All’incrocio di piazza Numa Pompilio si sono fermati tutti perché la sirena spiegata mette soggezione. Via delle Terme di Caracalla, i vecchi pini in fila lungo la strada, tempo fa passando di lì in macchina con una ragazza brasiliana ricordo che mi chiese stupita che alberi fossero, e ogni volta che ci passo mi viene in mente perché penso che chi conosce la flora dei tropici la deve sapere lunga sugli alberi.
Ma ora bado a guidare e a fare le cose per bene, devo rimanere concentrato, faccio un lavoro importante. Io trasporto sangue e organi umani. Ma è quando trasporto gli organi che mi sembra di fare un lavoro ancora più importante di quando trasporto le provette impilate in fila con il sangue dentro. Devo essere sveglio, perché c’è sempre qualche automobilista imbestialito che, nonostante la sirena e la scritta sullo sportello TRASPORTO SANGUE E ORGANI, prova a fare il furbo oppure ha fretta e pensa che il mio lavoro non sia questione di vita o di morte, non lo so cosa pensano di preciso, invece lo è una questione di vita o di morte.
Sto tagliando verso una strada che costeggia le Terme di Caracalla, poi prendo viale Giotto che è in discesa, sulla destra ci sono le case senza intonaco e i mattoni rossi a vista. Mi aspettano al San Camillo, oggi sto trasportando un rene. Consegno un rene. Ma è il cuore il mio organo preferito. Non lo so il motivo. Credo perché un sacco di gente è sentimentale e li disegna sui muri delle città trafitti con una freccia e con le iniziali dei nomi degli innamorati e ci diventano familiari. Sono in contatto con il reparto, comunico se c’è traffico o qualsiasi imprevisto così loro si regolano sui tempi di attesa e sono pronti appena arrivo, non si spreca un secondo.
I primi tempi immaginavo gli organi che trasportavo, li vedevo nella scatola assecondare le buche della strada e galleggiare dentro il loro liquido di conservazione, pulsare scandalosi fuori dal corpo che era loro appartenuto, nella propria cruda concretezza, indecenti come ciò che deve restare coperto e invece viene esposto. Una volta ho visto su YouTube un cuore umano appena espiantato e ho smesso di immaginarlo. Troppo complicato. Il sangue pasticcia tutto, confonde, non riconoscevo le valvole, gli atri, i ventricoli, perdevo confidenza con la mia fantasia. L’aorta no, è l’unica cosa che ho riconosciuto perché sta in alto e sembrano tre dita. Tutta quella complessità mentre io il cuore lo avevo idealizzato, l’immaginavo come su un sussidiario delle elementari, invece in quel video era un pezzo di carne che trema al freddo, ci sono rimasto male.
Dietro nel vano a temperatura controllata fissata con delle cinghie ho una sacca azzurra con scritto ISOTERMICO, tipo quella delle pizze che il sabato sera i bengalesi trasportano con la bicicletta. Dentro la sacca termica c’è una scatola di plastica eh, mica è sufficiente la sola sacca. Ci sono tre recipienti ognuno dei quali si posiziona dentro l’altro. Non consegno carne alle macellerie, con rispetto parlando. È tutto fatto bene, rispettiamo i protocolli, io poi manco ho mai visto bene cosa c’è dentro la sacca azzurra perché il mio dovere è guidare e sono gli infermieri che fanno tutto.
Quando arrivo nel cortile dell’ospedale abbiamo il nostro parcheggio che è vicino al reparto, o alla sala operatoria, non lo so. Mi piace questa cosa del parcheggio tutto nostro, è il riconoscimento di quanto è importante il mio lavoro, c’è proprio un cartello con scritto RISERVATO TRASPORTO SANGUE E ORGANI. Fa sentire importanti. Io apro il portellone del Volkswagen bianco e basta. Che bell’appuntamento con gli infermieri ogni volta. Mi fa pensare che tra i pochi ripari all’infelicità ci stanno le coincidenze. Li guardo mentre prendono la sacca nel porta bagagli, sembra che stanno prendendo in braccio un neonato, a me viene l’ansia, trattengo il respiro come al circo quando guardavo l’acrobata in equilibrio sul filo, l’ultimo metro, l’ultimo sforzo dove si rischia di buttare via tutto il ben fatto. Sono in due, uno si china delicatamente, mette la testa dentro il vano e solleva con cura la borsa, l’altro guarda e non fa niente ma è pronto a intervenire se c’è bisogno. È il protocollo.
Quello è un bel momento, appena parcheggio e apro il portellone dico, mi stiro la schiena perché per arrivare fino a lì ho caricato un bel po' di tensione in mezzo al traffico. Sono soddisfatto, ho proprio l’impressione che è il momento più importante del mio lavoro. Quando si apre il portellone e tutti i presenti fissano per un attimo la stessa cosa con soggezione, in quel preciso momento ognuno di noi guarda quel punto esatto e ci sembra un miracolo. È il momento della consegna. Però mi rimane addosso una coda di dovere, è come se il mio lavoro non fosse del tutto finito, ma che altro dovrei fare? Mi sento ancora responsabile di qualcosa, ma di cosa? Solo quando gli infermieri spariscono dietro una vetrata con in braccio la sporta e vedo le porte che si chiudono dietro le loro casacche verdi, di spalle, mi sento libero come un tuffatore che finalmente si è staccato dal trampolino.
Mi accendo una sigaretta e mi rilasso veramente, però dura poco perché sono fatto così, è il mio carattere, non riesco mai a rilassarmi più di tanto. Ogni cosa mentre è mi delude o mi agita, mentre quando è passata la rimpiango. Allora se ci sono dei capannelli di medici e infermieri in pausa, origlio, si dicono cose serie, come c’è da aspettarsi, qualche omaggio alle tentazioni, robe tra maschi immaturi, ma anche aneddoti terrificanti o succosi che avvengono nei pronto soccorso nelle notti insonni mentre il resto della città ignara sogna e ha gli incubi nelle proprie case.
A casa mi aspetta il riso allo zafferano, quello che mi piace tanto avanzato da ieri. Lo vedo dentro il frigorifero, vedo prima il frigorifero bianco e poi il piatto con il riso, i chicchi ammucchiati compatti tra loro fanno una montagnetta ingiallita dallo zafferano, coperta da un altro piatto, sta sopra la griglia del ripiano. Faccio l’autopsia alla casa, inizio con la cucina prima di decidere se tornare o starmene in giro con la macchina senza una meta precisa. Immagino il divano e la sala polverosa immersa nella penombra tiepida in un silenzio immobile. Mi piace. La consolle con il monitor e tanti fili ingarbugliati come i miei pensieri, dove passo le notti insonni a chattare con ragazze che non conosco, è al suo posto.
Ma oggi è una bella giornata di maggio, il cielo terso che ha conquistato ogni angolo della città mi infonde coraggio ed energia. Dentro la macchina il telefono di servizio squilla. Cerco ingenuamente solidarietà, devo aver guardato in modo strano un uomo lì vicino con un camice bianco sbottonato, ha almeno quattro penne infilate nel taschino. Sta appoggiato a un muro mentre fuma un’altra sigaretta. Lui ricambia lo sguardo, ha un paio di epoche alle spalle, si è accomodato al suo posto e osserva scettico il mondo. Il mondo che ospita una gara infinita tra la felicità e l’infelicità.
Penso a un’emergenza perché il mio turno è finito. Rispondo. Qualcuno ha sbagliato numero. I lineamenti del mio viso che si erano irrigiditi poco prima si distendono e la mia bocca comincia e finisce un sorriso chiuso. Controllo il meteo sull’app del telefono per vedere se il cielo di Ostia è come il cielo di Roma. Cerco di chiudere una dopo l’altra le pagine del dovere dentro le quali mi sono cacciato fin dalla mattina. Il risotto allo zafferano può aspettare perché vorrei raggiungere il mare, sedermi e bere una birra mentre guardo verso l’orizzonte ampio che mi toglie per un po’ l’affanno della vita. La radio dal cruscotto nero diffonde le canzonette dell’ultimo Sanremo, le note e le parole frullano e si perdono dal finestrino aperto, volano nell’aria, rotolano lontano e sembra che le pretese, gli espedienti lessicali dei cantanti per esorcizzare l’amore si abbassino per essere giusto il discrimine tra la gioia e la disperazione. Quanta esuberanza negli adolescenti a cui è destinata quella musica.
La Cristoforo Colombo è libera, dall’avvallamento della strada affiora, come un sogno impallidito dalla luce tremula, la linea dell’orizzonte anticipata da una striscia di mare celestino. Le tristi siepi di oleandri sudici che separano la carreggiata non possono nulla in questo momento sulla fotogenica oscenità della mia felicità.