L'ultima volta che lo incontrai D. era davanti a me a farsi la barba, dandomi le spalle. Nel riflesso dello specchio scorgevo il viso stanco, il corpo ancora robusto ma sfatto dagli anni e dagli eccessi.
Quando lo conoscemmo noialtri eravamo ragazzi, e come tutti ne fummo subito affascinati. Disegnava tatuaggi esoterici nel garage, raccontava di viaggi avventurosi oltre i confini del nostro piccolo mondo periferico, ci spiegava i fatti della vita sfidandoci nei bagni pubblici a pisciare saltando da un orinatoio all'altro, trattenendola e lasciandola andare e poi trattenendola di nuovo. Qualcuno lo chiamava sciamano, qualcun altro stregone. A quei tempi camminavamo rasentando i muri, forse per questo gli risultavamo simpatici e non gli dispiaceva averci intorno. Come prima cosa ci fece gettare via tutti gli orologi. Voi che ancora vi ostinate a misurare il tempo in ore, ripeteva.
Non si mostrava interessato agli oggetti materiali, ma solo alle sensazioni e agli stimoli. Ma in quei primi tempi sapeva consigliarci quando serviva, pure se in merito a situazioni e comportamenti puramente fattuali. Non sempre erano consigli giusti, anzi spesso erano sbagliati, però ci portavano a riflettere e ragionare. Ci scriveva lettere lunghissime che, partendo da un presupposto preciso e persino banale come ad esempio l'esame di ammissione all'università di qualcuno di noi, si trasformavano in flussi di coscienza interminabili che saltavano intorno agli argomenti più disparati, con una calligrafia a momenti precisa e chiara e in altri confusa e arruffata ai limiti dello scarabocchio, fino a riempire un intero block notes per poi continuare su fogli strappati ad altri quaderni e poi ancora su dei post-it colorati, con parole e frasi che si facevano via via più piccole tanto da diventare illeggibili.
Con il passare degli anni D. cominciò a perdere la sua aura. Non scriveva più lettere, ma parlava un sacco, parlava in continuazione, senza preoccuparsi di aspettare una replica, una risposta, così infervorato che le vene del collo parevano pronte da un momento all'altro a schizzare via oltre la pelle, e andando avanti finì con il non curarsi nemmeno che qualcuno lo stesse ascoltando. Blaterava di quale dovesse essere l'abbigliamento corretto per un vero uomo e di come comportarsi in una relazione amorosa.
Le sue idee e i suoi modi di fare non ci apparivano più interessanti o fascinosi ma noiosi e ordinari, così poco a poco ci allontanammo da lui. Non era colpa sua se non lo capivamo, eravamo affamati e impulsivi, non in grado di afferrare che gli eventi non sono importanti in sé, ma per quello che rappresentano. Qualcuno di noi prese a chiamarlo il pazzo, qualcun altro direttamente lo scemo. Io non gli volevo male perché mi faceva pena.
D. non si accorgeva di come si fosse ridotto, si atteggiava ancora all'uomo profondo e ispirato di un tempo, ma non riusciva più nemmeno a terminare i concetti che provava a illustrare, dimenticava le parole, non sapeva spiegare il motivo delle sue azioni, per quanto per la maggior parte del tempo se ne restasse chiuso in casa. Perlomeno questa sua assenza di consapevolezza gli impediva di percepire quanto fosse diventato triste.
Quell'ultima volta bussai portando del vino. Seguitando a darmi le spalle, concentrato sulla sua immagine riflessa, D. mi disse che era contento di vedermi e, per ricompensarmi di non averlo dimenticato come tutti quegli altri ingrati, mi avrebbe rivelato il senso vero e profondo della vita. A quel punto, in tutta sincerità, non mi aspettavo molto, ma restai lo stesso parecchi secondi in silenzio, a far crescere l'attesa che si suppone meriti una confidenza di tale portata.
D. smise di farsi la barba poggiando il rasoio di metallo sul lavandino, ma non si voltò. Osservò accuratamente nello specchio il suo volto ancora in parte coperto di schiuma, poi pronunciò alcune parole.
Come prevedevo non ne rimasi impressionato, anzi a ripensarci adesso mi pare che mi sentii in imbarazzo per lui. Allora facemmo entrambi finta di niente, e dopo un nuovo lungo silenzio andammo di là a bere il vino e chiacchierare di cazzate. Ero tornato a contare i minuti per capire quale fosse il tempo necessario prima di congedarmi da una persona a cui avevo voluto bene. Quando lo salutai ovviamente sapevo già che non lo avrei mai più rivisto.
Solo adesso che sono passati molti anni, più di due decenni, solo adesso che sono anch'io adulto e stanco e sfatto, solo adesso comprendo fino in fondo il significato di quelle poche parole allo specchio, e mi rendo conto che quel giorno D., al contrario di tante altre volte, aveva ragione.