1. Massimo
Da un anno a questa parte, verso le cinque-cinque e venti del mattino, mi sveglio senza motivo.
Come ogni mattina, apro gli occhi e vorrei stare un altro po’ nel letto. Mi giro e rigiro, chiudo gli occhi e niente, non riesco proprio a riaddormentarmi. Il sole è già spuntato da dietro le montagne affacciandosi su questo paese che spunta su una collina.
Mi scappa la pipì, devo alzarmi, ma devo prima preparare il caffè. In tutta fretta mi alzo dal letto, mi vesto e vado in cucina. Preparo la caffettiera, accendo il gas e saltellando come un grillo con le mani incrociate in mezzo alle gambe vado in bagno.
Faccio la pipì, abbottono il pantalone, apro il rubinetto e, mentre mi lavo le mani, lascio fluire l’acqua sui palmi e i dorsi, finché la caffettiera non gorgoglia. Quando il coperchio comincia a battere a suon di tamburello, l’aroma riempie la stanza, il profumo del caffè solletica le mie narici e inspirando chiudo gli occhi, per un attimo quando espiro avverto una sensazione ipnotica, i miei sensi si delineano su una sola frequenza; in tutta fretta chiudo il rubinetto, mi asciugo le mani e apro la porta convinto che il caffè l’abbia preparato mia moglie, come se fosse, nella mia mente, in quell’istante fuggente, ancora viva.
Mi avvicino al fornello e tutto svanisce.
La convinzione di ritornare insieme come una volta: di sedermi con te a tavola, di sfiorare le tue labbra e di sussurrarci all’unisono “buona colazione, amore mio” si dissolve nel nulla, in una realtà vera e cruda. Mi sento solo. Troppo solo.
Adesso che potevamo fare una vita più agiata, dopo tanti sacrifici che abbiamo fatto, è volata in cielo.
“Quanto ti amo, Marta! Maledetto cancro!”
In questa casa tutto è rimasto com’era. Niente più è stato mosso. E mai, finché sarò vivo, dovrà essere toccato qualunque oggetto. Da quando è venuta a mancare mia moglie, non ho avuto più il coraggio di scendere nello scantinato. Ho chiuso la porta e ho riposto la chiave fuori nel giardino, sotto un blocchetto di cemento. Mio figlio quando viene in casa può mettere piede ovunque, ma nello scantinato: no. Quel giorno in cui scese con la moglie, tutt’e due cominciarono a rovistare cartoni e spostare oggetti per me preziosi. Quando se ne andarono ho rimesso tutti gli oggetti nell’ordine di prima e ho sigillato lo scantinato.
Non dormo più nella camera da letto ma sul divano, il letto è rimasto come un anno fa. Le foto sul comò del nostro matrimonio, di nostro figlio Andrea, di Giacomo, il mio caro nipotino, e di Stephen Hawking.
Giacomo un giorno si presentò a casa con questa foto ritagliata da una rivista e incorniciata in un quadretto. Stephen Hawking è il suo idolo.
Ricordo quando aveva sei anni, era il primo di novembre, il giorno dei Santi, venne con me e mia moglie a fare visita ai nostri cari defunti al cimitero. Non dimenticherò mai il momento in cui uscimmo fuori. Giacomo, improvvisamente, scoppiò in lacrime.
«Perchè piangi?» gli chiesi.
Lo presi in braccio e mia moglie si strinse a noi due mentre camminavamo. Giacomo continuava a piangere e mi rispose a singhiozzi: «Nonno, piango perchè un giorno non ci sarete più.»
Aveva realizzato cos’è la morte. E da allora, a soli sei anni, ha inziato a essere riservato, introspettivo e molto legato allo studio. Crescendo, la sua personalità si è orientata a trecentosessanta gradi sulla ricerca della verità scientifica.
Ha letto tutti i libri di Stephen Hawking ed è rimasto affascinato dalla sua ultima opera, The Grand Design, dove viene spiegato che l’universo può essersi creato dal nulla, senza l’intervento di un creatore. In particolare, una frase di Hawking è diventata il suo motto: "Il paradiso è solo una favola per le persone che hanno paura del buio".
Non so se sia giusto o sbagliato credere a tutto quello che si teorizza. Fatto sta che mia moglie mi manca tantissimo.
Dopo un anno, il cuscino sul letto è rimasto com’era con una leggera deformazione. È concavo, in linea con la testa, come se mia moglie fosse ancora qui sul letto. Per terra c’è una macchiolina di sangue, una crosticina che è rimasta lì di fianco al letto e finché sarò vivo nessuno mai la toglierà. Aloni di polvere ricoprono le foto, il comò e l’armadio. Le ragnatele negli angoli delle pareti hanno dei filamenti più spessi per causa della polvere. Il pavimento non è più bianco come una volta, ha diverse sfumature di un colore avorio e la muffa su queste pareti si ramifica di giorno in giorno come cristalli di ghiaccio.
Sto sempre in cucina: dormo e mangio, mangio solitudine. Anche la cucina è sempre la stessa, il colore tende al marroncino, solo che si è scurita un po’, sarà forse per la cappa che non funziona più, anche il soffitto si è annerito. Il tavolo, che una volta era per quattro, adesso, è occupato solo da me. Mangio in un angolo sempre allo stesso posto. Il resto è vuoto.
Uno di questi giorni devo mettere un po’ di ordine su questo tavolo, ci sono troppe cianfrusaglie. Devo sistemare meglio la bombola d’ossigeno.
Mi guardo allo specchio e ho due borse sotto gli occhi di un color bluastro, un viso cadaverico, le labbra livide, secche e asciutte, un naso a patata rosso come un pagliaccio. La pelle è appesa all’avambraccio, molle, flaccida. Muscoli che hanno perso plasticità, pori della pelle dilatati. Mi metto di lato. Ho una gobba impressionante.
Non volevo invecchiare, ma la natura agisce in un modo subdolo: hai come l’impressione di non invecchiare mai, poi senz’accorgertene ti ritrovi da giovane a vecchio di ottant’anni.
Se in tutta la mia vita non mi fossi mai specchiato non avrei mai preso consapevolezza di essere così invecchiato e così brutto.
Ci sono volte in cui avverto la sensazione di essere sempre giovane, è come se questa situazione fosse eterna, come una fiamma che non si spegne mai. Ma ci sono momenti in cui capisco che è un’illusione. Perché? Perché invecchiare fuori a poco a poco ti consuma dentro. Il bambino nel proprio Io svanisce nell’oscurità, nel nulla. Il più delle volte questo accade quando si perde la curiosità, l’innocenza, la scoperta, il sentirsi vivo e vincono l’avarizia, l’invidia e l’egoismo.
Sono vecchio, un gobbo senza più un capello in testa, le ginocchia non reggono più, mi tremano. Ho lavorato tanto, quante piastrelle mi sono passate fra le mani, quante case hanno il pavimento segnato dal mio sudore. Quante volte mia moglie, nonostante la stanchezza, la mattina presto mi preparava il pranzo per poi andare a lavorare al ristorante.
Qual è stato il risultato di tutto questo? La solitudine.
Sono stanco di tutto, i rantoli risuonano nella cucina. I polmoni non si dilatano come un palloncino, è come se avessi una palla da bowling dietro il petto, non mi si gonfia più come quando ero giovane.
Devo prendere un po’ di ossigeno. Solo cinque minuti, voglio uscire per una breve passeggiata prima che faccia troppo caldo.
“Buono il caffè, Marta!”
2. Villanova del Battista
Mah, quanto è fastidiosa questa mascherina. Mi si inumidisce tutto il viso.
Penso a questo paesino, Villanova del Battista spunta su una collina intorno a un’unica strada a senso unico; mattoni su mattoni, pietra su pietra; una casa alle spalle dell’altra. Ogni portone sporge sul marciapiede. Piedi che si affacciano di primo mattino sulla soglia, persone che si stiracchiano inspirando l’aria fresca, gonfiando il petto e inebriando i polmoni di un profumo di collina, un profumo di erbe, di verde, di aria pura, pulita.
Al posto di questa strada percorsa da auto, camion, biciclette, un tempo c’era una stradina per il pascolo che passava vicino a pajare di pietra con tetti fatti di paglia. Ce n’erano pochissimi distribuiti qua e là. Erano di tutti e di nessuno. Li avevano costruiti tutt’insieme. Erano punti di ritrovo tra pastori; ognuno portava nella casacca qualcosa da mangiare: bottiglie di vino, pezzetti di formaggio, fichi secchi, uva secca, peperoni e anche le uova, se qualcuno aveva la possibilità di possedere un paio di galline. Bastava pochissimo per essere felici.
Un semplice ritrovo tra pastori e quel posto diventava magico, l’atmosfera s’inebriava di profumi genuini. La loro umiltà e semplicità faceva di ogni coscienza un animo sincero che lasciava trasparire l’innocenza di ognuno di loro come bambini alla scoperta di un nuovo mondo.
Quando avevano finito di ridere e scherzare raccontando barzellette, aneddoti di conoscenti e novità del giorno, si alzavano da terra e, con le guance rosse e il bastone per sorreggersi nei percorsi ripidi, vestiti con maglioncini di lana e pantaloni dai mille tessuti ritappezzati qua e là, sempre in gruppo, ripartivano e raccoglievano mazzetti di erbe aromatiche, soprattutto di rosmarino selvatico.
Quando si trovavano nei pressi di Zungoli, un paese che dista circa sei chilometri dal nostro, si dividevano tutto il rosmarino in parti uguali, si salutavano e ognuno prendeva la sua strada tornando a casa.
Tra il belare delle pecore e l’abbaiare dei pastori maremmani, al crepuscolo il colore arancio del tramonto rifletteva quei visi stanchi e sorridenti.
La genuinità dell’uomo potrebbe essere come un fiore di arancio che si nutre semplicemente di acqua, sali minerali e luce.
Quei pastori nel corso degli anni hanno fatto sì che nascesse Villanova del Battista, il paesino di mille anime.
Sento il petto più libero, meno oppresso. È ora di uscire a fare la passeggiata.
Mi ritrovo subito sulla stradina pianeggiante. Mi piace passeggiare, mi piace camminare, l’aria fresca mi rilassa.
Eccola là! Pronta, come tutte le mattine, ne saltasse una. Niente.
Si alza presto con unico pensiero fisso. A malapena si mantiene in piedi, curvata e con una scopa di vimine in mano a spazzare lungo il marciapiede.
«Buongiorno!» faccio io.
Lei posa lo scopone, prende il tappeto sotto il portone e con violenza lo sbatte all’angolo della parete. Mi fissa in silenzio, intenta a dimostrarmi che il suo territorio è pulito.
Distolgo lo sguardo.
In verità mi sta sul cazzo. Da quel giorno, che è stato l’unica volta in cui mi ha rivolto la parola ‒ con presunzione, arroganza e una mezza smorfia ‒ mi chiese: «E tua moglie? Non la vedo mai. Sta bene?»
Mi infastidì il modo in cui lo disse, con un’espressione e una forma del viso colme di sarcasmo. La guardai, istigandola a esprimere i propri pensieri da iettatore.
«Sta bene, perché me lo chiedi?»
Si accorse che ero adirato.
«No, niente così!» Forse voleva evitare discussioni. Stavo per risponderle “Ma sono cazzi tuoi che cosa fa mia moglie?!” Ma non lo feci.
Come in ogni paese si crea sempre quella suscettibilità sul fatto che io possa dire o l’altro possa fare qualcosa. Delle volte basta poco per creare un inconveniente, per far puntare un dito e già sembra che io o l’altro abbia detto qualcosa non di buono ma di male. Spesso capita che si creino fraintendimenti, storie fasulle che possano creare situazioni dove si può cadere in un baratro, in una depressione profonda. La causa? Le persone stesse.
Siamo uomini, siamo prede e predatori; il forte deve sempre infierire sul debole, si combatte contro i pregiudizi, contro le ingiustizie, ma sono poche le persone che combattono contro l’impurità di cui l’uomo si macchia.
Io come tutti gli altri sono solo parole, non sono capace, non sono forte. È più facile comportarsi male che bene. Il bene è una lotta continua e per me è più facile abbandonarmi a uno spiccato egoismo. Soprattutto dopo il periodo COVID: paura, tensione ed egoismo. Paura di malattie, tensione per una disgrazia, egoismo sulle disgrazie altrui.
Nell’attuale società ci siamo addentrati a piccoli passi in un’epoca dove ci saranno uomini privi di emozioni, non ci saranno lacrime né sorrisi, ma solo macchine. Non ci rendiamo conto, ma Internet, il progresso, sta plasmando bambini che hanno un nuovo modo di pensare, anzi no, che non pensano più. Intenti a osservare gli altri senza alcuna ragione. Presi da una curiosità non genuina, ma ingannevole, che non dà alcun modo di fare tre semplici domande che sono la forza trainante del vivere.
Quando? Come? Perché?
Si osserva e basta. Ed è un peccato perché alla prima difficoltà non sapranno districarsi, crederanno che la soluzione al problema si trovi semplicemente in un video attinente alla loro situazione. Non sapendo che, per chi fa il video, l’unico scopo è fare follower. Nient’altro: solo ricerca della notorietà e non della felicità.
È un mio modo di pensare, forse sbaglio.
Spero di sì.
3. Il tocco
Vengo da un’altra generazione e ho la fissa di pensare sempre al passato. Erano altri tempi.
Marta, mi manchi tantissimo. Questo marciapiede è stato toccato anche dai tuoi piedi.
Le lunghe passeggiate insieme. Indimenticabili.
La panchina, la nostra panchina. Mi siedo un po’. Sono stanco. Mi trattengo cinque minuti e me ne torno a casa. Oggi il cielo è grigio; nell’addensarsi le nuvole s’intravedono, in quelle meno scure, delle forme. Che bella. Una sembra un grappolo d’uva. È forte. Uno, due, tre, quattro, cinque, dieci hanno la forma di un chicco d’uva. Che bella l’altra nuvola, sta cambiando forma: il naso, gli occhi, il sorriso, sei tu, Marta.
“Cara Marta,
ricordi quando la sera a cena, dopo una giornata di lavoro che non c’eravamo visti, ti raccontavo tutto del giorno e tu facevi lo stesso con me? Era meraviglioso. Non vedevo l’ora di tornare dal lavoro per raccontarti tutto. Mentre parlavamo c’era sincerità, entusiasmo, amore. E in quei brevi attimi di silenzio erano gli occhi a parlare, gli sguardi che brillavano fluttuanti come stelle.
L’estate, dopo lunghe passeggiate, ci sedevamo su questa panchina, ora malridotta. Fissavi lo sguardo al cielo e mi parlavi sempre delle ottantotto costellazioni, indicandole a una a una, nome per nome. Provavo un senso di libertà.
Quando ero al lavoro o a sbrigare servizi, avevo l’impressione di avere una palla al piede. Vincolato costantemente dalle frenetiche leggi della società. Invece, quando stavo con te, tutto cambiava; il mondo che ci circondava, con tutte le problematiche della società, rimaneva incatenato come un lupo ringhioso fuori dal portone di casa. C’erano momenti in cui il lupo faceva su e giù e lo sferragliare delle catene ti martellava la testa e i pensieri ti facevano salire l’angoscia, nell’accavallarsi di tutti i problemi. Un tuo sorriso, Marta, e il lupo con la coda in mezzo alle gambe si accasciava tornando un cucciolo innocente.
Grazie, Marta, per essermi stata sempre vicino. Grazie.”
Chi è? Cos’è questo leggero tocco sulla spalla, simile a una carezza?
Mi giro dietro e non vedo nessuno. Siamo solo io e la panchina. Marta, sei tu? Cos’è questo leggero soffio sul viso? Profuma di liquirizia.
“Amore mio, solo tu puoi essere, ti piaceva tanto la liquirizia.”
Una lacrima mi segna la guancia destra, vado per asciugarmela e si tratta di una mia sensazione. La guancia è asciutta. Eppure, dentro di me provo tristezza e gioia, ma non ne sono del tutto sicuro. Qualcosa di miracoloso è accaduto, qualcosa che supera ogni emozione che uno possa provare. Lo sconvolgimento, una forma di estasi, mi ha allontanato da me stesso e dal mondo che mi circonda per farmi entrare su una frequenza invisibile, avvertendo il tocco.
“Tu sei lassù che danzi tra le nuvole. Vorrei tanto volare su, su in alto nei cieli da te. Aspettami che arriverò. Non manca molto. Sono alla fine, è solo questione di tempo”.
Cos’è? Ho la punta del naso bagnato. È una goccia d’acqua caduta dal cielo.
“È una tua lacrima, Marta. Non essere triste. Non manca molto, amore mio. Tra non molto nulla in questo universo ci dividerà più. Nulla, io e te per sempre”.
Abbasso il capo e la goccia d’acqua mi cade sul palmo di una mano.
“Devo conservare la tua lacrima, il contatto fra i due mondi”.
Prendo il fazzoletto nel taschino della giacca e lo poggio sul palmo, lo giro. La goccia di lacrima sul fazzoletto da tondeggiante prende forma in un cuore definito nei contorni da un colore rosso.
Con cura piego il fazzoletto in quattro, senza rovinare l’immagine del cuore e lo tengo in mano, altrimenti nella tasca potrebbe rovinarsi.
Devo tornare a casa per conservarlo, mi alzo dalla panchina, m’incammino. Non riesco a riprendermi.
“Marta, è possibile che la vita possa rivelarci sorprese, anche dopo la morte?”
Se fino a poco tempo fa credevo che non esistesse nulla dopo la morte, ora credo solo nella vita. Tutto è possibile e niente può essere o nascere dal nulla. La nascita e la morte sono la medesima situazione. Se non si nasce non si muore e se non si muore non si nasce. Ognuno di noi crede di avere una vita a sé; invece no: apparteniamo tutti a una stessa e medesima vita. Le malattie e tutto quello che potrebbe incombere sulla nostra vita in realtà sono di tutti. A ogni singola creatura si potrebbe preannunciare una parte di malattie o disgrazie come anche felicità e serenità simile a una parte di ogni singola creatura. Non esiste al mondo una persona che non provi quello che ha provato un altro. Siamo un insieme di vite che, raggruppate, appartengono a una sola vita.
“Amore mio, voglio un bene dell’anima al nostro nipotino, solo che lui crede, che non ci sia alcun paradiso e che non esista vita dopo la morte e che nessuno decida il nostro destino. Per lui non esiste alcun Dio.”
Dopo oggi credo proprio che Giacomo si sbagli, che ci sia un mondo, una frequenza a noi sconosciuta, che ci guidi oltre ogni immaginazione. Sono povero di sentimenti, di emozioni, di umiltà, di conoscenza, di verità; sono povero d’ingenuità.
Eccomi a casa, devo nasconderlo, conservarlo in un posto sicuro. Marta, dove potrei metterlo? Il cigolio del portone attira la mia attenzione, rimane semiaperto e un piumino di pioppo entra in casa. Svolazza per la cucina e, attento a ogni suo spostamento lo seguo, finché si poggia sul davanzale della finestra.
Mi avvicino e ricordo che nell’angolo c’è un buco, al suo interno entra il fiore di pioppo. Prendo il fazzoletto e gli do la forma di un cilindro inserendolo con cautela, senza danneggiarlo, nel foro. Il profumo di liquirizia mi avvolge tutto, la cucina si riempie di un profumo che solletica le mie narici. Starnutisco.
“Salute.” Una candida voce risuona per tutta la cucina. Inconfondibile.
Leggi qui la seconda parte, La vita
E qui la terza e ultima, Per sempre