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Nascosto dietro la jeep ribaltata tendo le orecchie e aspetto. Il vento spazza la terra dura. Riecheggiano scoppi, lontani. Ho la gola in fiamme, gli occhi che lacrimano. Il mio piede sanguina. Gocce scure si staccano dallo squarcio sul tallone, scivolano tra le dita, ricadono a terra. Formano piccoli solchi che paiono simboli.

Il sole va a conficcarsi dentro il suolo, il cielo compie il suo quotidiano miracolo, si imporpora e poi scolora. Venere splende, grandiosa. Veglia i corpi ancora caldi dei compagni. Un brivido mi corre lungo la schiena. Mi metto in piedi a fatica e mi stringo nell’uniforme impolverata. Mi guardo intorno, miglia e miglia di niente. Mi avvio, zoppicante.

Sono io che cammino ma non sono io.

Strofino il dorso della mano sulla fronte, la manica si alza e intravedo un tatuaggio. Scopro il braccio, un tribale decora la pelle color rame, liscia, senza peli. Mi fermo di colpo. Davanti a me c’è qualcosa, una sagoma grigia, allungata. Familiare. Procede piano sulle zampe tozze, apre la pista. Fisso la lunga coda che ondeggia e fende il terreno come un timone fende l’acqua. Non riesco a trattenere le lacrime. Le volto le spalle, mi dirigo nella direzione opposta.

La luna è alta, illumina il pianoro deserto. Unisco le stelle e mi racconto storie. Il piede pulsa, procedo a rilento. La creatura è tornata. È davanti a me, la sua corazza risplende. Il vento non dà tregua, solleva la polvere. La gola mi tortura. Le gambe diventano rigide, mi lascio cadere. La ferita sgocciola, senza sosta. La bestia torna indietro, mi si accoccola accanto. Io scalcio, la spingo via con i piedi. La sua corazza si tinge di rosso.

 

Mi sveglio con la gola riarsa e il collo indolenzito. Da qualche tempo faccio sempre lo stesso sogno. Le immagini della distesa polverosa restano appese per qualche istante alle palpebre, poi svaniscono. La mia pelle sbadisce, i capelli ricrescono. Spengo la tv e do un’occhiata al telefono. Nessun messaggio. Dovrò farci l’abitudine ma una parte di me ancora non si arrende.

Ho sete. Mi alzo dal divano e mi trascino in cucina. Prendo una bottiglia dal frigo, infilo il piumino, sposto la valigia che ingombra l’ingresso ed esco. Sprofondo su una delle due sedie abbandonate in fondo al ballatoio. Quando tutti dormono io e Elena ci sediamo – ci sedevamo – qui a guardare il cortile buio, illuminato dal rettangolo fluorescente della piscina.

Si è alzato il vento, abbottono la giacca. Con l’accendino faccio leva sul tappo della Lone star, l’ultima della serata. Avrei potuto farne a meno ma ho voluto esagerare, gli ultimi bagordi prima di settimane di privazioni. Do un sorso e accendo l’ennesima sigaretta. Abbasso lo sguardo per cercare il posacenere e vedo la vecchia statua in gesso. Il muso triangolare, il corpo squamoso, la bizzarra corazza scandita da solchi. La lunga coda scrostata. Con i suoi occhi immobili sembra scrutarmi, come se volesse intromettersi nei miei pensieri. Mi inquieta quasi quanto il suo padrone, un militare in licenza che ciondola tutto il giorno. Da quando è rientrato non l’ho mai visto sobrio, riesce a stento a camminare dritto.

Mi allungo sulla seggiola e con il piede faccio ruotare la statua, la metto muso al muro. Sorrido, ma sento che non avrei dovuto. La sedia si sbilancia, si schianta sul pavimento e mi ritrovo a terra, le mani in alto per salvare sigaretta e bottiglia. Il rumore riecheggia per tutto il complesso. Trattengo il fiato. Passo in rassegna le finestre che affacciano sul cortile e aspetto. Restano tutte buie. Mi sento un paio d’occhi addosso. Si è girata, dannazione. Con la punta del piede la rimetto dov’era, rivolta verso la parete. Sorrido ancora e la porta dell'appartamento di fronte al mio si spalanca. «Ah, il petroliere. Tutto ok?» Jay ha la voce roca. Gli occhi, neri come pozzi, sono arrossati.

«Scusa, ti ho disturbato!» Mi rimetto in piedi.

Scuote la testa «Non hai interrotto niente di piacevole, ero avvinghiato a un traliccio. Ogni centimetro del mio corpo era ricoperto di quel disgustoso liquido scuro. Lo sentivo gocciolare dai capelli, viscido. Giù per le tempie, fino alle labbra. E tutt’intorno c’era un inferno di fiamme rosse contro il cielo nero come solo nel deserto. C’erano pure le stelle. Bellissime nonostante gli scoppi, le sirene impazzite, le urla.» Sospira, cupo. Si accende una sigaretta. «Sempre lo stesso sogno, tutte le notti.»

È a piedi nudi, indossa solo un paio di bermuda e una maglietta che lascia scoperte le braccia brune, lisce. Un tribale gli copre l’intero braccio, dal polso alla spalla. Ho già visto il suo tatuaggio, ma non riesco a ricordare dove.

«Fa freddo», solleva la testa verso il cielo rosato, punteggiato di stelle opache. Soffia via il fumo, lo guarda sfilacciarsi. «È il vento dell’Alaska. Non trova barriere e viene dritto fino al Texas a congelarci il culo.»

Viene verso di me. Barcolla, per tenersi in equilibrio agguanta la ringhiera. Da vicino i suoi tratti indigeni sono davvero netti.

 «Quando torni sulla tua piattaforma in mezzo al golfo?» mi chiede.

«Tra qualche ora.»

«La tua ragazza non è venuta a salutarti?»

Non aspetta la risposta, gli sono grato per questo. È troppo attratto dalla mia birra.

«Hai qualcosa da bere? Non ho più niente in casa. Ho bisogno di bere. Mi sono già scolato una bottiglia. Un’altra inutile serata davanti alla tv.» Si passa la mano sulla testa rasata.

Schiaccio la sigaretta nel posacenere. Esito. Non dovrei assecondarlo eppure lo faccio, non so bene perché. Forse cerco un’altra anima in pena con cui passare il tempo.

«Una birra va bene?»

«Ce l’hai? Grazie amico. Qualsiasi cosa, davvero. Basta che sia alcolica.» Mi guarda appena.

 

Jay fissa la lattina di Bud che gli porgo, la afferra. «È la birra che bevevamo in Iraq! Si apre così.» Solleva la linguetta metallica con i denti, la fa scattare. Si porta la birra alla bocca e nella foga ne rovescia qualche goccia sulla T-shirt.

«E io che faccio di tutto per non pensare a quel cazzo di posto...»

Abbozzo un sorriso di scusa. «Quando torni sul campo?» chiedo.

Scuote la testa. «No, amico. Sono stato riformato. La vita aveva altri programmi per me. Non ho ancora capito quali, ma sicuro fare il soldato non era il mio destino. Avrei dovuto cogliere i segnali...» Jay lancia il mozzicone nella piscina.

Solleva brusco la Budweiser e se ne versa ancora addosso. Dà un’altra sorsata, scuote la lattina per assicurarsi che sia vuota, l’appoggia per terra e la appiattisce con un colpo secco di tallone.

 «Chi sposta sempre la mia statua?» Jay le si avvicina. Trascina a fatica una gamba. Con un piede spinge la scultura in fondo al corridoio. Macchie scure compaiono sulla corazza bianca.

Ho una strana sensazione.

«La prima volta che mi ha tirato fuori dai guai ero un ragazzino...»

Tutto il pianerottolo è chiazzato di rosso. Seguo le tracce e vedo sangue fresco sgorgare da sotto il piede di Jay. Lui torna alla ringhiera, non si accorge di nulla. Racconta di una banda di picchiatori bianchi e di una creatura che l’ha guidato al sicuro, dentro la riserva. Le sue parole si fanno distanti. Mi rivedo nel deserto rischiarato dalla luna, rivedo la bestia accucciata accanto a me, rivedo il mio piede ferito che la spinge e la corazza che si impregna di sangue.

«È stata lei a scegliere me. E poi ha continuato a comparire in sogno» prosegue.

Accende una sigaretta e fissa la vasca fosforescente.

 Che cosa ci fa Jay nel mio sogno?

«Da quando sono entrato nell’esercito ha smesso di farmi visita. Nel sogno la aspetto, a mollo nell’acqua che va a fuoco, ma non si fa viva. Quattro anni di silenzio. Solo la notte dell’imboscata è tornata, in carne e ossa.»

Faccio fatica a seguire il suo discorso ma me lo impongo. Voglio capire.

Tiene la Marlboro in un angolo della bocca, gli occhi socchiusi.

«È apparsa, nel mezzo del deserto. Eravamo tre jeep, io guidavo. Ero così contento di rivederla che l’ho seguita senza pensare, ho lasciato la pista. Siamo saltati in aria, su una mina. L’auto si è ribaltata, io mi sono ritrovato a terra, con un piede squartato. I compagni invece... sono rimasti incastrati nelle lamiere, come in una lattina di tonno. Gridavano, chiedevano aiuto. I guerriglieri sono sbucati dal nulla, hanno iniziato a sparare sulle altre jeep. Ho strisciato, mi sono nascosto dietro la carcassa dell’auto. La creatura, rapida, ha scavato una galleria. Mi ha portato al riparo. Ero paralizzato dalla paura, non riuscivo a muovermi. Quando sono tornato in superficie era tutto finito.» Fissa gli alberi che ondeggiano nel centro del cortile, confessa i suoi peccati al vento. «Ho iniziato a camminare. Mi hanno ritrovato due giorni dopo, disidratato, sotto choc. Deliravo. Mi hanno ricucito le ferite e mi hanno rispedito a casa. Per sempre.»

Schiaccia la sigaretta sulla ringhiera. Scrolla le spalle. «A te è già apparsa? La tua guida.»

Dischiudo la bocca, la richiudo. Abbasso gli occhi, scuoto la testa.

Guarda la mia birra, che faccio sempre più fatica a finire. «È vero che sulle piattaforme non si può bere alcol?»

Annuisco.

«Che vita di merda.»

«Già...»

«Ne hai un’altra?» Ha la voce impastata.

 

Mi fermo sulla soglia, la lattina in mano.

Jay guarda a terra. «Ma cosa...?» Solleva il piede, sbianca. Una ragnatela scura gli traversa la pianta, da parte a parte. Interseca la nuova ferita. Jay è rosso in viso, ha le narici dilatate, gli occhi lucidi. Afferra la statua e arranca verso il parapetto. La solleva e la scaglia giù nella piscina. Sento il tonfo, gli spruzzi che ricadono sull’acqua.

«Smettila di tormentarmi!» le grida. Si sporge e sputa di sotto.

Una finestra si illumina per un istante e subito torna scura.

 Trattengo il fiato e mi appoggio allo stipite della porta.

«Eccoti finalmente!»

A passi lenti lo raggiungo. Jay prende la lattina, la apre, la avvicina alle labbra. Rivoli di birra gli scendono sul mento, sul collo. Si asciuga con un lembo della maglietta e lascia scappare un rutto. Macchie rosse ricoprono i suoi vestiti. Mi appoggio alla ringhiera, la statua è sul fondo della piscina, avvolta da una miriade di bolle.

Jay si prende la testa tra le mani.

«Le mie notti sono un incubo. Il cigolio devastante, il salto nel vuoto, il traliccio che si schianta sull’acqua, ghiacciata da togliere il fiato. Nera anche lei, viscida. Un’acqua che bisogna serrare i denti per non far entrare in bocca. E poi mi trovo senza appigli. Intorno tutto brucia, anche il mare. Le onde mi sballottano senza pietà. Le gambe, le braccia sono sempre più affaticate, non riesco più a tenermi a galla. Mi manca il fiato. E piano piano mi lascio andare.»

 Lo scenario che descrive è così familiare che per un istante mi gelo.

«Non è la tua storia» mormoro.

«Non sogni mai la tua vita, ma quella degli altri.»

Qualcosa mi sfugge. «Non viene a salvarti?»

Scuote la testa. «Non più. Prima dell’Iraq veniva. Compariva tra le onde. Iniziavo a nuotare nella direzione in cui nuotava lei e raggiungevo una scialuppa.»

Il suo racconto mi rimbomba nella testa.

 Jay vuota la lattina, la schiaccia con il solito colpo di tallone. Il sangue torna a sgorgare dal taglio. «Devo pisciare.» Barcolla sulle gambe malferme. «Amico, mi ritiro. Grazie delle birre.» Mi fa un cenno e rientra.

Gli restituisco un sorriso stentato. Scommetto che il mio nome neanche se lo ricorda. Seguo le tracce sul cemento, dischi scuri che affiancano piccoli cerchi sbiaditi. Una mappa celeste affollata di stelle scarlatte.

 

Il vento mi sferza le guance. Guardo l’orologio, ancora tre ore prima della partenza. Mi prende qualcosa alla gola, una sensazione di angoscia, uno squarcio freddo che si allarga nel profondo. Capovolgo la bottiglia, rovescio la birra che rimane nella piscina. L’acqua ha smesso di gorgogliare, sul fondo della vasca non c’è più nulla. Mi sporgo dalla ringhiera, con gli occhi frugo il cortile, le scale. In fondo al ballatoio intravedo qualcosa. Una forma grigia, allungata, familiare. La lunga coda che oscilla. La bestiola procede piano sulle zampette corte, mi viene incontro. Muove le orecchie.

 

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