“Che giorno è oggi?”, chiedo. “Così, tanto per farmi un’idea”.
Carlo continua a leggere il giornale seduto in poltrona, senza far caso a me, senza mai girare una pagina. Indossa solo il costume da bagno e, sulla fronte, tiene poggiati gli occhiali da sole. Poi finalmente abbassa il giornale, e mi guarda. I suoi occhi sono incredibilmente arrossati, e allo stesso tempo – come se sia implicito che fra le due apparenze esista una connessione – mesti, dimessi.
“Martedì, credo”, dice con un filo di voce stanca e assonnata.
Attraverso la stanza per andare fino in bagno, ma quando già sto girando la maniglia sono costretta a tornare indietro, fino al tavolino, per prendere le sigarette. Sebbene sia di fronte a lui, Carlo rimane nascosto dietro il giornale.
In bagno fumo una sigaretta prima di farmi una doccia fredda. Dopo, di fronte allo specchio, nuda, osservo distratta le gocce d’acqua che mi scorrono lente lungo il corpo, lungo il collo, in mezzo ai seni, giù per le spalle e le braccia. Guardo i segni bianchi del costume e li confronto col resto, pensando che la mia pelle è più arrossata che abbronzata.
Mi accendo un’altra sigaretta. Ho un gran mal di testa. Ieri sera siamo andati a un festa in un locale troppo colorato, e io devo aver bevuto qualche cocktail in più, tanto che a un certo punto mi sono dovuta sedere per non cadere in terra. Ricordo che in sottofondo suonava un vecchio pezzo di Lana del Rey quando qualcuno ha proposto di andare in spiaggia.
Stamattina mi sono svegliata in riva al mare, avvolta in un telo di spugna, con i capelli impastati di sabbia. C’erano dei bambini che giocavano sulla battigia e, nella direzione opposta, dove la spiaggia risale prima di diventare strada, ho visto il tremolio del calore alzarsi all’orizzonte.
Mi lego un asciugamano attorno al busto e alla vita, prendo il pacchetto di sigarette e torno in salotto. Non trovo però Carlo, e mi domando se sia già sceso giù in spiaggia. Lo incontro invece in cucina.
“Vuoi che ti prepari qualcosa?”, mi chiede, armeggiando con la macchinetta automatica per fare il cappuccino.
Guardo la sua schiena definita e muscolosa, bruna, le spalle larghe, le gambe tornite.
“Credo che tornerò in città”, dico alla fine, in un unico sospiro.
Lui impiega diversi secondi a voltarsi, come al rallentatore, mentre io sento ancora i capelli bagnati gocciolarmi sulle spalle. Non ci guardiamo negli occhi, ma giriamo lo sguardo a destra e sinistra sperando di incrociare un qualsiasi oggetto che possa giustificare la nostra finta attenzione.
Restiamo in silenzio per parecchi secondi o minuti o chissà quanto, un tempo che comunque è un macigno, poi, quasi tremando, trovo la forza di muovermi ed esco dalla cucina.
In camera mi siedo sul bordo del letto, provando a pensare alla valigia nell’armadio, ai vestiti da prendere, al taxi da chiamare, ma non ci riesco. Mi accorgo che il pacchetto di sigarette che tenevo in mano è praticamente accartocciato.
Rimango seduta immobile sul bordo del letto per un’altra quantità di tempo indefinibile, fino a che non entra in camera anche Carlo. Si viene a sedere accanto a me, ed entrambi iniziamo a fissare l’armadio di fronte a noi.
“Mi ami?”, domanda ad un tratto, con la voce che gli esce strozzata.
Cerco le sigarette, e anche se sono tutte storte e mezze rotte ne trovo una quasi integra, spaccata poco oltre la metà. Stacco via la parte opposta al filtro, quindi la accendo. Aspiro un paio di volte, cercando di fumare nella maniera più lenta possibile. Come se le piccole volute di fumo potessero per magia far scomparire tutto.
“Credo sia meglio se torno in città”, dico.
Stavolta Carlo impiega solo pochi attimi prima di ripeterlo con più forza.
“Mi ami?”
“Una volta forse”, rispondo senza pensare, sentendo gli occhi che bruciano. Dev'essere il sonno, la sigaretta. Sì, deve essere sicuramente così, mi ripeto.
Carlo rimane in silenzio, mentre la tensione nell'aria si fa palpabile come un temporale imminente. Se anche ci fossero, le parole si perderebbero nel fumo tra di noi, e il riflesso dell'armadio sembra danzare nel vetro degli occhiali da sole che lui, quando è nervoso, indossa anche in casa.
“Non credo si possa dare un nome a quello che resta”, aggiungo, cercando di trovare la forza di dare una continuità sintattica alle mie parole.
Carlo abbassa lo sguardo, fissandosi le mani, restando in silenzio.
“È meglio così”, mormoro, spegnendo la sigaretta nel posacenere. “Non possiamo trascinarci così, tanto per...”, aggiungo, finendo per incasinarmi con le frasi. “Insomma, hai capito. Come ho capito io”.
La stanza sembra stringersi intorno a noi mentre entrambi guardiamo il muro e l'armadio, consapevoli dell'inevitabilità delle cose, ma incapaci di dare lo strappo definitivo. Nell'aria c'è un senso di liberazione mescolato a un profondo dolore. Il sole, nel frattempo, inizia a scivolare dietro le tende, gettando un bagliore dorato sui nostri attimi che in questo momento ci appaiono infiniti.
“Parto”, dico infine, rompendo il silenzio. “C'è troppo peso qui”.
Le parole sembrano fluttuare nel vuoto, il loro significato sospeso nell'aria calda e pesante. Carlo si alza, e nei suoi movimenti sincopati intravedo una mancanza di lucidità e forse, in minima parte, un principio di accettazione.
“Mi dispiace”, sussurra lasciando la stanza, mentre la sua voce diventa un sottile filo che si spezza nell'aria. “Mi dispiace per tutto”.
Non c'è bisogno di aggiungere altro. Mi alzo dal letto e inizio a preparare la valigia, cercando di ignorare la lenta pesantezza che avvolge ogni mio gesto.
Quando tutto è pronto, mi volto per dare un'ultima occhiata a quella che è stata la nostra storia.
Esco dalla stanza e poi ancora dalla casa, chiudendo la porta dietro di me. Gli ultimi bagliori rossi e arancioni del tramonto avvolgono la spiaggia mentre mi allontano.