Illustrazione di Cecilia Paladino
Illustrazione di Cecilia Paladino
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Nadia

 

Ho chiesto a Nadia una cosa: metti il vestito a fiori, le ho detto. Be’, più che una domanda, così sembrerebbe che io sia stato un po’ troppo brusco. “Senti, Nadia, ti va se un giorno indossassi quel vestito che…” già va meglio.

Sono steso sul divano, le mani dietro la testa, ciò che si direbbe una posizione agiata. C’è penombra quando sento aprire la porta, ho come l’impressione che sia entrata. Mi sollevo sui gomiti: indossa il vestito a fiori, sta attraversando la sala. «Aspetta» le dico, «Aspetta, ferma lì adesso».

Mi sono messo a sedere. Ho preso il quaderno che stava sul tavolino basso e l’ho aperto sulle gambe. Si sono schiuse le imposte e la luce in sala è aumentata. «Senti, tu quei due li conosci?».

«Chi?» domanda lei di rimando, allontanandosi dalla finestra. «E poi, vuoi dirmi perché mi hai fatto vestire così? Uff» sorride, oscillando i fianchi, «mi sto vergognando».

«Insomma, li conosci?» ripeto indifferente, sono impegnato sul quaderno e non devo spiegazioni. Ero partito dagli scarabocchi, certo, ma ben presto sono passato a scrivere.

Nadia mi guarda perplessa: «Ma chi? Dai, smettila! Dimmi piuttosto…»

«Forse non lo sai, ma c’è una storia che…»

 

…che comincia con una donna che entra in un bar e due uomini che stanno lì seduti a un tavolo. Il locale non è deserto, gli amici non si vedono da parecchio e si stanno scambiando delle considerazioni davanti a una birra, non fanno altro che parlare: “…domani mi tocca la notte”, e l’altro risponde: “io ho i turni settimanali”. La donna si avvicina al bancone e ordina un caffè, è sola e sembra di passaggio; indossa un vestito a fiori. «…allora, cos’è che fai adesso?» chiede l’uno all’altro. E questi: «Sto guardando quello…» e con le sopracciglia accenna al bancone.

 

«Fammi vedere un po’ come giri. …appoggia i gomiti sul mobile, dovrebbe essere alto abbastanza. Bene. Inarca la schiena. Ora girati, lentamente…»

 

La donna si voltò con la tazza da caffè tra le dita. Ebbe un lieve sussulto, che non trapelò all’esterno. Le era arrivato appena uno scampolo sopra il brusio del locale, che diceva: “…io non reggerei la notte… ci ha visti ci ha visti, girati!”.

 

«Ma si può sapere cosa diamine stai scrivendo?»

Alzo gli occhi e vedo che non ha ancora cambiato posizione. «L’importante è che non ti muovi da lì, intesi?».

«Ma se non so nemmeno perché ti sto dando retta! Mica starai facendo qualcosa di sporco, magari un disegnino erotico?» si trattiene dal ridere, ma soprattutto, rimostranze o meno, esegue alla lettera i miei ordini.

«Prova a sollevare un po’ la gonna adesso»

«Ma sei scemo?»

«Che hai capito? Sul ginocchio, devo vedere il panneggio…»

 

«Una volta frequentavo un bar di sudamericani, un posto di ladri che verso le due di notte si riempiva… noialtri eravamo fuori, fuori con l’accuso direi oggi. Per fare una bravata andavamo al bancone, afferravamo una dai fianchi e le sollevavamo la gonna fino alle mutande… a patto che le portasse, le mutandine… Facevamo tutto da noi, hai capito? Poi ci siamo limitati, ci siamo dati una bella regolata col tempo. Ma se allora non l’avessimo fatto, sollevarle la gonna e tutto il resto, poi dopo c’era da portarsi il magone fino a casa…» Franco captò lo sguardo dubbioso dell’amico, perciò si premurò subito di ammettere, a voce più bassa: «Tappa fissa a mignotte al ritorno, naturalmente. Ma quando la gonna saliva sulle cosce…»

 

«Balla» mi è uscito, quasi senza volerlo. «Su, e balla!» è vero, ho insistito, ma solo perché lei non reagiva.

Nadia ha strofinato i palmi sul ripiano del mobile e ha abbassato lo sguardo, poi ha fatto una cosa che poteva mettermi in imbarazzo: si è stirata il vestito sui fianchi. «Cos’è che dovrei fare…?»

«Sì» ho detto mentre continuavo a scrivere, «balla».

«Ma che cosa vuol dire? Mi spieghi…?» e si è guardata intorno. Si è passata una mano tra i capelli. Non ha continuato la frase.

Nemmeno io ho detto più nulla. Dopo un po’ che scrivevo, mi sono accorto che aveva iniziato a muoversi. Chiaramente non ho distolto gli occhi dal quaderno per intero, ho lanciato giusto un’occhiata furtiva. Nadia stava provando alcuni passi, un po’ qua un po’ là nello spazio che separa il divano dagli scaffali. Sollevava le braccia ad arco, poi ha piegato leggermente le ginocchia e ha lasciato che gli avambracci ricadessero flosci. Si è accovacciata sulle gambe, come un fiore.

Ho alzato gli occhi dal foglio e l’ho fissata con aria severa: «Be’, che c’è, non balli?»

«Ho fatto…» ha bofonchiato, sforzandosi di mantenere la figura, «…ecco, così».

Non è passato poi molto che mi sono sentito sfiorare. Ormai non potevo far altro che sollevare la testa, per constatare quanto segue: Nadia stava danzando in lungo e in largo per la sala. Si era sciolta, faceva del suo meglio. Allora anch’io mi sono sentito sicuro, e ho premuto sull’acceleratore. Ho rincarato la dose, sebbene a conti fatti non ce ne fosse affatto bisogno: «Forza, forza!»

Si è udito un “sì” molto sommesso, in un volteggio.

 

Mario guardò fuori dal locale: «Certo che è triste, visto così» disse sovrappensiero. Quel rigurgito dal passato lo aveva messo di malumore.

Franco vuotò il bicchiere, non sembrava molto colpito dall’osservazione. Scrutò l’amico in cerca di ragioni, ma non parlò; si rivolse anche lui a guardare oltre la vetrina, la strada a due corsie che gli stava dinanzi.

Forse è di conforto sentirsi meno soli, sapere che c’è un uomo accanto a te che guarda la tua stessa strada e che in qualche modo, quindi, ti terrà la mano. Forse, se quello sguardo amareggiato fosse durato abbastanza, se solo avessero potuto trascorrere un po’ più di tempo dietro la vetrina del locale, avrebbero potuto perfino abbracciarsi. Un abbraccio molto ideale il loro, ma pur sempre qualcosa. Due uomini adulti con le teste abbandonate l’uno sulla spalla dell’altro, magari dopo aver bevuto una birra di troppo. Ma la donna dal vestito a fiori passò proprio in quel momento e senza volerlo sfiorò il braccio di un uomo. C’erano degli avventori in quel posto, non era molto affollato ma in ogni caso prendere l’uscita imponeva l’affrontare una breve gincana. Franco si riebbe, ma con almeno qualche secondo di ritardo rispetto al contatto. Prima di uscire, la donna con la coda dell’occhio incontrò per un momento lo sguardo dell’uomo.

 

Non avrei mai pensato che potessi mettermi a scrivere in un contesto del genere. Voglio dire, non avevo mai pensato che potessi trovarmi all’interno di una scena elaborata dal sottoscritto per orientare ad arte lo sviluppo della scrittura. Orientare il disegno dei segni, be’, ecco quando si dice coniare un bel gioco di parole. Perché, in fin dei conti, le parole che sono? E dunque scriverle, né più né meno, equivale a disegnare… Creare un pretesto per filo e per segno e osservarcisi dentro, come ci si muove. Nadia intanto eseguiva le sue figure in modo automatico, sembrava assorta e, nonostante ciò, era in grado di muoversi con eleganza, con fluidità e con grazia. Ed ecco cosa le ho detto, dando anch’io segni evidenti che fossi entrato in uno stato catatonico, assai simile a un disco rotto. Le ho detto questo: «Balla!»

Magari che so, ambivo a preservare quella situazione, situazione che io stesso, come ho detto, avevo contribuito a creare – fatta di tempo ben speso, di azione. E io che… be’, non si vede? Io che mi sentivo parecchio fortunato.

 

Franco si sentì fortunato. Lasciando il bar, quella donna l’aveva guardato. Una donna molto avvenente, vestita di fiori. Che forse, a giudicare dallo sguardo, aveva perfino provato qualcosa.

«…te lo ricordi?» disse tutto d’un fiato.

Mario si voltò pigramente sulla sedia. Adesso anche lui aveva ignorato la strada, il loro patto segreto era stato violato. Fece di no con la testa.

«Il volantinaggio, quanto tempo eh? Ero rimasto solo, il capo ti aveva buttato fuori perché gettavi via tutto il materiale, stronzo che non eri altro… io invece no, lo sai come sono fatto. …non te lo ricordi? Dai, il premio…! Sì sì hai ragione taglio… In mezzo a quello schifo di fatica, no, chi esce fuori dal portone di un palazzo? Una fica… sembra passata una vita dio santo… Quella mi guarda, mi scambia per un militare credo, e mi porta dritto nel sottoscala… Insomma lei rientra con me appresso, ci chiudiamo il portone alle spalle e… la sacca per i volantini aveva fatto il suo sporco lavoro!»

 

Ho cominciato a pensare una cosa da quando Nadia è lì in giro per la sala, che balla: se avessi avuto uno specchio e mi ci fossi guardato dentro, con tutta probabilità avrei visto un dinosauro fatto di solo cervello. Un essere ripugnante, davvero, il terrore dei bimbi che studino troppo, non scherzo… e, pure ora, ora che capisco quanta parte abbia avuto quell’essere obbrobrioso con le sue elucubrazioni e i pensieri e le paranoie, continuo nondimeno a scrivere… Certo, mi sono procurato un contesto dinamico, c’è vita intorno a me: un corpo che balla, e che malgrado una certa ritrosia iniziale ormai è completamente a suo agio...

«Cosa ci è successo poi quel giorno…?» ho rimuginato, o forse mi è scappato detto tra i denti.

Nadia si è interessata al discorso. Si è fermata e mi ha guardato dritto negli occhi. Sì, la stavo guardando a mia volta, mentre pensavo.

 

Trascinò Mario fuori dal locale. Sbucarono d’impeto, il rimbalzo della porta per poco non rischiò di scaraventarli al suolo. Ma non era nei calcoli. Franco stava pensando a una cosa soltanto. Si guardò intorno, tutto agitato.

«Di là» e prese Mario per la spalla, «Cammina!».

Quella donna si vedeva anche da molto lontano. Il vestito nero era pregiato, la distribuzione dei fiori e i loro colori erano finemente lavorati: nessun pericolo che finisse a confondersi tra i passanti – pochi, a dire il vero – né tantomeno che potesse mimetizzarsi in una zona d’ombra tra i palazzi; tra tutti i rischi ipotizzabili, nessuno di loro era quello giusto.

 

È cambiato qualcosa da quando Nadia si è seduta accanto a me sul divano. Sono ancora un po’ stordito, credo che avrei avuto bisogno di più tempo per metabolizzare la scena precedente, quella in cui lei danzava mentre io, ben contento, provavo a scrivere… Invece no, una volta qui Nadia per prima cosa ha raccolto il quaderno che tenevo aperto sulle gambe e lo ha chiuso con cura, per poi deporlo sulla seduta che era rimasta libera al mio fianco. Insomma, si è sporta deliberatamente sopra le mie gambe. E tornando indietro, lenta, nient’affatto agitata, mi ha sorpreso non poco la sua scelta di occupare lo spazio che era stato del quaderno: quello da dove il quaderno era appena stato rimosso. Con che candore, quasi fosse nell’ordine delle cose ci ha posto una mano sopra; la sua splendida mano fatta di dita molto sottili. Dove impugnavo una penna c’era lei adesso, che di nuovo iniziava a muoversi. La faccenda cambiava. La vicenda di Mario e di Franco ha cominciato ad assumere contorni diversi, ben più sbiaditi. Mario e Franco? Perché, che c’entrano loro due con questa storia?

 

La donna si voltava con insistenza. Come in un brutto incubo, la strada percorsa sul filo del rasoio si rimpiccioliva davanti a lei in un budello senza uscita. Incespicava, nervosa e impaurita. Poi poco più avanti si cavò le scarpe, in equilibrio precario su una gamba sola. Cominciò a correre. E loro due dietro.

 

Avrei voluto raccontarlo io il finale della storia di Mario e di Franco, sono onesto. Ero partito per farlo, se solo Nadia non mi avesse interrotto… Disponevo della scena ideale per calarmi nel fatto, l’avevo allestita da me di proposito, avevo fatto davvero un ottimo lavoro, e invece… non si sa mai dove vanno a parare esattamente le cose, dico bene? Ero un dinosauro tutto-cervello, un mostro orripilante e ingordo. E mai prima di allora, mai, giuro, ne avevo avuto una cognizione tanto precisa. Proprio finché non è successo qualcosa, e quel qualcosa mi ha gettato l’acqua in faccia; è stato molto bizzarro scoprirlo allora, lo ammetto. C’era il corpo di Nadia che si muoveva sinuosamente sul mio quando capii che dovevo smetterla: semplicemente, dovevo smettere di guardare. O meglio, dovevo smettere di guardare in quel modo meticoloso e particolare che si definisce comunemente “leggere”, dovevo farla finita di leggere finanche dal suo corpo nudo e smetterla di scrivere di conseguenza, come se scrivere fosse un atto di mera reazione – ahimè, anche le fantasie spesso sapevano di scrittura. Mi arresi. Ero invaso dalle paranoie o forse no, per un attimo mi sono sentito vuoto e sereno. Forse addirittura da molto tempo mi succedeva di credere che non avessi avuto un contatto così diretto con l’esterno. Certo, se me lo avessero raccontato solo ieri mi sarei messo a ridere, forse avrei perfino dato le spalle al mio interlocutore. E invece oggi no, mi viene proprio di dire che… un’altra cosa strana: non ci si rende conto fino in fondo di cosa stia realmente accadendo finché non ci si sbatte forte con il grugno contro. E io e Nadia eravamo lì, proprio in quel posto. Il nostro era un fatto che interrompeva il tempo, architettato a tal punto da sembrare innaturale, pronto a infrangersi per un niente. Come una mano che… e poi un corpo… e i suoi seni, ancora…

 

Sparita era sparita, nulla da fare.

«Cosa diavolo ti salta per la testa?»

«Cammina, non piagnucolare» Franco fiutava l’aria come fosse un cane. «La sento…»

Si udì sbattere un portone. Franco si precipitò, mentre Mario dondolava ciondoloni. Si era chiusa dentro, stava tentando di calzare in fretta e furia le scarpe per salire le scale. Guardando attraverso i vetri del portone, Franco scosse la testa e per la prima volta sembrò scucire qualcosa di molto vicino a un sorriso. Mario lo abbrancò, agendo di lato. Nessuna idealizzazione: c’era foga e sopravvivenza in quel gesto, niente di simile a un abbraccio fraterno.

Eppure Franco riuscì lo stesso a colpire il portone.

La donna trasalì ed ebbe uno scatto, cosa che, con la scarpa a metà, la fece rovinare e cadere ginocchioni. Mani a terra, le si sollevò il vestito sulle cosce. Ma nessuno osò dire una parola. I due se ne stavano mezzo abbracciati, la mano dell’uno protesa in avanti, quelle dell’altro acciuffate a tenaglia. C’era una statua di pietra caduta sul pavimento, dall’altra parte del portone…

 

…raccontare non ha affatto lo stesso sapore.

L’ho capito bene con Nadia, alla quale va un grazie speciale.

Certe cose ci si sbatte contro, oppure niente. Magari ci fanno fare anche dei voli pindarici le cose – belli o brutti che siano – e noialtri che stiamo lì, confusi tra le loro braccia nebulose… ed è così che…

Be’, ora che il dinosauro è stato messo a nanna posso fare una cosa per me davvero poco ortodossa: smettere di pensare.

Arenare la storia per un po’, e sdraiarmi sul divano.

 

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