Ottusa e violenta, l’ItalSacil insisteva sulla riva occidentale del Sebino, deturpandola, come un incisivo cariato nell’altrimenti meraviglioso sorriso di una bella donna. L’ingegner Vimercati guardava il cementifico e, più lo guardava, meno lo capiva. Si grattò la testa e si girò verso il lago, dando le spalle alla fabbrica e al monte Saresano, che la sovrastava minacciando di piombarle addosso da un momento all’altro. Passò un grosso camion diretto al cementificio, sollevando una gran nuvola di polvere. L’ingegnere strizzò gli occhi e aspettò che la nuvola svanisse. Poi sputò il saporaccio che la polvere gli aveva prodotto in bocca e si avviò a piedi verso il paese di Tavernola, che distava nemmeno un chilometro.
Appena lasciato il cementificio, la costa, e di conseguenza la strada che la seguiva, formava una piccola insenatura che si manteneva sempre in ombra. Il lato a monte della via era sostenuto da un alto muraglione, al di sopra del quale un rigoglioso giardino nascondeva alla strada una villa dei primi del Novecento, la cui visuale, al contrario, era aperta sul luminoso panorama che il lago sapeva offrire in giornate di sole come quella. Gli effetti benefici che la vegetazione faceva scendere verso il basso, si combinavano così con l’ombrosità di quel tratto di litoranea e con l’effetto temperante che il lago aveva su una primavera già calda, lasciando godere al passante l’ossigenata frescura che l’ingegnere trovava davvero rigenerante, senz’altro per il corpo, ma ancor più per lo spirito.
Raggiunta la solita trattoria, si sedette ad un tavolo.
“Cosa le porto?”, gli chiese il signor Angiolino, il burbero titolare, manifestatosi nel suo campo visivo con le gambe leggermente divaricate e i pugni sui fianchi.
“Al solito... sarde essiccate e polenta, grazie... e un quartino di vino, per favore”
“Arrivano”, disse l’oste avviandosi verso la cucina.
All’ingegner Vimercati piacevano molto i missoltini, come li chiamavano a Como, dalle sue parti, e li ordinava sempre. Uno dei pochi momenti di piacere in quel gran caos della relazione che si vedeva costretto ad imbastire, tirando le somme di rilievi non suoi, analisi precedenti, conseguenze incalcolabili. Un perenne mal di capo lo affliggeva da quando aveva iniziato quel lavoro.
L’oste arrivò con il vino.
“Allora?”, disse, “A che punto sono i rilievi, ingegnere?”
“Hanno quasi finito... tra non molto credo che avremo il quadro completo”.
“Tanto non viene giù quel costone”, disse l’oste, perentorio, “Mi creda ingegnere, sono cent’anni che si muove, ma non è mai successo niente”.
L’ingegnere non osò contraddirlo. In primis, perché immaginava che al signor Angiolino, corpulento, rubizzo e baffuto, con le dita grosse come salsicce e la parannanza immacolata, non piacesse essere contraddetto. Secondariamente, perché il suo punto di vista non era poi così facilmente attaccabile. Era pur vero che, sette mesi prima, il muoversi del costone, come lo aveva chiamato lui, aveva aperto nella strada alta, quella che collegava direttamente i paesi di Vigolo e Parzanica, crepe di una larghezza tale da inghiottire tranquillamente la ruota di un camion; ma era altrettanto vero che i movimenti si erano via via ridotti a pochi millimetri al giorno, fino alla sostanziale stabilità che, al momento, perdurava ormai da tre settimane. Era uno schema, questo, che ciclicamente si ripeteva dal 1905, da quando cioè l’ItalSacil, nel suo grigiore da topo, aveva cominciato a rosicchiare la base del monte Saresano, per ricavare, da quella marna calcarea, il cemento. Avrebbe senz’altro dovuto tenerne conto, nello stendere la sua relazione.
Ficcò quindi il naso nel piatto e mangiò di gusto ciò che nel frattempo gli era stato portato. Poi pagò e, salutato l’oste, uscì diretto al bar sulla strada, dove avrebbe preso il caffè. Gli piaceva berlo in quel posto, perché c’erano i tavolini fuori e, al di là della strada, proprio di fronte, il piccolo molo dove attraccavano i traghetti che facevano la spola con Monteisola. L’isola lacustre più grande d’Europa, pensa un po’! Ed era andata a capitare proprio nel Sebino, il più piccolo dei quattro grandi laghi lombardi. Era una cosa che, chissà perché, ma fin dall’inizio di quell’incarico aveva colpito l’ingegnere nel profondo, suscitando in lui un vivo interesse per quel corpo idrico che, da lariano, e quindi da abitante di un bacino di dimensioni e fama nettamente superiori, aveva sempre snobbato. Ammirando ora il blu profondo di quel lago, la dolce sinuosità della piccola riviera su cui si trovava, la primitiva bellezza della verde isola che per contrasto troneggiava dirimpetto, l’ingegner Vimercati, per dirla tutta, si sentiva addirittura un po’ in colpa. Non si capacitava di come avesse potuto sottovalutare così quel posto senza nemmeno averlo mai visto. Ed ora che se n’era affezionato, provava un brivido di terrore solo ad immaginare le catastrofiche conseguenze dell’onda anomala alta otto metri che si sarebbe sollevata nel caso dell’avverarsi dello scenario più critico, ovvero la caduta nel lago di tutto il materiale in movimento, cioè due milioni di metri cubi su una superficie di centomila metri quadrati e con uno spessore medio di una ventina di metri. Era forse lo scenario meno probabile, ma pur sempre possibile. E anche di questo bisognava tener conto.
Si sedette ad un tavolino del bar e ordinò il caffè.
“Buongiorno ingegnere”, lo salutò il sindaco che stava passando proprio in quel momento.
“Ah, buongiorno!”, disse lui, accennando ad alzarsi dalla sedia.
“Stia pure, ingegnere”, disse quello, “anzi, se permette mi siedo anch’io con lei...”
“Prego, anzi... mi fa compagnia”.
“Ha già ordinato?”, chiese il sindaco, sedendosi al tavolino.
“Sì, un caffè”.
“Un caffè anche per me, Gigi!”, gridò il sindaco con piglio allegro sporgendosi, pur senza alzarsi dalla sedia, verso l’interno del bar.
Se l’oste era decisamente un uomo del secolo scorso, il sindaco Rivadossi, era senz’altro un uomo del nuovo secolo. Poco più che un giovanotto, dal taglio di capelli molto moderno, portava un imponente e pettinatissimo ciuffo che, per l’evidente utilizzo di un’invisibile sostanza, riusciva a fluttuare nell’aria senza crollargli sulle lenti bifocali, sostenute anch’esse da una montatura talmente leggera da risultare invisibile. Sembrava pieno di voglia di fare e di un’energia, praticamente illimitata, che, si capiva subito, intendeva mettere totalmente a disposizione della sua comunità. Da come la gente intorno lo aveva salutato al suo arrivo, e dagli sguardi sorridenti e benevoli che i passanti gli lanciavano, pareva di capire che fosse ben voluto da tutti.
“È stato a mangiare da Angiolino?”, chiese all’ingegnere.
“Sì, perché?”, rispose quello.
“No, niente”, disse il sindaco, sorridendo sotto i baffi che non aveva, “Mi chiedevo se anche oggi le avesse detto che il monte non verrà mai giù, che non è mai successo niente, che la frana sono tutte storie, eccetera, eccetera”.
“Qualcosa del genere, sì”, rispose l’ingegner Vimercati.
“Cosa vuol mai, ingegnere”, disse il sindaco, “Angiolino è un uomo d’altri tempi... e guai a toccargli l’ItalSacil, a quelli della sua generazione!”
“D’altra parte”, proseguì dopo una breve pausa, “deve capire che quando Angiolino era giovane, qui non c’era proprio nulla... intendo dire zero prospettive, nulla di nulla... si doveva emigrare in Svizzera, per lavorare, o chissà dove... e magari lasciare la famiglia a casa... lei capirà quindi che, in quel contesto, un imprenditore che ti offre un posto di lavoro vicino a casa... qualunque lavoro... è visto come un benefattore!”
“E stiamo parlando di quattrocento occupati, mica pochi!”, continuò, “Questo ovviamente nel periodo d’oro dell’azienda... gli anni sessanta, settanta, anche i primi anni ottanta... occupati tutti della zona, intendiamoci... Tavernola e paesi limitrofi... ma adesso, ingegnere!... stiamo parlando di quaranta occupati... quaranta! di cui a mala pena una ventina sono del paese...”
“Ecco i vostri caffè”, lo interruppe il barista, depositando le tazzine su tavolo.
“Segna a me, Gigi”, disse il sindaco, “non ho il portafogli...”
“Faccio io”, disse l’ingegner Vimercati, infilando la mano nella giacca per estrarre il suo.
“Ingegnere, non mi offenda!”, disse il sindaco, facendo un cenno di intesa al barista.
Gigi si dileguò diligentemente dentro al suo bar.
“Voglio dire”, riprese il sindaco sorseggiando il caffè, “che, ora come ora, possono creare più posti di lavoro gli olandesi, che il cementificio...”
“Olandesi?”, chiese l’ingegner Vimercati, fermatosi con la tazzina a mezz’aria.
“Ma sì, ingegnere... i turisti... turisti olandesi!”, disse il sindaco, “Lei forse non lo sa, ma se da voi, sul lago di Como, vengono soprattutto gli americani, e il Garda è considerato il regno dei tedeschi, sul Sebino ci vengono da sempre gli olandesi... più sulla sponda bresciana, a dire il vero... soprattutto nei campeggi... ma negli ultimi anni cominciano timidamente a farsi vedere anche da questa parte... se fa caso alle targhe delle macchine ne incrocerà senz’altro qualcuno...”
“Interessante... non lo sapevo”, disse l’ingegnere, “ma non capisco, Rivadossi, cosa c’entri questo con la nostra frana...”
“Ma come, cosa c’entra... ingegnere!”, proruppe il sindaco, “È sempre dell’ItalSacil che stiamo parlando!... sono loro, con l’attività estrattiva, che innescano i movimenti della montagna... e sono sempre loro, se mi permette, che fanno da freno allo sviluppo turistico di questa zona... sarà d’accordo, ingegnere, che un cementificio, come biglietto da visita, non sia un granché!... Io dico che potremmo tranquillamente farne a meno”.
“Posso anche essere d’accordo per il turismo”, disse l’ingegner Vimercati, “ma proprio stamattina ho incontrato il dottor Cortinovis, il direttore tecnico dello stabilimento, e mi ha assicurato che è da più di dieci anni che non cavano nella zona della frana”.
“Sì, vabbè”, disse il sindaco, quasi scocciato, “come a dire che le esplosioni che usano per cavare... le volate, come le chiamano... con le vibrazioni che creano, non sono in grado di provocare frane, anche a distanza...”
Il discorso si fermò, restando come sospeso, e i due ne approfittarono per appoggiare le tazzine ormai vuote sui rispettivi piattini. Si girarono poi entrambi verso il lago e, neanche si fossero messi d’accordo, socchiusero contemporaneamente gli occhi per il riverbero dei raggi solari che lo specchio d’acqua faceva rimbalzare su di loro. Rimasero per un po’ in silenzio, l’ingegnere a godersi quel piccolo momento di pace, rigirandosi in bocca il sapore del caffè, l’altro a frugarsi in testa alla ricerca di nuovi e più convincenti argomenti.
“Sa che tre anni fa abbiamo fatto un referendum qui in paese?”, riprese il sindaco, cambiando apparentemente discorso e con tono pacato, quasi sussurrando, come a tastare il terreno.
“Sì, mi hanno detto”, fece l’ingegnere.
“Ma io mi domando, santo iddio, se al Ministero e alla Regione abbiamo dei matti o che cosa!”, ripartì a testa bassa il sindaco, sentito che l’altro gli dava corda, “da una parte stanziano fondi per lo sviluppo turistico e dall’altra stavano per dare la concessione a questi qui di bruciare i rifiuti... ma non si rendono conto che le due cose non vanno d’accordo? che non stanno proprio insieme?... Certo, bruciare i rifiuti nell’altoforno costa sicuramente meno che alimentarlo con il carbon coke, ma... l’aria che respiriamo?... e poi basta con questi ricatti sui posti di lavoro!... non si può far scegliere la gente tra il lavoro e la salute, su!...”
“E quindi?”, chiese l’ingegnere, “Non ho capito... in che termini avete posto esattamente il quesito referendario?”
“Premettiamo, ingegnere, che, il referendum era solo consultivo e non vincolante... eppure, le dico sinceramente, non è stato facile formulare la domanda... ci abbiamo ragionato un bel po’... alla fine abbiamo deciso di porla in questo modo... me la ricordo ancora a memoria”.
“Ritieni che il Comune debba agire nella direzione della riconversione o dismissione del cementificio verso altre attività a ridotto impatto ambientale e paesaggistico?”
“Uhm... mi sembra ben posta”, disse l’ingegner Vimercati, “e com’è andata?”
“L’89% dei votanti ha detto sì!”, disse il sindaco trionfante, “la volontà dei cittadini mi sembra inequivocabile... è un dato di cui mi auguro terrà conto nella stesura della sua relazione”.
“Ne terrò conto senz’altro, non si preoccupi”, disse l’ingegner Vimercati, a cui un vago supplizio ricominciava a stringere d’assedio le meningi.
“Adesso mi vorrà scusare”, disse alzandosi dalla sedia, “ma tra meno di mezz’ora ho un appuntamento con il geologo per valutare gli ultimi dati che hanno raccolto...”
“Ma ci mancherebbe, ingegnere”, disse il sindaco, alzandosi anche lui, “anzi, buon lavoro!”
“Grazie del caffè, Rivadossi”, lo salutò l’ingegnere, “e buona giornata”.
“Arrivederci”, ricambiò il sindaco.
L’appuntamento col geologo era alla base della frana, poco oltre l’ingresso dell’ItalSacil, dove, prima di pranzo, aveva incontrato il dottor Cortinovis, il direttore tecnico dello stabilimento.
Mentre si incamminava ripensò al fatto che Cortinovis, se pur giovane come il sindaco, era completamente calvo, ma pareva avere in corpo la stessa tenace e inesauribile energia, che, in questo caso, veniva però messa a completa disposizione dell’azienda per cui lavorava.
Lo aveva accolto in modo molto affabile e gli aveva fatto fare il giro completo dello stabilimento, col chiaro intento di escludere che si potesse pensare che l’ItalSacil avesse qualcosa da nascondere. Lui, dal canto suo, aveva avuto l’impressione che, lì dentro, nonostante gli evidenti sforzi dell’azienda per rendere piacevoli almeno gli uffici, fosse tutto ricoperto dalla stessa patina grigia e che, anche l’elegante completo indossato dal dottor Cortinovis, fosse di quel colore solo perché un sottile strato di polvere di cemento si era depositata sull’abito.
“Non voglio certo entrare in questioni politiche”, aveva cominciato ad argomentare il direttore mentre gli faceva indossare, e indossava lui stesso, una pettorina fluorescente e un caschetto bianco, “ma in questo paese dobbiamo una volta per tutte decidere: o vogliamo davvero la sostenibilità e l’economia circolare di cui si parla tanto... e allora mettiamola in pratica!... oppure la riteniamo completamente inutile o, se vuole, non attuabile... e allora gettiamo la spugna! ci rinunciamo e basta!”
“Cosa le voglio dire, ingegnere” aveva continuato, alzando la voce per sovrastare il frastuono che iniziavano ad affrontare attraversando lo stabilimento, “semplicemente che la produzione di cemento richiede un elevato consumo di energia... Per produrre il clinker, componente base del cemento, i cementifici devono riscaldare a 1500 gradi il calcare e le altre materie prime minerali... cioè a dire che per produrre una tonnellata di clinker sono necessari circa 135 chilogrammi di carbon fossile, mi segue ingegnere?...”
Preferendo non sforzare le corde vocali, lui aveva silenziosamente annuito. Il fragore dei macchinari era d’altronde così forte, che per capire cosa il direttore gli stesse dicendo era costretto a concentrarsi sui movimenti delle sue labbra, non riuscendo a vedere nulla degli impianti che quello gli stava mostrando.
“Ora, se i combustibili fossili sono sostituiti dai rifiuti, diminuiscono le emissioni complessive di CO2... e non stiamo parlando di rifiuti urbani, sia chiaro!... solo i rifiuti a basso tenore di sostanze inquinanti si prestano come sostituti del combustibile... sono i cosiddetti CSS, i Combustibili Solidi Secondari... sarà d’accordo, ingegnere, che sia meglio utilizzare questi rifiuti, togliendoli alle discariche e agli inceneritori, anziché importare carbone proveniente dall’estero...”
Lui aveva annuito di nuovo, ma questa volta con maggior fatica, non sopportando già più il rumore cupo, sordo e continuo che, a seconda di come la muoveva, gli rimbombava in testa con più o meno intensità.
“Ecco come si fa l’economia circolare, ingegnere!”, aveva incalzato il direttore, “ecco la sostenibilità!... L’utilizzo dei combustibili alternativi è molto diffuso nel Nord Europa... perché non possiamo farlo anche noi?”
Il dottor Cortinovis si era poi fermato scuotendo amaramente la testa.
“Lo sa che l’amministrazione comunale ha indetto un referendum contro di noi, qualche anno fa?... Risultati tutti da interpretare, ad essere sinceri, visto che i votanti sono stati appena più del 50% degli aventi diritto... ne abbiamo preso atto, comunque, e guardiamo avanti... ma le voglio dire una cosa!...”, aveva esclamato piantandosi di fronte a lui.
“Sentirà circolare fantasiose ipotesi sul futuro di questo impianto, che qualcuno vorrebbe ormai in fase di dismissione... Voglio assicurarle che non è così!... Finché gli Enti preposti ci autorizzano, e finora lo hanno sempre fatto, intendiamo far valere la concessione mineraria che ci è stata rilasciata e rinnovata negli anni... ne abbiamo pieno diritto!... crediamo che la nostra cementeria abbia ancora un grande potenziale e intendiamo proseguire nella nostra attività, continuando a fabbricare un eccellente prodotto e offrendo lavoro, direttamente e attraverso l’indotto...”
Si era infine interrotto, come pensieroso.
“D’altra parte”, aveva concluso, “è a lei, ingegnere, che è stato affidato l’incarico di monitorare e studiare la situazione, ed è lei che definirà gli scenari di rischio e i conseguenti piani d’azione. Noi restiamo in attesa delle sue conclusioni e delle decisioni che ne deriveranno... Le rispetteremo alla lettera! non dubiti...”
Poi, finalmente, il direttore lo aveva portato in una saletta appartata e decisamente più silenziosa e gli aveva mostrato l’unica cosa che davvero gli interessava.
“Vede, ingegner Vimercati”, gli aveva spiegato, indicandogli tre grandi schermi pieni di linee colorate e puntini lampeggianti, "questo è il sistema di controllo strumentale dell’area franosa... qui può osservare i rilievi degli strumenti che tengono monitorati in tempo reale i movimenti del Monte Saresano... è ItalSacil che si è assunta l’onere di allestire questo sistema di monitoraggio all’avanguardia... lo abbiamo fatto autonomamente... nessuno ce lo ha chiesto!... lo abbiamo fatto solo perché teniamo alla sicurezza dei nostri lavoratori e della comunità di Tavernola!... e, badi bene ingegnere... è solamente grazie a questo sistema di monitoraggio che è stato possibile individuare i recenti movimenti del corpo franoso!... Se non era per noi, che abbiamo rilevato tempestivamente delle criticità, lei, in questo momento, non sarebbe nemmeno stato qui...”
Quindi aveva preso ad indicare col dito i vari puntini lampeggianti sugli schermi:
“Ci sono, pensi, cinque postazioni Gps monitorate via satellite con registrazione automatica della posizione, una postazione fissa dalla quale sono acquisite immagini da 36 prismi ottici, diciotto inclinometri con profondità compresa tra dieci e settanta metri, sei cavi a riflettometria per il monitoraggio dei movimenti franosi sulla base della deformazione dei cavi stessi, dodici estensimetri sub-orizzontali e otto a filo in superficie... Stiamo mettendo a disposizione tutte le informazioni utili e abbiamo partecipato a tutti gli incontri con la popolazione per offrire la maggior trasparenza possibile... più di così mi dica cosa dovremmo fare!...”
Ripensandoci, considerò che anche il discorso del dottor Cortinovis, almeno formalmente, non faceva una grinza, e anche di questo bisognava tener conto.
Mentre camminava verso il luogo dell’appuntamento, fu superato da un’automobile con la targa gialla. Senz’altro degli olandesi! pensò l’ingegnere, osservando d’altronde che gli occupanti, due genitori con tre bambini, avevano tutti la testa dello stesso colore della targa. Poco più avanti la macchina si fermò. C’era infatti un semaforo che regolava un breve tratto a senso unico alternato appena prima del cementificio. Raggiunse così facilmente l’auto, che il semaforo rosso non lasciava ripartire e, affiancandola, non poté fare a meno di notare lo sguardo con cui quei piccoli esseri, così poveri di melanina, osservavano l’ItalSacil. Avevano l’espressione attonita, turbata ed anche un po’ schifata, di chi ha appena visto una cacca nel bel mezzo di un’allegra tovaglia imbandita per un pic-nic. I genitori sembravano invece più rassegnati, ma comunque impazienti di passare oltre, come per togliere il prima possibile la loro prole dalla vista di certe sconcezze. Immaginò la fatica di quei genitori nel dover poi rispondere alle mille domande di quelle biondissime creature, e a dover loro spiegare cosa mai ci facesse, lì, un cementificio. E concluse che, quello sforzo, sarebbe forse stato un salutare esercizio anche per loro, se davvero volevano lontanamente cominciare a capire la contraddittoria bellezza del paese che avevano scelto come meta per le loro vacanze.