La stanza numero sei
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La stanza numero sei

 

È un corridoio lungo. A sinistra, finestre affacciate su un cortile buio, a destra una serie di porte, chiuse. I neon sul soffitto emanano luce fredda, il silenzio ingoia il rumore dei passi sul linoleum. Non c’è una via di uscita, non si può tornare indietro, solo proseguire. Fino alla fine.

 

Apro gli occhi di colpo. Ho fatto di nuovo quel sogno. Sarà per qualche film che ho visto. O perché ho fame. Sto seguendo una nuova dieta che ho trovato su internet, non mangio quasi niente. Tre chili a settimana, c’è scritto, se tengo duro ce la faccio. Però, che fatica. 

E c’è questo sogno, che a ogni risveglio mi lascia addosso un malessere fastidioso, che si trascina per ore. Anche adesso lo sento, questo disagio impalpabile, che mi fa alzare dal letto con le gambe pesanti, lo stomaco contratto e un formicolio nella schiena, come se ci fosse qualcuno nascosto a guardarmi e a pensare male di me.

Prendo il cellulare dal comodino e vado in cucina. È domenica mattina, la mamma dorme ancora. Rudy mi viene incontro con la coda a forma di punto interrogativo.

«Fame?»

Il gatto si struscia fra le mie caviglie mentre verso i croccantini nella ciotola, poi si dimentica di me e mangia ignorando la mia presenza. Lo invidio un po’, è lungo e sinuoso, non ha un filo di grasso, eppure passa le giornate appollaiato sul divano, o nella sua cesta imbottita, e d’inverno riesce persino a dormire sdraiato sul calorifero. Non si muove, non fa attività fisica, tranne qualche rara corsetta per afferrare qualcosa che rotola o un paio di salti per acchiappare le ombre sui muri, ma per il resto è uno sfaticato pigrone. Mi chiedo perché non ingrassi, perché non faccia fatica come me per mantenere il peso forma. Vorrei essere un gatto. Vorrei essere lui.

A colazione, la dieta prevede tre gallette di riso con un velo di marmellata. Non danno alcuna soddisfazione, ma le divoro a occhi chiusi immaginando di mangiare una fetta di crostata, mentre sorseggio il mio tè senza zucchero. Un whatsapp di Paola mi invita a un aperitivo in piazzetta. Non devo pensare che ho fame, voglio concentrarmi solo su come mi vestirò per uscire. Ho paura che tutte le mie felpe larghe, quelle che mi coprono i fianchi, siano ancora stese ad asciugare.

 

Il pavimento e le pareti del corridoio sono verdi e l’intonaco, scrostato in più punti, ha qualche chiazza di umido dietro ai tubi che corrono vicino al soffitto. Nella fila di neon accesi, uno lampeggia in sequenze rapide, con un ronzio ritmico, come di un’ape in agonia. Qualcosa interrompe la simmetria del corridoio, c’è una struttura d’acciaio accostata al muro. Ha quattro ruote di gomma, un materasso nero, un’asta verticale che termina con un supporto a gabbia. Una barella da corsia.

È il corridoio di un ospedale.

 

Stamattina mi sono svegliata di soprassalto, sudavo eppure avevo freddo. Nel letto, il lenzuolo mi avvolgeva in una morsa appiccicosa. L’ho fatto ancora, quel sogno, e mi sono alzata già stanca, come se avessi passato la notte sveglia.

La giornata è stata fiacca e noiosa, grigia come tutte le altre. Questa sera la mamma si è messa a cucinare presto perché ha invitato a cena quelli del suo corso di fotografia. Conosce sempre gente nuova e le piace inventarsi serate in cui dimostrare quanto è brava ai fornelli. La regina del focolare. È il suo modo per sentirsi viva e apprezzata, rimpinzare gli amici le mette in moto le endorfine. Adora invitare gente a cena e guardare tutti mangiare fino a scoppiare, perché la compensa di tutto quello che ha dovuto patire con me. Sì, insomma, è la solita storia che racconta sempre, che da piccola io ero sottopeso, non mangiavo e lei era disperata, tanto che doveva escogitare mille trucchi per costringermi a ingoiare qualcosa. Adesso di quei trucchi non ha più bisogno, ormai mangio tutto, tanto, troppo, e ingrasso. Poi devo mettermi a dieta. Nessuna via di mezzo. Sei come tuo padre, dice sempre la mamma, non avete il senso della misura. Anche mio padre è grasso. Ho paura che diventerò come lui, e la mamma non lo sopporterebbe. Perché lei, invece, è magra e perfetta. Eppure mangia quello che vuole. Non so come faccia a mangiare e a restare sempre così. Ogni volta che mi guarda, sento la sua disapprovazione che mi entra sotto pelle. Lo so che cosa pensa, non ha bisogno di parlare. Sei ingrassata di nuovo, dicono i suoi occhi, possibile che tu non abbia nessun ritegno? Nessuna cura per te stessa? Cerco di ignorarla, ma è difficile. Vorrei che non mi guardasse più.

Ho preparato una tisana al finocchio e mi sono chiusa in camera, non voglio cenare con quella gente. Li detesto. Tanto non importa a nessuno, che io ci sia o no, non fa differenza. Con il tablet, compilo un test a crocette sul metabolismo e il sito internet mi propone un integratore che toglie la fame, ma è lo stesso che ho provato due mesi fa e che non è servito a niente. Funziona con tutti, ma non con me. Di là, in salotto, la mamma e i suoi ospiti mangiano e ridono. Io ho talmente fame che mi spazzolerei due pizze intere, ma devo resistere. Tra poco ci sarà il matrimonio di Roberta. Non la vedo da anni, è una di quelle cugine che si perdono di vista volentieri, ma al suo matrimonio non posso mancare, la mamma non lo permetterebbe. E devo riuscire a entrare nel tubino nero dell’anno scorso. È l’unico vestito elegante che ho. Vorrei perdere almeno dieci chili, ma per quel vestito me ne bastano cinque. Devo tenere duro.

 

Lungo il corridoio, le porte chiuse hanno numeri incisi sulle targhette. Uno, due, tre. Sembrano infinite. Quattro, cinque.

Sei.

 

Quel sogno continua a infilarsi nelle mie notti inquiete e ogni volta mi sveglio piena di un’ansia velenosa, che entra nei pori e si diffonde a ondate, ovunque.

Anche oggi mi sono alzata a fatica, senza energie. Al matrimonio, Roberta non mi ha nemmeno riconosciuta. Ha detto che, dopo tanti anni, siamo tutti un po’ cambiati. Ma io l’ho capito che si ricordava di me, di quando ero più magra, e non è riuscita a nascondere la sorpresa. Tutti i parenti avranno visto quanto sono ingrassata. Sono un fallimento totale. Al ristorante, dopo la cerimonia, ho cercato di non mangiare, di assaggiare solo qualche boccone, ma non ho resistito. Ho divorato tutto, antipasti, primi, secondi, poi mi sono buttata anche sul buffet di dolci, i gelati, i budini, la mousse al cioccolato. Mi sembrava di non averne mai abbastanza, mangiavo e ne volevo ancora, afferravo e ingoiavo senza quasi sentire il sapore. Ho provato a chiudermi in bagno per vomitare, ma non ci sono riuscita. Ho fallito anche lì.

Da domani, di nuovo a dieta. Ma ne devo cercare un’altra, questa che sto facendo non funziona. Ho sempre fame e non perdo nemmeno un etto. Serve un’altra soluzione.

Vorrei solo smettere di fare quel sogno.

 

La porta della stanza numero sei è socchiusa. Dallo spiraglio si vedono una parete di piastrelle bianche, una finestra, le gambe d’acciaio e le ruote di una barella. È come quella parcheggiata nel corridoio, ma il materasso è coperto da un lenzuolo bianco che nasconde la sagoma di un corpo.

 

Adesso il sogno mi fa paura. È diventato un incubo a puntate, ogni notte se ne aggiunge una nuova e questa mattina mi sono svegliata urlando.

A scuola c’era l’interrogazione di filosofia. Non è andata male, a parte che ho detto Plank al posto di Kant. La prof non ci ha fatto molto caso, lei non sa che Plank è il nome di una dieta, una delle tante che ho fatto. Che non è servita a niente.

Ho pranzato fuori con Paola. Cioè, lei ha pranzato, io ho solo preso un centrifugato di verdura. Le ho raccontato il mio sogno e lei mi ha detto che devo smettere di digiunare, che è la fame ad alimentare i miei incubi. Intanto, lei mangia e io ingrasso. Sempre la stessa storia.

Accanto al nostro tavolo c’erano le stronze di quarta B, le fighette della scuola, le ho sentite parlare di un farmaco che accelera il metabolismo. È roba vietata, ha detto quella bionda, non si trova in farmacia. Qualcuno ci è rimasto secco, pare. Peccato, ho pensato, sarebbe proprio quello di cui ho bisogno. Che bello poter mangiare di tutto, senza preoccupazioni. Mangiare e dimagrire, mangiare e dimagrire. Ho già fame solo a pensarci.

Intanto, ho memorizzato il nome di quel farmaco e sono andata a cercare notizie su internet. Si chiama DNP, e procurarselo sembra impossibile, in Italia hanno bloccato le importazioni. Dicono che nemmeno i medici possano prescriverlo, perché gli effetti collaterali sono spaventosi. Collasso, paralisi, morte. Ma queste cose succedono agli altri, non a me. Mi basterebbe prenderlo per poco tempo, e smettere quando avrò ottenuto i primi risultati. Potrebbe essere la soluzione giusta, finalmente. So anche a chi chiedere aiuto, c’è quell’amico della mamma, Filippo, che è un patito del dark web e conosce tutti quei siti strani e, soprattutto, illegali. È vero, la mamma non esce più con lui da un po’, adesso si è messa con un fotografo che somiglia a Johnny Depp, ma non è un problema, a Filippo ero simpatica e ho ancora il suo numero. Per i soldi, invece, chiederò a mio padre. La mamma dice sempre che lui non paga mai abbastanza per me, che deve essere lei a insistere per il bonifico tutti mesi, ma io riesco sempre a farmi dare quello che voglio, senza che lui faccia domande. L’importante, dice, è che non gli rompa le palle.

Con il DNP perderò dieci chili in poco tempo. Forse anche dodici. Non vedo l’ora. Potrò mangiare quello che voglio e dimagrire. Mi guarderò di nuovo allo specchio senza inorridire, ricomincerò a portare le gonne corte e le magliette aderenti. Sarà una liberazione.

 

Entro nella stanza numero sei e il mio respiro si condensa in nuvole di vapore che l’aria gelida dissolve lentamente. Non mi ero ancora accorta del freddo.

Sollevo un angolo del lenzuolo e scopro il corpo lentamente.

I capelli sono legati con un elastico. Sembrano bagnati. Forse sono stati lavati. Li tocco, poi appoggio la mano sulla fronte. È fredda. Guardo le labbra viola, le ciglia che sembrano due millepiedi adagiati su un viso bianco come gesso.

Quel viso è il mio.

Sollevo il lenzuolo ancora un po’, appaiono il collo e le spalle nude. Vedo spuntare le due cicatrici dell’incisione a Y. Sono state ricucite con un filo grosso, senza nessuna cura, senza grazia. Non sono suture da chirurgo plastico. Non ne ho più bisogno.

Continuo a scostare il lenzuolo, lo faccio scivolare più in basso. Il corpo è magro. Ero magra. Non riesco a credere di essere sempre stata così magra.

Il cielo fuori dalla finestra comincia a schiarire, è quasi l’alba. Rimetto a posto il lenzuolo. Tra poco arriverà gente, gli inservienti dell’obitorio, quelli dell’impresa funebre, forse anche la mamma, e nessuno deve accorgersi che sono stata qui. Esco e chiudo la porta. Il neon che lampeggiava si è spento del tutto.

Mi allontano e mi chiedo come mi vestiranno per il funerale. Ma già lo so. Ho un solo vestito elegante, il tubino nero delle occasioni importanti. Sono sicura che mi starà bene.

 

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