C'è un ampio parcheggio, vuoto, davanti del cimitero. Io e Marco entriamo. Facciamolo oggi, ci siamo detti. Anche perché io domani torno in città.
È tardo pomeriggio. Poco dopo l'ingresso vedo una donna inginocchiata davanti a una lapide. È vestita di nero e piange sommessamente.
"Gesù Cristo nostro Signore", prega, tenendo in mano un rosario.
Francesco è morto lo scorso inverno, fra Natale e Capodanno. Di infarto. A ventidue anni. Di infarto. Fra Natale e Capodanno.
Come cazzo si fa a morire d'infarto a ventidue anni. VENTIDUE ANNI.
Dicono che fosse malato di cuore. Noi non ci frequentavamo più ormai, e quando ci incrociavamo per strada o al bar alcune volte ci scappava un saluto, altre no. Ma da ragazzini e adolescenti avevamo passato un sacco di tempo insieme. Avevamo condiviso. Esperienze, amici, pallone, dischi, gioie, tristezze.
Poi c'era stato un distacco, come succede sempre, quasi con tutti. Ma se anche adesso non eravamo più amici, il fatto di esserlo stati in un momento fondamentale non si cancella. Mai. È un qualcosa che ti lega per sempre.
Il cimitero è piccolo, come tutti quelli di paese. Ci sono cappelle, lapidi e loculi. Ci sono marmi curati e tombe coperte di muschio, fiori freschi e foto opache.
Camminando leggo i nomi, gli epitaffi, le date. Una vecchia sgrana il rosario davanti alla tomba del marito, "Gesù Cristo nostro Signore..."
Lo troviamo quasi subito, Francesco. L'epitaffio è banale e identico su tutti i loculi, standard. La sua foto invece è bella, diversa dalle altre che sembrano strappate dalla patente – e probabilmente lo sono.
Francesco se ne sta lì, a figura intera, con un giaccone pesante – doveva essere inverno quando hanno fatto la foto. Seduto su una panchina o un muretto, non si capisce bene, una gamba accavallata sull'altra, la sigaretta in mano, un sorriso sghembo, l'aria di chi si gode la vita.
Cerco di ricordarmi l'ultima volta in cui abbiamo scambiato due chiacchiere, io e Francesco, ma non ci riesco. Con Marco restiamo in silenzio a guardare la foto. Fumiamo una sigaretta, poi decidiamo di andarcene. Anche perché sta arrivando altra gente e ci sentiamo, senza un preciso motivo, imbarazzati. Quasi vulnerabili.
Uscendo incrociamo di nuovo la donna in lacrime. È ancora inginocchiata e intenta a snocciolare il rosario. "Gesù Cristo nostro Signore..."
"Ricordo una cosa di quando eravamo bambini", mi dice Marco nel parcheggio. "C'era un ragazzo più grande che voleva picchiarci, a me e ad altri, e uno disse a me non mi puoi picchiare perché mi fa male il cuore, e lo disse indicandosi il torace. Mi è tornato in mente di recente, e sono sicuro che quel bambino fosse Francesco. O forse no, forse mi sbaglio. Magari è solo una suggestione, il desiderio di trovare un nesso..."
Poi iniziamo a parlare di cosa fare stasera, tanto per cambiare discorso e alleggerirci un po'.
Io prima devo passare per casa. Domani torno in città, devo ancora fare la borsa e trovare qualcuno che mi accompagni in stazione.
Camminando verso il paese cerco nuovamente di ricordarmi l'ultima volta in cui ho parlato con Francesco. Senza risultato. Gesù Cristo, nostro signore di niente.