro – gli angeli – finivano a sbiadire sul fondo… da dove infine è comparso un cartellone nero. Con una scritta bianca del tipo: “Mario, sei qui per un estremo atto d’amore, eh”, neanche fossi al cinema. Per giunta, con quella sottolineatura un po’ indigesta…
Mi svegliai gridando. E, giusto per sicurezza, mi grattai i coglioni.
Gran bel risveglio, dopotutto.
«Mario! Mario?»
Mi alzo. Lascio la stanza e percorro il corridoio. Grugnisco, per dissenso.
«Ma’, stavo dormendo. Che c’è?»
«Sei ancora a letto?»
«No, sono qui. Dimmi.»
«Urlavi, cos’è successo? Sono tre giorni! Ti avevo chiesto di accompagnarmi…»
«Tre giorni? Comunque ci sono, fammi solo sapere quando sei pronta.»
«Sono tre giorni che non esci dalla tua stanza! E comunque sei ancora in pigiama.»
«Non preoccuparti, quando vuoi uscire mi chiami.»
«Mario, Mario!»
«Sì?» rispondo allungando di proposito la vocale.
«Sbrigati, dopo devo preparare il pranzo.»
Entro in camera, guardo il letto, dovrei ributtarmici sopra.
«Mario?»
Mi guardo allo specchio. Forse mi sono lasciato andare anche troppo: sono un maiale. «Eh? Che c’è ancora?»
«Se ti rimetti a letto mi farai fare tardi!»
«Non mi rimetto a letto, mi sto solo cambiando.»
«Ma non eri già pronto?»
«Sono in pigiama!»
«Ancora in pigiama?»
Da qualche parte devo averla nascosta. Ecco: nel comò, sotto un album, tra vecchi telefoni abbandonati.
Battezzai la pistola a casa di Franco.
Col senno di poi, farei presto a dire: chi meglio di Franco, il mio migliore amico? Ma – dove l’ho sentita questa? – col senno di poi siamo tutti fenomeni.
Fu tutto piuttosto rapido. Eravamo in camera sua, ciascuno sulla propria sedia girevole a guardare un concerto rock al computer. Era una specie di rito il nostro, un appuntamento a cui non mancavamo facilmente. Da un momento all’altro, assorbiti da non so quale esecuzione dal vivo, iniziai a provare del fastidio a una coscia, ragion per cui mi misi a frugare nella tasca, anche con una certa sollecitudine. Inaspettatamente, ne venne fuori una… che cosa? E questa cos’è? Sì, proprio così: un oggetto che su due piedi avrei stentato a definire. In ogni modo, qualunque cosa fosse quell’attrezzo che avevo estratto dalla tasca il fastidio cessò di colpo, ne approfittai per stendere le gambe. Il mio caro amico Franco, comprensibilmente, sembrò rilassarsi meno: rivolse subito l’attenzione sulle mie mani, dove, disorientato, molto incuriosito, avevo preso ad armeggiare con un arnese di cui ignoravo l’origine, come fosse finito nei miei pantaloni.
Non disse nulla lui, Franco, ma risollevò gli occhi e me li piantò addosso. È vero: a guardar bene, quell’oggetto poteva assomigliare a una pistola – cane, canna e impugnatura c’erano tutti – ma cosa fosse di preciso andava indagato e forse richiesto, a meno che uno non sia un esperto del mestiere naturalmente, magari un norcino.
Comunque sia, feci presto a sciogliere i dubbi. Agii d’istinto, senza pensare, come se non si potesse fare altrimenti.
Con un gesto agile e deciso sollevai la canna ad altezza d’uomo. Sistemai appena un po’ la sedia, ruotai quel tanto che bastava per porci l’uno di fronte all’altro. Ecco, ora sì che potevo poggiare la bocca dell’arma sulla fronte di Franco. Piccolo ma non secondario inciso: nulla a che vedere col sangue no, perché a dire il vero non ne uscì nemmeno una goccia, d’altronde avevo sparato a bruciapelo, ma in sottofondo sì, questo mi piace ricordarlo, sotto lo “sparo” c’era ancora della musica, quella stessa musica che, come si sarà capito, non vale però la pena citare. All’atto di premere il grilletto mi venne di dire questo – dissi: “per amore”, una banalità del genere, sempre con fare distaccato, automatico. Un attimo dopo il mio migliore amico si afflosciava sulla sedia come un pupazzo o come se fosse caduto addormentato.
Quando nel mio intimo rivedo la scena, però, prediligo sempre questa seconda ipotesi. Comunque, premendo il grilletto c’era stato un rumore simile a un colpetto, un plop morbido, di certo nulla che potesse impensierire le note dell’assolo di chitarra che provenivano dagli altoparlanti.
Ho pianto per giorni dopo l’accaduto. Giorni.
Ciò che faticavo a credere era come diavolo fosse stato tutto così facile. L’avessi saputo prima! Ora mi sentivo un altro: libero. Eppure, un sospetto rischiò comunque di adombrare il mio luminoso stato d’animo. Perché, malgrado l’enormità del gesto potesse suggerire tutt’altro, io un errore, pur perdonabile, una leggerezza, per inesperienza, li avevo commessi: è vero, quasi per caso avevo finito per sperimentare la mia nuova pistola su una persona fidata, e peraltro era andata bene, molto bene se la prova era stata capace di offrirmi un riscontro limpido e lampante – tra l’altro sopra uno sfondo musicale, seppur non memorabile – ma, e di questo devo dar atto, non mi ero dedicato abbastanza alla ricerca dell’obiettivo, mi ero accontentato di un bersaglio facile, vicino, esonerandomi da laboriose valutazioni in merito, il che, paradossalmente – mi si perdoni il gioco di parole – mi aveva portato a sparare troppo alto. Certo, sfiorare subito il traguardo potrebbe dare le vertigini, perché è un po’ come realizzare un sogno, “toccare il cielo con un dito” – quanti luoghi comuni… Cominciare subito da Franco, voglio dire, pur liberandomi di un peso considerevole significava aver mirato al piatto, ambito al banco. E infatti il pianto – amareggiato dall’errore, come detto – non accennava a smettere.
Nota di colore: singhiozzando, qui e là mi scoprivo a emettere degli strani grugniti dal naso. Grugniti o rantoli, fate voi. Avete presente il maiale? Ecco.
Ormai da settimane giravo gagliardo con la fida pistola stretta saldamente in un pugno. Vanità: quanto all’ombra che proiettavo col corpo – che fosse contro un palazzo o sopra la superficie di un marciapiede – iniziai a compiacermi per la sagoma aguzza che la forma della pistola sapeva donarmi. Sempre analizzando l’ombra: ero o no più chino del solito, più proteso in avanti? Che la mia ombra si fosse confusa con quella del paraurti di un’auto…? Per questo ero prono, cioè procedevo carponi, assumendo la postura di un quadrupede?
Ma, sottigliezze a parte, ciò che conta sapere è che non c’era occasione pubblica, fila alle poste o coda nel traffico che smascherasse come inadeguato o inappropriato l’uso della mia pistola. Così, pur essendo partito da quella cima troppo alta, con sempre maggior sicurezza mi ritrovai a servirmene in modo via via più consapevole abbracciando un ideale diverso, che non tenesse in conto, com’era successo, l’intensità dei legami o il valore affettivo con una precisa persona. Come insegnano i più progrediti principi di stampo democratico, il migliore utilizzo che se ne possa fare è di tipo orizzontale.
Indolore, istantanea, tra i molti pregi della mia pistola c’era soprattutto l’infallibilità assoluta, cosa che, credo, tra le altre cose alimentò anche la sua qualità più apprezzata: non suscitare il benché minimo clamore intorno – almeno non quello che uno si aspetterebbe. Ma andiamo per gradi. In genere, voglio dire, il prescelto – il liberato fu opera dei giornali – stramazzando al suolo non procurava alcun fastidio e nessuno si scomponeva più di tanto. Appena di rado ho visto qualcuno scansarsi per evitare il collasso di un corpo. Anzi – e ciò mi stupì, ma doveva essere nell’ordine delle cose evidentemente – in qualche modo il fatto che lo sparo non scuotesse affatto l’indifferenza comune non stava a denunciare alcun male radicato e preoccupante ma, cosa oltremodo positiva, dava la misura di quanto a lungo e con quale brama si fosse attesa e si fosse sperato nell’avvento della pistola. Bene: ora che c’era, usiamola. E infatti la tensione sociale, mi accorsi presto, lungi dal derivare dalla mia azione omicida cresceva se, faccio un esempio, il maleducato di turno saltava la fila a una cassa, se un incosciente svicolava con prepotenza al semaforo, mettendo in pericolo che so, un pedone o una bicicletta, o altre occasioni di poco o pochissimo conto, non certo per atti di criminalità deliberata, ma per i tanti piccoli gesti che contribuivano ad aizzare la fiamma sotto l’acqua bollente. Non la pistola per maiali dunque, la pistola per maiali no, non fomentava l’odio. Al contrario: pacificava gli animi, non molto a lungo certamente, non è mia intenzione apparire presuntuoso o inverosimile proprio adesso, ma se adoperata con giudizio – ciò di cui vado fiero, l’aver sviluppato in fretta una certa confidenza d’uso – la situazione tornava nei ranghi e per un po’ tutti assumevano un contegno riguardoso e civile. Si rideva per strada, si rideva! Nascevano amori inaspettati. E come mai era successo prima, ci si sentiva apostrofare con frasi del tipo: “Scusi lei, sig. Tal dei Tali…”. Bello. Anzi, che dico? Favoloso. Da sfiorare il ridicolo.
Poi, se devo riferire quand’è che la cosa diede segno di scapparmi di mano, assumendo una piega che, onestamente, cominciava a non piacermi affatto, fu quando uscì quel famoso articolo di giornale in prima pagina, col titolone che recitava pressappoco così: “Dai maiali, un atto d’amore!”. Sotto, la foto di un maiale che si aggirava guardingo per le strade, come se fosse sfuggito a una stalla o l’avessero abbandonato da un camion. A quella vista, un brivido mi avrebbe percorso la schiena – non so bene perché, non sono mai riuscito a dargli una spiegazione valida. In ogni modo, da quel momento in avanti avrei rischiato di montarmi la testa, di perdere il contatto con quella che doveva essere la mia missione, ammesso che ce ne fosse stata una. Comunque, visto che, a quanto pare, l’unico a svolgere quella funzione ero io – l’unico a saper impugnare una pistola per maiali a dovere – giunti a quel punto capii che forse potevo essere frainteso e, cosa per nulla improbabile, essere scambiato per un eroe. Il che avrebbe comportato soddisfare delle aspettative, sostenere una responsabilità e soprattutto darsi un nome che avesse una storia, confezionarsi un costume e forse perfino acquistare un’auto costosa. Sarebbero arrivati presto la fama, le interviste, i gettoni di presenza e soprattutto un nemico giurato che la pubblicità mi avrebbe attirato inevitabilmente. Che tipo di maschera avrei dovuto indossare? Tutto ciò non aveva nulla a che fare con la mia pistola. Vista la mala parata decisi di metterla via e a malincuore rinunciai al mio ideale, intendevo sottrarmi a un ruolo che non mi apparteneva.
Solo e senza più il peso del dovere ormai passavo il tempo in camera a crogiolarmi su quella stagione di intense conquiste sociali che la mia pistola aveva saputo stimolare. La liberazione pregata e supplicata tanto a lungo era infine sbocciata dalla canna di una pistola, come un mazzo di fiori. Niente più indifferenza, ma atti di spontanea fraternità e di reciproco amore, girotondi festosi che risollevavano l’umore e la vitalità delle città che avevo visitato.
Non potevo che lasciarmi andare alla nostalgia, e piangere.
Forse era arrivata l’ora di rispolverarla dal fondo del cassetto.
Umfr umfr. Oink oink.