Non ho sempre vissuto così. Una volta ero messo meglio. Ero uno come voi. Meglio di voi, forse. Avevo un obiettivo e se il mio obiettivo fosse stato in fondo a un precipizio, ci sarei saltato dentro per raggiungerlo.
E poi un giorno ho fatto il salto.
E l’ho mancato.
Si può saltare da un precipizio e mancare il fondo?
Mi sembrava che questa metafora del precipizio funzionasse meglio, quando ho iniziato a usarla. Una volta ero bravino con le metafore. Era un po’ il mio mestiere. Quando ancora mi permettevo un bilocale in affitto in Porta Soprana, vista su piazza De Ferrari. Avevo un divano di panno rossiccio che perdeva trucioli. Io li spazzavo pazientemente e li buttavo nell’immondizia. Il giorno dopo trovavo altri trucioli. Mi chiedevo se prima o poi il divano si sarebbe ridotto in nulla, a forza di perdere trucioli. Mi chiedevo se dopo il divano avrei cominciato a perdere i trucioli del materasso, e dopo quelli della radiosveglia, finché poi un giorno non avrei più trovato casa.
Quando ho fatto il balzo nal precipizio, quel divano rossiccio è stato il mio trampolino.
Ero accoccolato su quel divano, quella mattina, quando ho sentito qualcuno che mi diceva: Francesco, bada che oggi è la giornata giusta.
Non ho fatto fatica a crederci, perché nell’attimo stesso in cui le parole mi hanno accarezzato i lobi delle orecchie, l’ho sentito. Era come se da uno fossi diventato cinque. Me lo sono detto a voce alta: Francesco, oggi è la giornata giusta. Oggi nessuno ti può toccare.
Mi ero svegliato presto quella mattina, allora sono andato a leggere il giornale al caffè degli Specchi. Il mio pezzo sullo spaccio e il degrado a Marassi era nella seconda di cronaca. Per festeggiare ho preso una seconda striscia di focaccia. Crepi l’avarizia. Ho abbozzato una mezza strizzata d’occhio alla barista, deve averlo preso per uno spasmo nervoso perché ha subito distolto lo sguardo, come quando non vuoi far sentire in imbarazzo uno pieno di tic. Mi sono detto: non demordere, Francesco, prima o poi funzionerà. Piccoli gesti quotidiani, finché la mia faccia non le resta impressa nella memoria, finché non mi riconosce come cliente abituale. Naturalmente a quel punto entreremo in confidenza. Poi, quando sarò una firma importante, continuerò a frequentare il caffè, le farò vedere che sono rimasto una persona alla mano, il Francesco di sempre. Da lì in poi, improvviso.
Non mi lascio scomporre nemmeno più tardi, quando Argenti irrompe in redazione con la solita andatura da buzzurro sulla spiaggia di Varazze.
«‘Ciao belle gioie», butta lì Argenti, attraversando l’open space con l’eleganza di un coito interrotto. Ha un mezzo sorriso. Quello di chi ti saluta e intanto ti fa capire che non t’ha visto. Niente è più allarmante di uno stronzo che sorride.
Per fortuna dura poco. Il tempo di accendere la prima sigaretta della mattina.
«Allora, cazzimosci, c’è qualcuno che mi porta uno straccio di notizia, oggi?»
Scricchiolare di sedie, tossicchiare leggero, stridere di unghie su embrioni di barbe. È come se la redazione fosse attraversata da un alito di vento.
«Buongiorno a tutti, belli e brutti!»
Dal corridoio, con il solito tempismo suicida, spunta il sorriso sdentato dello Sciaccaluga, tuttofare della segreteria di redazione e assunzione obbligatoria causa gamba sciancata.
«Che cazzo hai da rompere i coglioni già a quest’ora», lo fulmina Argenti senza togliere gli occhi dallo schermo, presumibilmente riempito da un paio di tette smisurate. Sciaccaluga incassa con grazia nonostante l’andatura zoppa, posa un pacco sul tavolo e sciabatta via mestamente. La giornata rischia di andarmi di traverso perché io amo l’Ernesto Sciaccaluga. In mezzo alla curva del Genoa a Marassi è una specie di dio intoccabile e come fondo dello schermo ha una foto con Osvaldo Bagnoli, che tenerezza. A volte vorrei dirgli, Sciaccaluga, vieni qui una sera con dieci ultras del Genoa e gli spaccate le ossa, ad Argenti.
Ma oggi no. Oggi sono una roccia, anzi, un promontorio. Oggi Portofino e Santa Margherita sono brufoli sulle mie chiappe. Oggi mi sono messo in piedi sul divanetto rossiccio e mi sono detto: Francesco, oggi prendi il mondo per le orecchie e lo scuoti come due maracas.
«Allora, qualcuno mi porta una notizia o avviso il direttore che domani il giornale esce senza cronaca, puttanaeva», dice Argenti con una specie di rutto lungo venti secondi.
Dai dintorni di Fausto Grandi, ingobbito sulla scrivania, arriva un colpo di tosse pieno di buona volontà. Cicerozzi sfoglia gli appunti con la foga di chi aveva lo scoop del secolo ma non trova più la pagina. Silenziosa fino a quel momento nel suo angolo, attorcigliata sulla sedia come una contorsionista, la Ferrante sospira con enfasi per sottolineare che si appresta a salvare il culo al reparto – di nuovo. Si snoda per acchiappare un foglio, scuote le lentiggini, scavalla le gambe per sedersi dritta.
«Io una cosa ce l’avrei.»
«Oh, meno male», dice Argenti. «Dai, Ferrante, fammelo venire duro.»
«Per quello non garantisco, capo», risponde lei senza perdere un beat, «alla tua età, sai... comunque ci provo.»
Dalla scrivania di Grandi arriva un mugolio d’indignazione.
È una riunione di redazione come tante: finisce due sigarette e tre vaffanculo più tardi. Cicerozzi lo spediscono al Begato a seguire la manifestazione contro il progetto di raccordo autostradale. A Grandi tocca il «marocchino in motorino», come lo chiama Argenti: giovane extracomunitario ruba motorino a Pegli, scappa in lungomare, centra Panda uscita da parcheggio in retro senza guardare, bacino fratturato. E senti questa: oltre a non vedere il carcere manco da lontano perché sta in ospedale, poverino, l’arabetto denuncia l’autista della Panda, che (senti quest’altra) è una maestra elementare in pensione, genovese doc, ha insegnato le tabelline a mezza Pegli. Grandi questa storia lo sta facendo ingobbire ancora di più, primo perché non sopporta il titolo populista che, non dubitiamo, Argenti appiopperà alla sua intervista; secondo perché non è marocchino, è egiziano.
La Ferrante porta a casa il pezzo forte: mozione di sfiducia contro l'assessore Binelli per lo scandalo della riconversione dell’ex deposito ferroviario. Prima di cronaca sicura, forse prima del giornale.
«Bene», conclude Argenti, «andate e non tornate senza lo scoop.»
«E io?», chiedo durante il fuggi fuggi.
Perché va bene tutto, ma non ci resto un’altra volta a curare i commenti sul sito. Oggi sono una montagna. Una collina. Almeno un dosso. Oggi il mio posto è là fuori, a raccontare la vita.
«Oh, fermi», dice Argenti, «lo stagista chi se lo piglia?»
Le loro espressioni sono quelle che avrebbero fatto se Argenti avesse detto «Ehi, ho trovato un pezzo di cacca, chi se lo vuole mettere in tasca?»
Non importa, lascia correre Francesco, pensa a quando scriverai gli editoriali (ma al caffè degli Specchi sarai quello di sempre e la barista lo apprezzerà).
Cicerozzi si mimetizza nell’attaccapanni. Dalle parti della scrivania di Grandi arriva un rantolo d’impotenza. La Ferrante lancia il suo tipico sospiro ad alta voce che ormai abbiamo imparato a interpretare.
«Dai, Francesco, vieni con me, dice. Con quel pizzetto alla D’Artagnan, magari mi seduci la presidente della commissione che ci dà un’esclusiva.»
«Mi raccomando», mi fa Argenti, «se c’è da scopartela per avere lo scoop, te la scopi: un giornalista non si tira mai indietro, per la notizia.»
«Capito?», ride la Ferrante. «Hai qui Bob Woodward a insegnarti il mestiere.»
«Vieni pure qui quando vuoi, Ferrante, che ti insegno io a…»
La voce va in fade-out mentre imbocchiamo il corridoio.
Rovisto freneticamente nella mia testa in cerca di una battuta sarcastica ma leggera su Argenti, sto pensando di rinunciare perché ormai è chiaro che ci ho pensato troppo, quando ci fermiamo sulla soglia della redazione. Fa bruttino, non piove ancora ma è questione di poco.
«Auto o metro?», chiedo.
«No, scusa Francesco, io a Palazzo Tursi sono di casa, se ci arrivo da sola la gente si rilassa e parla, se mi presento con uno stagista si chiudono a riccio.»
Rimpiango di non essere stato affibbiato a Grandi. Potevamo dividerci la storia, lo lasciavo attorcigliato sul suo bloc notes a intervistare l’egiziano e andavo a Pegli a languire sul mare torbido e scrivere un bel ritratto malinconico di un rione che perde l’anima. Ho già diversi titoli in testa.
Pegli: fra tradizione e modernità.
Egiziani: fra mummie e furti di motorino.
Pensionati: fra pesto fatto in casa e togliergli la patente.
Stagisti: fra trafiletti di cronaca e voglia di farsi esplodere in redazione.
«... quindi vatti a prendere un caffè», continua la Ferrante, «fai in modo di arrivare a Tursi fra un’ora, anzi due, e manda un messaggio per avvisare, mi raccomando. A dopo.»
Respira, Francesco.
Oggi non si torna in redazione senza lo scoop, ricordatelo.
Oggi sei una roccia, o almeno un sassolino. Un sassolino spigoloso nella scarpa di Argenti e della Ferrante e di questi rimasugli di miseria umana che quando tu passerai al nazionale, saranno ancora lì a fare il loro squallido teatrino tutte le mattine in redazione.
Shake it baby, shake it.
Scuoti le maracas.
Intanto sai che c’è, io me le voglio godere, queste due ore di libertà. Vado al caffè degli Specchi. Mi piazzo nell’angolino con la Settimana Enigmistica, che è la mia passione, ordino un cappuccino e un’altra striscia di focaccia, lancio una rapida alzata di sopracciglia alla barista ma lei si volta verso la macchina del caffè un attimo prima, così praticamente la lancio a me stesso attraverso uno dei tanti specchi del caffè.
Unisco puntini.
Leggo cose strane ma vere.
Trovo venti differenze.
Do un’occhiata alle barzellette.
Risolvo tre delitti.
Poi mi scappa un’imprecazione.
Respira, Francesco. Oggi no. Oggi niente discorsi negativi. Fallire non è un’opzione. Oggi sei una roccia, Francesco. Respira. Le maracas, ricordati.
Oggi suoni le maracas.
Per due ho sperato in un messaggio dalla Ferrante: «Vieni, ho bisogno di aiuto». Qualunque cosa. Tipo: «Fammi un’intervista a margine.» «Una foto.» «Reggimi la borsa mentre prendo appunti.» «Tienimi la porta aperta.» «Tirami l’acqua del cesso quando ho finito.»
Niente. Figuriamoci.
Comunque ormai è ora di raggiungerla. Agito il braccio, chiedo il conto. Infilo la mano nella tasca del giubbotto, prendo il telefonino così, tanto per. Ferma tutto: anteprima di messaggio sullo schermo. Ma quando l’ho messo in modalità silenziosa?
«Puoi venire appena possibile, ci sarebbe da…»
Ops. Si è spento. Batteria. No dai, non ora. Non ho fatto in tempo a leggere il messaggio. Supplico il telefonino, lo accarezzo, gli parlo dolcemente nelle orecchie. Farò tutto quello che vuoi, gli dico.
Morto.
Devo muovermi. La Ferrante ha bisogno di me, e io stavo qui a rispondere ai quesiti di quella vecchia baldracca della Susy.
«Puoi venire appena possibile», diceva.
Pago in fretta, m’incammino veloce verso Palazzo Tursi, piove adesso.
Come faccio per avvisarla, che non ho più batteria?
Corri, ci pensiamo dopo.
No, ci pensiamo adesso, perché qui si profila la medaglia d’oro delle figure di merda.
Arriverò fradicio, in ritardo, senza avvisare la Ferrante che te l’ha chiesto espressamente. Già vedo il suo disagio mentre ti presenta con un sorriso sbilenco che chiede perdono, come dire che volete, è solo uno stagista. Vedo lo sguardo pietoso dell’addetta stampa del Comune.
Ma no, oggi no.
Oggi li voglio sbalordire tutti: Ferranti, addetta stampa, Argenti e quel corrotto di Binelli. Oggi non mi ferma nessuno, altro che stagista.
Cammino veloce, agile come un assassino.
Scusi, sbauscio di sghimbescio, perché ho urtato una vecchietta in via San Lorenzo, l’ho quasi spedita in Corsica. Corro, ormai sto correndo, è ufficiale.
Shake it, baby.
Scuoti le maracas.
Filo via, rapido, con due cappuccini e tre pezzi di focaccia piantati sullo stomaco.
Ho voglia di ruttare un uragano ma non mi viene fuori niente.
Sono quasi arrivato, sono all’entrata, Palazzo Tursi. Dov’è la Ferrante? Non la vedo, la Ferrante. Mi è tutto chiaro, in un istante: la furbacchiona si sta facendo dare lo scoop senza di me, così poi torna con lo scoop e io senza. Non va bene, perché la storia dello stagista è finita, siamo due soci, noi.
Mi lancio nel corridoio, verso la sala riunioni del Consiglio... ecco, quello lì deve sapere.
«Scusi, dove sono i lavori della commissione...»
«Quale commissione», dice?
Uhm. Non sono sicuro.
«Ma quante ce ne sono, di commissioni che lavorano oggi?»
Mi guarda strano. Ma io non ho colpa. Allora lo dico.
«Ma che colpa ne ho, scusi, se la Ferrante non mi ha detto qual è la commissione la cui presidente devo sedurre?»
Certo, è chiaro: la Ferrante ha fatto apposta a non dirmelo, non vuole che le soffi lo scoop. Deve aver detto a questo usciere di distrarmi. Bastarda.
«Come? No, mi scusi, ho detto sedurre? Citavo solo il mio caporedattore, ma diceva per scherzo... insomma non lo so quale commissione, Binelli, il corrotto, le dice niente Binelli?»
L’usciere non capisce, non vuole capire. Mi sta facendo innervosire.
«No, non sto facendo l’ironico, è che ho due cappuccini e tre pezzi di focacc... ecco, se solo riuscissi a ruttare... aspetti, forse ci riesco... sento che se arrivo a creare questo vuoto d’aria fra il diaframma e l’esofago... io...»
Non mi aspettavo un fiotto così improvviso e potente. Se l’avessi sentito arrivare l’avrei avvisato, l’usciere.
«Le chiedo scusa, sinceramente. Mi perdoni, la prego. Gliele pulisco io, le scarpe...»
Il secondo fiotto invece lo intuisco con un attimo in anticipo. La scena di me, piegato in due che gli vomito sui piedi ha tutto il tempo di formarsi nella mia mente prima di materializzarsi anche nella realtà. Non chiedetemi perché anche stavolta non abbia fatto in tempo a voltarmi. Forse il primo conato mi ha indebolito, ha fiaccato i miei riflessi. Forse la Ferrante mi ha avvelenato il cappuccino perché perdessi io lo scoop.
«Ma come apposta, ma che dice... senta», sbofonchio mentre mi pulisco la bocca con le maniche e per fare prova di buona volontà tiro fuori un fazzoletto di carta per raccogliere le tre focacce e i due cappuccini in poltiglia sul pavimento... »senta, abbia pazienza, prenda questi fazzoletti di carta, ecco, continui lei, io devo trovare Binelli, devo trovare la Ferrante, siamo due soci, lei e io, come Woodward e Bernstein... prenda, prenda questi kleenex.»
Sono arrivate altre persone. Un tizio in uniforme mi vuole scortare fuori dal palazzo, mi prende per un braccio, ma scherziamo? Cos’è questa, censura della stampa libera? Anche la polizia è prezzolata dalla Ferrante adesso? Mi divincolo, resisto, io non torno senza scoop, io devo vedere Binelli, io sono una roccia, uno scaccomatto, una stella filante, io gli devo chiedere delle tangenti...
In quel momento le vedo.
Oddio, ma è vero.
Sono lì, di fronte a me.
Le maracas!
Scuoti le maracas! Shake it baby, SHAKE IT NOW!
Afferro le maracas, scuoto, scuoto forte, le suono manco fossi in un sambodromo di Rio de Janeiro, scuoto con tutta la forza che ho, scuoto fino a suonare la merengue degli dei.
E un istante dopo sono pancia a terra, con un ginocchio sulla schiena, la faccia nel mio vomito. La gente urla, ci sono degli esagitati qui intorno a me, che continuo a rimanere sdraiato a faccia in giù mentre cerco di spiegarmi, di liberarmi.
Ma io non ho fatto apposta. Dovete capirmi. Io ho visto le maracas.
Sul verbale della denuncia scriveranno che ho afferrato un agente della Polizia Municipale per le orecchie e ho cominciato a scuotergli la testa. Ma erano maracas, quelle che ho afferrato.
Ve lo giuro.
L’ultima cosa che ricordo, di quella giornata, è la faccia della Ferrante che mi guarda ammutolita mentre mi portano fuori, a forza, e io che mi dibatto come un furetto con il ballo di San Vito, che grido, portatemi Binelli! Voglio lo scoop! Ridatemi le maracas! Ridatemi le mie cazzo di maracas!
Poi c’è stato un periodo un po’ confuso.
Qualche giorno, mi è sembrato. Il referto dice qualche mese.
Dice che sono andato in giro nudo come un animale, ululando di notte per i vicoli del centro storico, i piedi neri per i chilometri di rumenta che tiravo su dalla strada, cercando le maracas. Dice che finivo spesso in via della Maddalena, dove le ragazze ridevano con me e si dimenticavano di fare caso ai clienti, finché i loro papponi mi scacciavano a sassate; allora strisciavo contro lo scalino di un portone qualsiasi appena prima che facesse chiaro, stordito dall’alcol, l’unica cosa che valga la pena rubare nei supermercati. Dormivo fino al tramonto e ripartivo in cerca delle maracas.
È a quel periodo che risale il soprannome che mi hanno affibbiato. Se penso che le uniche maracas che ho suonato in vita mia erano le orecchie di uno sbirro.
Ora sto meglio. Col tempo sono tornato lucido. Ho discusso a lungo con la psichiatra, sono riuscito ad ammettere i miei errori. E mi spiace di avergli fatto male, al poliziotto municipale: sono capace di provare un rimordimento di coscienza, proprio come voi. Queste cose la psichiatra le ha capite, per fortuna. Non è stato difficile intendersi con lei.
Mi sono sistemato bene, vivo a due passi da dove stavo prima. Ogni tanto mi tocca spostarmi, perché i negozianti sopportano un po’, poi dicono che il mio scatolone ingombra. Traslocare è complicato perché ogni volta che riesco a procurarmi un carrello della spesa, me lo rubano.
Seguo anche un mio programma di recupero fisico e mentale: faccio esercizio fisico prima che inizi il traffico del mattino, bevo molto meno.
La sera, mentre i passanti mi evitano e m’ignorano, oppure buttano una moneta nel colbacco spelacchiato che uso per raccogliere i miei incassi, mentre i passeggeri del bus scendono alla fermata e passano oltre, mentre la gente rincasa in auto lungo via XX Settembre, io studio, incurante dei tubi di scappamento e dei loro scarichi puzzolenti. Analizzo il dossier di Binelli nei minimi dettagli: nessuno ormai lo conosce come me. I fogli sono neri, consumati, impiastrati da mille piogge e seccati da altrettanti soli, dispersi dal vento e recuperati settimane dopo in un giardino pubblico per caso, ma li ho ancora: sono tutti lì, prove schiaccianti. Al momento giusto, sferrerò l’attacco. Avrò lo scoop. Poi tornerò al caffè degli Specchi, e farò vedere alla barista che sono ancora io, il Francesco di sempre.