La Generalessa, che all’epoca della sua infanzia si chiamava ancora Martina, veniva da un villaggio sulle colline molto fuori Mestre, e da una schiatta sciagurata di contadini che dall’inizio del mondo sembravano spuntare di sotto la terra come i tuberi: gente che girava scalza, aveva pochi denti e parlava pochissimo – e di certo non italiano – gente colla pancia rotonda e che passava tutta la vita ricurva sulla terra come il ciuffo delle carote.
Questo era il primo ricordo che la Generalessa conservava di suo padre e della sua infanzia:
Ci sono nove varietà di asparagi nella nostra regione, sette bianchi e due verdi. Gli asparagi bianchi sono: l’asparago del Sile, l’asparago di Bibione, l’asparago di Giare, l’asparago di Mambrotta, l’asparago di Palazzetto e l’asparago di Rivoli. Gli asparagi verdi sono: l’asparago amaro di Montina e l’asparago di Padova. L’asparago di Padova non cresce quasi per niente dalle nostre parti – non c’è la terra giusta – ma noi lo abbiamo piantato lo stesso. È un asparago bastardo a cui tocca fare la guardia come a un carcerato. E questo è quello che farai.
Il campo, proprio perché l’asparago di Padova era un asparago infame che non cresceva quasi mai ma che quando cresceva proliferava e si moltiplicava con una foga della malora infestando in pochi giorni tutti i campi attigui, era laggiù, in fondo al paese, isolato da tutti gli altri, e aveva al centro un grosso albero di fico e una garenna per l’allevamento dei conigli selvatici. Una sediolina di rafia aspettava solo lei, la piccola Martina.
Di sua madre ricordava solo questo: che quando il babbo l’aveva messa a far la guardia al campo di asparagi la mamma si era fatta il segno della croce e aveva sospirato:
Chissà che non ci scappa fuori una santa!
C’era, nella piccola pieve dove andavano a messa la domenica, un quadro raffigurante una bambina della sua età nell’atto di accarezzare un grosso lupo grigio. La bambina recava i segni delle morsure sul collo e sui polsi, e strie di sangue le coprivano il volto e le braccia. Si trattava di Santa Nicoletta, una bambina del paese che cento anni prima era stata sbranata da un lupo mentre faceva la guardia a un gregge di pecore. Poiché si diceva che i suoi piccoli arti smembrati fossero stati rinvenuti in una croce perfetta, e poiché nel punto della sua morte erano cresciuti gigli bianchi a non finire, la Curia romana aveva provveduto a canonizzarla di gran carriera. Subito la Santa Nicoletta da morta era diventata l’orgoglio dei genitori, prima, e di tutto il paese, poi. Ogni anno la celebravano colla festa dei gigli bianchi e con lunghe battute di caccia a quei branchi di lupi grigi che infestavano le campagne attorno al paese e al tramonto calavano sui campi e le stie e le garenne per fare strage di polli e conigli, e per straziare i cani alla catena. Ma quanto alla piccola Martina, lei non ci teneva niente a farsi sbranare dai lupi, neanche a patto di diventare santa e poi l’orgoglio di tutto il paese.
Dacché ne aveva memoria, quindi, la piccola Martina associava nel cuore la solitudine dei campi al terrore dei lupi. Seduta sulla sediolina di rafia sotto al fico monumentale, tremava al pensiero che i lupi in branco sarebbero venuti a prendere lei prima ancora di dare l’assalto alla garenna; quella garenna dove i conigli, indifferenti al vasto vuoto delle campagne, consumavano le loro brevi esistenze piene di foia in ammucchiate da spavento dove spesso ce ne rimanevano secchi anche due o tre, e da cui tuttodì emanava un grosso fetore di merda e di morte: e poi fischi, strilli, e insomma la puzza e lo zigare dei conigli che bastavano da sé a riempire tutte le campagne.
Ma da quel campo di asparagi dove l’aveva messa il babbo, da quella sediolina di rafia di fianco alla garenna dei conigli, la piccola Martina non si sarebbe alzata per molti anni a venire. Passavano gli inverni, le primavere, le estati, gli autunni, e poi tornavano gli inverni, e la piccola Martina rimaneva seduta lì, sulla sediolina di rafia di fianco alla garenna dei conigli a guardare il campo sempre marrone di terra in tutte le stagioni. Lei ricordava le prime stagioni quando ancora sperava di vedere spuntare i turioni degli asparagi.
Ma la speranza aveva lasciato il passo alla routine, la routine al rito, il rito al simbolo e il simbolo al significato. Perché quegli asparagi che non crescevano mai erano assurti a simbolo di tutta una temperie dell’esistenza a venire, di una vita che stentava ad arrivare.
Dei suoi cinque fratelli, invece, lei non ricordava proprio niente. Questo sì: che mentre lei tutta sola faceva la guardia agli asparagi e ai conigli, loro col vomere aiutavano il babbo a voltare la terra in altri campi lontani. Poi la sera nella camerata si raccontavano le storie della Bettina. Questa Bettina era la ragazzina più bellina di tutto il paese: una ragazzina florida colle trecce bionde a cui erano venute le mestruazioni a nove anni, a dodici anni aveva trovato un amoroso, e adesso che ne aveva quattordici era rimasta incinta ed era già sulla via del matrimonio. Stesi sui pagliericci, i fratelli pieni di libidine si raccontavano l’un l’altro cosa le avrebbero fatto se, putacaso, l’avessero beccata di notte tutta sola sulla via dei campi. Facevano a gara a chi la sparava più grossa. Ma, in mancanza di quella creatura di sogno, i fratelli sempre più spesso in quelle notti mettevano all’angolo la piccola Martina e la costringevano ad aprire la camicetta da notte. Il maggiore la pizzicava sui capezzoli e schiamazzava:
Non c’è niente! Sembrano due punture di zanzara!
Poi, sgravati che si erano di quella trista libidine, ecco che i fratelli cominciavano a raccontare ben altre storie, le storie della campagna e del paese, a cui la piccola Martina drizzava le orecchie. Più di tutte la spaventava quella storia del fantasma. Si diceva che per i campi si aggirasse il fantasma di un ragazzo morto annegato oltre vent’anni prima nel Lago di Berloni, e che costringeva i contadini a bere acqua di pozzo fino a fargli scoppiare la panza.
Al giorno lei ripensava alle storie della Bettina che a nove anni era già donna. A lei, invece, nonostante andasse per i tredici, le mestruazioni tardavano ad arrivare. Seduta sulla sediolina di rafia in mezzo a quel vastissimo senso di noia e di nulla, la piccola Martina attendeva che qualcosa succedesse. Una cosa qualsiasi, anche piccolissima. Attendeva colla stessa trepidazione i butti degli asparagi, il lupo, il menarca, il ragazzo fantasma e, senza saperlo, qualche cosa che imprimesse un senso alla sua vita, qualcosa come una stella polare che le restituisse i punti cardinali in mezzo a quel campo che sembrava fatto per cavare l’intendimento agli esseri, e il vizio del domandare.
Avrebbe trovato tutto un venerdì pomeriggio d’inizio aprile sotto a un tenace fortunale che aveva inondato i campi ma non aveva per niente scoraggiato i conigli che, dentro alla garenna, continuavano a cantare e a riprodursi con una furia assassina.
Più di una volta, quel giorno, era comparsa sul limitare dei campi la figura evanescente di un giovanotto più grande. Timidissimo, lui la guardava da lontano senza avvicinarsi, ma anche da quella distanza la piccola Martina vedeva che il ragazzo era tutto bagnato come un pulcino, zuppo dalla testa ai piedi come uno che avesse appena fatto il bagno nel Lago di Berloni coi vestiti e tutto.
A un certo momento il ragazzo si era messo le mani a coppa davanti alla bocca e aveva gridato:
Ehi! Lo vuoi qualcosa da bere?
La Martina era arrossita e aveva fatto un gesto col braccio come a dire che no.
Benòn!, aveva risposto lui.
Poi aveva alzato un pugno:
Viva il vermut!
E come era arrivato se n’era andato, scomparendo d’un tratto dietro la curva dei campi.
Intorno alle due di quello stesso pomeriggio di pioggia battente la piccola Martina era stata colta da una specie di smania, o di languore. Incespicando nell’incerata troppo abbondante si era allontanata per un momento dalla buriana dei conigli e aveva fatto una passeggiata fino al bordo del campo. Ma qui era successo un imprevisto. Perché mentre si sgranchiva le gambe ammirando il grande spettacolo dell’acqua che ruscellava a catinelle giù per le campagne, aveva scoperto qualcosa sull’ultima zolla del campo, qualcosa in cui da molto tempo ormai non sperava più: un asparago verde di Padova. Era una scoperta meravigliosa: eccolo che se ne stava lì, col turione drittissimo piantato di traverso nella zolla gonfia di cui sembrava il prolungamento desiderante, e curvato a quell’angolo come in seguito a un complicato calcolo balistico, nell’attimo prima di eiettarsi come un quadrello di balestra nel campo vicino per infestare e colonizzare e fare quanti più danni possibile.
Ma la piccola Martina, chinandosi per esaminare quella meraviglia del tempo e della natura, aveva udito un rumore in mezzo al fracasso della pioggia. Dalla strada bianca laggiù, quella che faceva il giro delle colline, saliva un trepestio dimesso. Non si trattava propriamente di un trepestio: tendendo l’orecchio alla strada e alla pioggia le era parso piuttosto un raspare. Ancora lontano, certo. Un raspare come delle zampe di un grosso cane sulla strada di breccia: o di un lupo. La piccola Martina aveva deglutito ripensando alle storie di Santa Nicoletta sbranata dai lupi, si era fatta il segno della croce e poi era caduta in ginocchio sul ciglio della strada e aveva cominciato a pregare. Quello sgraffiare di patte di lupo sulla strada bianca si avvicinava e si faceva sempre più forte e temibile, e adesso si distingueva anche un ringhio lungo e cupo come di bestia feroce. Il cuore nella gola le sembrava tutt’a un tratto piccolissimo, e martellava all’impazzata. Doveva trattarsi non di uno ma di tre, cinque, dieci lupi grigi e grossi che senza sforzo avrebbero fatto scempio del suo corpo, prima di dare l’assalto a quei quattro conigli puzzolenti che intanto seguitavano a fottersi nella garenna.
La piccola Martina ad occhi chiusi e mani giunte, in ginocchio, compitava preghiere a fior di labbra, tremava e aspettava.
L’ululato dei lupi: Caiiii caiii cai-caii...!
Al culmine della disperazione e della paura, si era messa a piangere. Aveva riaperto gli occhi. Qui gli era apparsa una visione del tutto inaspettata: dietro la curva delle colline, in fondo alla strada bianca, stava lentamente affacciandosi il muso di un’automobile nera, lunga, scintillante, bellissima. Di automobili, lei, ne aveva viste quasi niente, solo le utilitarie di qualche contadino del paese che aveva fatto un poco più di grano degli altri. Ma si trattava di macchine minuscole, panettoncini ridicoli e col muso tutto rincagnato come se avessero già fatto l’incidente, macchine a cui i compaesani tiravano i calci nelle gomme per vedere se erano gonfie per davvero: nulla a che vedere, dunque, con questa qui.
Quell’incontro non l’avrebbe più dimenticato. L’automobile bellissima si era fermata proprio di fronte a lei. Un finestrino si era abbassato e ne era uscita una mano guantata che le faceva cenno di avvicinarsi.
Signorina, ci saprebbe per caso indicare la strada per Rovigo, di grazia?
Dentro la vettura sedeva una coppia di mezz’età: un uomo in abito di gessato coi baffi impomatati e una signora con un abito a fiorami che culminava in maniche a sbuffo, e poi portava un cappello a tesa larga dove, anche nell’ombra dell’abitacolo, s’intravedeva una magnifica composizione floreale su cui svettava una aigrette forse verde, o forse blu. La piuma soprattutto l’aveva colpita, perché una specie di occhio incastonato su di essa sembrava sogguardarla, soppesarla, giudicarla dalle soglie di un mondo luccicante e sconosciuto.
Ancora in ginocchio, la piccola Martina aveva farfugliato qualcosa vergognandosi come una ladra di non sapere l’italiano. L’uomo impomatato aveva fatto un cenno spazientito colla mano, il finestrino si era sollevato di nuovo, e la macchina era ripartita raschiando sulla breccia come le zampe di cento lupi.
Ma molto altro ancora doveva succedere in quel pomeriggio di pioggia. Perché, mettendosi sulla via dei campi in direzione di casa, improvvisamente aveva sentito qualcosa di caldo scenderle in mezzo alle gambe. Alzando l’incerata aveva visto un rivolo rosso che le scorreva dalla coscia giù giù fino al calcagno: era arrivato il suo primo sangue.
A casa, il babbo pieno di meraviglia e gratitudine l’aveva abbracciata per la prima e ultima volta nella sua vita, e le aveva fatto un sacco di domande su quell’unico asparago. Voleva sapere come e perché, e dove esattamente, e in che direzione puntava, e se fosse proprio tutto solo o avesse anche dei compagni... le parole dall’eccitazione gli si sfarinavano in bocca in grumi di vocali.
Ma la piccola Martina, ormai, non condivideva in nulla quell’eccitazione. Aveva aspettato che il babbo finisse di tempestarla di domande col suo fiato che sentiva di pane e cipolla prima di chiedergli l’unica cosa che per lei contava veramente. Si trattava dell’automobile, ovviamente, e di quella gente dentro all’automobile.
Quelli, aveva spiegato il babbo, Sono dei signori. Non sono gente come noi. Sono gente che possiede, sono dei padroni
E così, all’età di tredici anni, la piccola Martina penetrava la verità tutta intera, e imparava che al mondo ci sono i braccianti e ci sono i padroni, gli sfruttati e gli sfruttatori. Aveva ripensato alla dama col cappello fiorito e la piuma sul cappello, e l’occhio sulla piuma, e aveva deciso che lei, Martina, sarebbe stata dalla parte dei padroni. Questo era un proposito a cui avrebbe tenuto fede per il resto della vita.
Quello stesso giorno, su ordine del babbo, la mamma l’aveva portata in città per comprarle un vestito. Era la prima volta che la piccola Martina scendeva in città, e stentava a credere ai suoi occhi. Aveva visto le vetrine luccicanti, le pubblicità luminose che zampillavano sopra alla gente, le giostre, il selciato e i portici del centro, la folla involtata nei cappotti di lana e di pelle, e aveva sentito il rombo delle macchine e l’odore dello zucchero filato. La vita così piena non era mai riuscita neanche a immaginarla. E così, quando era venuta l’ora di tornare a casa, sulle sue colline lei non aveva più voluto tornarci. Si era aggrappata a un lampione, prima, e poi si era messa a piangere e a strillare; era arrivata a minacciare con un sampietrino la mamma che le gridava:
Ma non ci vediamo più se fai così! Ti abbandoniamo proprio!
Che facessero pure, a lei non fregava nulla. Insomma, tanto aveva fatto e tanto aveva strillato che la mamma era stata costretta a metterla a pigione da una vecchia zia baffuta, una suora laica che borbottava in continuazione come una pentola di fagioli, girava per casa sempre e solo nuda coi seni che le arrivavano alle ginocchia, e che avrebbe costretto la piccola Martina a farle le spugnature tre volte al giorno.
I suoi genitori non li aveva più rivisti per davvero, e nemmeno le sue colline. Non le mancavano affatto. Ma anche in città non se la passava tanto bene. Ignorante e digiuna di sottigliezze com’era, a scuola non s’intendeva per niente colle compagne, e allo scadere dell’obbligo scolare una suora aveva convocato la zia a scuola. Sconsigliava di insistere cogli studi e consigliava invece di cercarsi un lavoro, uno qualsiasi e poco qualificato: la calzolaia, la sartina, la modista, l’operaia, la lavanderina, una roba così.
Ma la Martina che era uscita dalla scuola a sedici anni non era per niente la piccola Martina che ci era entrata solo tre anni prima. Per prima cosa, visto che si vergognava come una ladra delle sue origini e del suo dialetto natìo, aveva imparato l’italiano a menadito fino a nascondere quasi del tutto la parlata delle campagne. In secondo luogo, poi, dal giorno del menarca il suo corpo era sbocciato come un fiore in maggio, e adesso vantava due pocce e un culo tanto con cui non aveva durato fatica a trovarsi un lavoro da cameriera.
Ma, come vi dicevo, da quell’incontro fatto anni prima non si era mai più ripresa e mai, per un solo secondo, aveva smesso il proposito di diventare signora e padrona, e così aveva deciso di cercare lavoro non a Mestre ma sull’isola, in quel Campo Santa Margherita dove aveva sentito che andavano a bere tutti gli studenti di economia, che erano i figli dei signori.
Aveva lavorato lì qualche anno senza rimediare molto di più di qualche scottatura d’amore, qualche pizzicotto sul culo e le occhiate bavose di qualche studente avvinazzato e un po’ su di giri. Era proprio servendo ai tavoli di quel bar, alla fine, che avrebbe incontrato Lucio. Lucio veniva a fare aperitivo quasi tutte le sere con un amico suo: prendevano sempre lo spritz arancio e restavano fino a tardi. Dapprima la Martina non ci aveva fatto tanto caso, parendole questo Lucio uno dei tanti, ma quando aveva saputo che era uno studente di economia – e non uno come tutti gli altri, a giudicare dalla deferenza con cui lo salutavano i compagni – quando aveva appreso della reputazione brillante che lo precedeva dappertutto – un grande genio della matematica, si bisbigliava, uno destinato a una carriera folgorante, agli onori e alla gloria – allora la Martina aveva cominciato a considerarlo, quel ragazzo non bello e neppure piacente, nella luce dorata della sua reputazione e del suo fulgido avvenire, trovando che fosse fatto della stessa materia dei sogni. Dal bancone del bar lo guardava sospirando e pensando che era proprio l’uomo che faceva al caso suo. Lo vedeva in un concatenamento di sogno già assieme al lavoro di responsabilità, alla casa coi pavimenti di marmo rosa, al cane a pelo lungo, alla domestica in grembiale e spolverino e a un paio di bambini biondo kinder. Nel sogno lei sedeva di fianco a lui ricalcandosi sul capo il cappello a tesa larga su cui troneggiava la composizione floreale, e sul cappello la piuma, e sulla piuma l’occhio. Diomio, pensava la Martina guardando quell’uomo mezzo ciucco e decisamente drogato, Questo qui non è un uomo, è un intero disco di Baglioni. Aveva trovato il trucco per tralignare, per evadere dal suo destino di campagna pieno di asparagi e conigli, e pane colla cipolla, così pensava lei.
E così, quando qualche mese più tardi s’erano sposati, lei non capiva più in sé dalla gioia e non era mai stata così innamorata della vita. Certo, si vergognava ancora come una ladra delle sue origini e per questo si era fabbricata un passato qualsiasi, un passato qualunque di suore e orfanotrofi, ma non si trattava in fondo di un grande sacrificio. Il sentimento era genuino. Tutto andava bene, quell’anno, e colla laurea di Lucio ormai prossima lei giungeva finalmente alle soglie del suo sogno di bambina.
Ma il tempo passava e Lucio non si laureava. Aveva toppato la sessione di maggio, poi quella di settembre, quella di gennaio, il grande genio... Quando non se ne stava in casa a rivoltarsi nell’adorazione di lei, a crogiolarsi nel riverbero del suo splendore guardandola lungamente negli occhi e sussurrando, di tanto in tanto:
Polpetta
Ebbene, quando Lucio non era a casa passava la giornata a fare gli spritz in Campo Santa Margherita con un suo amico buono a nulla, un musicista scapato con cui parlava di corse di cani, geometria a quattro dimensioni e altre frescacce simili. Argomenti oziosi, certo, e da cui si poteva cavare ben poca grana – per non dire perderne – ma se c’era una cosa che la Generalessa aveva imparato nella sua vita era aspettare.
E allora s’era messa lì, sul ciglio di quel matrimonio, ad aspettare che il marito facesse qualcosa della sua vita così come, molti anni prima, aveva aspettato gli asparagi seduta sulla sediolina di rafia al centro di quel campo immenso. E per aiutarlo, per sostentarlo durante gli studi, s’era persino risolta ad aprire un esercizio qualsiasi: un negozio di parrucche.
Una notte dei suoi trent’anni che si era svegliata per andare a pisciare, la Generalessa aveva per sbaglio conquistato due certezze. La prima era che quella bellezza che l’aveva resa tanto popolare nei bacareti di Santa Margherita, e con cui aveva accalappiato il marito, era solo un accidente della freschezza e della gioventù. Adesso che aveva travalicato il picco della vita e non le rimaneva che invecchiare, lo specchio impietoso la ritraeva di giorno in giorno più bassa e atticciata.
La seconda certezza era che, al contrario di Lucio, lei non possedeva nessun talento. Nessuna potenza nascosta nelle pieghe del suo essere. Dai giorni nei campi fino alla scuola e ai bacari, e infine al matrimonio, non s’era mai rivelato in lei nulla che eccedesse il mediocre. Qualunque cosa desiderasse nella vita, dunque, avrebbe dovuto fare assegnamento sul marito. Questo era il senso di quanto le era sfuggito tornando a letto e guardando il marito ronfare sul cuscino sbavato colla bocca aperta e il fiato pesante della notte:
Sei il mio unico bene...
Lucio però non dormiva per davvero. Nel buio si era stropicciato gli occhietti neri e si era tirato su a sedere. La Generalessa, imbarazzatissima da quell’imperdonabile illanguidimento sentimentale, s’era affrettata ad aggiungere:
...mobile o immobile. Il mio unico capitale. Senza di te io come faccio? Vorrei che ti facessi un’assicurazione sulla vita.
Ma Lucio, che era sibbene perdutamente innamorato, ma di certo non stupido, aveva saputo dare a quelle parole il loro giusto peso, e la mattina dopo era corso a sottoscrivere la polizza assicurativa anche solo per salvare il pudore dei sentimenti di lei.
C’era infatti una terza cosa di cui la Generalessa si era resa conto quella stessa notte, e poi una quarta. Lucio l’amava alla follia. La quarta e ultima cosa, invece, era che lei del marito non capiva nulla. Nulla! Per vent’anni ancora si sarebbe coricata tutte le sere di fianco a un uomo di cui non sapeva e non capiva nulla.
[NOTA: MA CHI E' VERAMENTE LUCIO? PER SAPERLO, TENETE D'OCCHIO LE USCITE DI GIUGNO]